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di Carlo Musilli
C'è il partito del "meglio che niente" e quello del "si poteva fare di più". Poi c'è la posizione di chi ritiene in senso lato che liberalizzare sia dannoso per l'economia. Ma a prescindere dal giudizio di merito, il decreto varato venerdì sera dal governo Monti ci racconta anche una storia politica. Ci dà qualche dettaglio in più per capire di chi è l'Italia oggi e di chi probabilmente continuerà a essere nel prossimo futuro.
Gli aspetti fondamentali sono due: il rapporto dell'Esecutivo con il Pdl e i conflitti d'interesse che zavorrano la squadra del Professore. Sul primo versante, è evidente come il pacchetto di liberalizzazioni non danneggi in modo sostanziale l'establishment berlusconiano, la sua politica e la sua visione della società. Anzi, spuntando la pallottola del decreto, i pidiellini hanno limitato i danni al minimo proprio sul versante che li vedeva più vulnerabili. Evidentemente le pressioni di Gianni Letta sul sottosegretario Antonia Catricalà hanno funzionato. E chissà se il Pd troverà il modo di uscire altrettanto indenne dalla riforma del lavoro, ormai alle porte.
L'unica vera sconfitta per Silvio Berlusconi è arrivata sul campo delle frequenze televisive. Con una mossa chirurgica, da politicante consumato più che da banchiere, il ministro Corrado Passera ha deciso di congelare per tre mesi - ma non di revocare - il beauty contest varato dal Cavaliere (la procedura che avrebbe di fatto regalato i nuovi canali digitali a Mediaset, Rai e Telecom Italia). In questo modo Passera si è attribuito il ruolo di mediatore fra le parti, lasciando pendere una spada di Damocle hi-tech sulle teste del Pdl.
Tenere in sospeso la vicenda vuol dire mantenere alta la tensione fra i berluscones - che fra il Parlamento e l'azienda del padrone non avranno dubbi su cosa scegliere - e intanto far passare il tempo. E' probabile che alla fine l'Agcom troverà una soluzione di compromesso (asta a pagamento più generoso contentino al Biscione), ma quando ciò avverrà i decreti più controversi saranno già diventati legge. E sarà ormai troppo tardi per andare alle elezioni anticipate.
Il secondo punto fondamentale è quello che riguarda le dinamiche interne al drappello dei tecnici. Quando si tratta di legiferare è prassi che i governanti cedano alle pressioni delle lobby di turno. Ed essendo questo un governo di banchieri, non stupisce che le mancanze più gravi dell'ultimo decreto riguardino proprio le banche e le loro cugine, le assicurazioni.
Partiamo dagli istituti di credito. Nella versione finale del provvedimento troviamo una brutta sorpresa per quanto riguarda il nuovo conto corrente di base (quello a costi ridotti, pensato ad esempio per gli anziani, che dovranno aprirlo per legge se vogliono incassare pensioni superiori a mille euro). Il funzionamento del nuovo tipo di conto non sarà stabilito dal governo - com'era scritto nelle bozze precedenti - ma da un'intesa fra banche, Poste e Banca d'Italia. Vale a dire i diretti interessati. Non basta: anche la riduzione delle commissioni sull'utilizzo della moneta elettronica è affidata a un accordo fra le parti in causa (Associazione bancaria, consorzio bancomat e Associazione dei prestatori di servizi a pagamento).
Un altro aspetto riguarda le polizze vita che le banche obbligano a stipulare per accendere un mutuo. Di solito la compagnia assicuratrice è legata alla banca stessa, che così incrementa i profitti. L'Antitrust aveva suggerito di abolire il binomio obbligatorio polizza-mutuo, ma il governo si è limitato a imporre agli istituti di credito di presentare al cliente i preventivi di almeno due diverse compagnie. C'è da scommettere che le banche sapranno indirizzare a dovere i loro clienti.
Un regalino molto simile è stato pensato anche per le compagnie d'assicurazione. Dal punto di vista dei cittadini, la scelta più vantaggiosa sarebbe stata di sostituire i cosiddetti agenti monomandatari con i broker assicurativi. Si trattava di rimpiazzare le figure legate ai singoli gruppi (di cui vendono i prodotti) con dei professionisti pagati direttamente dai clienti e quindi interessati a suggerire di volta in volta le soluzioni più convenienti per i consumatori piuttosto che per le compagnie. Anche in questo caso niente da fare. Il decreto - che peraltro parla solo dell'RC auto - obbliga gli agenti ad informare i clienti sulle proposte di almeno tre compagnie. Ma secondo voi vi consiglieranno la loro polizza o quella della concorrenza?
Fra le altre posizioni di potere che non sono state intaccate, spicca quella di Trenitalia. Dal decreto sono scomparse in corso d'opera almeno due misure fondamentali: la scissione fra la holding Fs e la rete ferroviaria Rfi (rinviata a una decisione della nuova Autorità dei Trasporti) e l'obbligo di gara per la concessione del trasporto regionale da parte delle Regioni. Per non parlare poi dell'inchino fatto all'Unione Petrolifera, che ha portato a ridurre drasticamente le liberalizzazioni in materia di carburanti.
Ci sono infine le querelle legate a quelle categorie che, pur avendo un impatto economico minore, suscitano inspiegabilmente un'attenzione mediatica senza pari. Vale la pena di rifletterci, altrimenti si rischia di perdere contatto col quadro generale. E si finisce col pensare che il rilancio del Pil dipenda solo dai taxi.
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di Mariavittoria Orsolato
Nove milioni di processi da smaltire tra civile e penale, migliaia di procedimenti per errore giudiziario o ingiusta detenzione e una valanga di richieste d’indennizzo per le cause che invecchiano con i querelanti. Che la giustizia italiana fosse un colabrodo lo si sapeva da un bel po’ e l’altro ieri , nella sua relazione a Montecitorio, la ministra Paola Severino ha snocciolato impietosa i numeri di quell’inefficienza che, nei termini di produttività tanto cari al governo tecnocratico, ci starebbe costando l’!% del Pil.
Il ministro ha esordito sottolineando innanzitutto l'esplosione di richieste di indennizzo per i processi troppo lenti, passate dalle 3.580 del 2003 alle 49.596 del 2010. Nel solo 2011, infatti, lo Stato ha dovuto spendere ben 84 milioni di euro per risarcire i cittadini che si sono appellati alla cosiddetta legge Pinto, che disciplina il ricorso straordinario in appello qualora un procedimento giudiziario ecceda i termine di durata ragionevole di un processo secondo i criteri fissati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
E, sempre nel 2011, lo Stato ha elargito risarcimenti per 46 milioni di euro a quanti hanno intentato causa, a ragione, per ingiusta detenzione o errore giudiziario, col risultato che solo per i rimborsi dell’anno appena trascorso se ne sono andati in fumo 130 milioni di euro. Tutto perché, secondo i dati elaborati da via Arenula, in Italia i processi da smaltire sono un’infinità e prima che questi vengano conclusi possono passare oltre sette anni per il civile e quasi cinque nel penale.
Il sistema carcerario poi, se possibile, va anche peggio: "Sento fortissima - ha detto il ministro - la necessità di agire in via prioritaria e senza tentennamenti per garantire un concreto miglioramento delle condizioni dei detenuti". Aldilà dei dati numerici comunque aberranti -sono 66.897 i detenuti che soffrono modalità di custodia francamente inaccettabili per un paese come l'Italia - secondo il Guardasigilli "siamo di fronte a un'emergenza che rischia di travolgere il senso stesso della nostra civiltà giuridica, poiché il detenuto è privato delle libertà soltanto per scontare la sua pena e non può essergli negata la sua dignità di persona umana". Ma di amnistia o revisione di leggi affolla carcere come la Bossi-Fini o la Fini-Giovanardi, non se ne parla proprio.
Fatti i conti del “disastro giustizia” e assolto il suo dovere di esimia tecnocrate, Paola Severino è comunque riuscita nel miracolo di mettere d’accordo Pd, Pdl e Terzo Polo: un avvenimento che, per quanto riguarda il tema della giustizia, non si verificava da quasi 18 anni e con 424 sì, 58 no e 45 astenuti la Camera ha approvato la risoluzione unitaria presentata dai tre partiti che fino a tre mesi fa si scannavano sui processi e che oggi, di fatto, costituiscono la maggioranza del governo Monti. E il segreto del successo della Guardasigilli sta proprio nell’aver eliminato dal piatto tutti i possibili punti di attrito politico.
Nella relazione della Severino mancano infatti le leggi ad personam berlusconiane - cancellazione del falso in bilancio e prescrizione breve tra tutte - e gli effetti catastrofici che hanno avuto sulla macchina della giustizia, così come non c’è il minimo accenno a riforme delle norme sulle intercettazioni o sul funzionamento dei processi, a interventi per allungare o accorciare i tempi della prescrizione, alle tensioni tra toghe e politici, alla terzietà del giudice o alla riforma della professione forense.
Il suo è stato solo un lungo excursus sulle deficienze del settore, sulle carenze del sistema e sulle difficoltà che si possono incontrare nel difficile rapporto cittadino-tribunale: la fiera dell’ovvio, una mera constatazione del fatto che, allo stato attuale, le cose così non vanno.
Quello scarno “visto, si approvi” in calce alla mozione unitaria di Pd, Pdl e Terzo Polo, non può dunque significare altro che la precisa volontà di non dividersi, di non spaccare una maggioranza tanto composita quanto assolutamente di facciata e di certo funzionale più al centrodestra di Berlusconi che al centrosinistra di Bersani.
Perché a voler scrivere un documento, anche breve, ecco che il Pdl chiederebbe di infilarci dentro le intercettazioni, il processo breve e quello lungo mentre, dall’altra parte, il Pd si vedrebbe costretto a chiedere che non solo non si parli d’intercettazioni ma, come ha detto Donatella Ferranti in aula, che si dica che proprio per colpa di quelle leggi adesso “le carceri esplodono”.
Che il mandato della Severino non darà avvio alla stagione delle grandi riforme sulla giustizia lo sanno anche i muri, così come è ormai pacifico che gli obbrobri legislativi escogitati per mettere Berlusconi al riparo dai giudici rimarranno al loro posto. Dire che questa è “l’ennesima occasione mancata”, comincia a diventare il ridondante refrain dell’esecutivo Monti.
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di Rosa Ana De Santis
Da 38 giorni 3 lavoratori delle imprese fornitrici di servizi a bordo dei convogli notturni, legati a Trenitalia, vivono arrampicati su una torre, al freddo, nella speranza di sensibilizzare i pendolari e l’azienda sulla loro oscura sorte di lavoro, definita genericamente di “riformulazione del servizio”. Tradotto significa tagli, licenziamento parziale o totale, una variabile all’ordine del giorno della rinegoziazione del contratto generale tra lo Stato e Trenitalia e la conseguente valutazione economica dei servizi considerati ormai inefficienti.
Ad esempio i viaggi notturni, con un flusso passeggeri diminuito del 60% negli ultimi dieci anni. I sindacati chiedono insistentemente al Ministro Passera di affrontare la situazione, perché la totale assenza di clausole di ricollocamento lascerebbe a piedi i numerosi lavoratori in esubero che ci sarebbero se le imprese vincitrici del bando di gara per i servizi di logistica, pulizia e manutenzione fossero le stesse di ora (Wasteels, Servirail, Rsi).
L’AD di Ferrovie, Moretti, ha risposto ricordando che Trenitalia non si occupa di welfare. In un momento di perdite secche e di concorrenza ormai prossima con il treno del futuro di nome Italo, nell’unico ramo in cui le Ferrovie non sono in perdita, ovvero l’alta velocità, il problema dei sindacati deve sembrare null’altro che un fastidioso sassolino nella scarpa. Oliviero, Giuseppe e Carmine, questi i loro nomi, hanno capito che per avere almeno attenzione non devono mollare e per questo non hanno intenzione di scendere dalla torre del binario 21 della Stazione Centrale di Milano.
Fino ad ora 24 mesi di tempo per trovare loro una nuova collocazione è stata l’unica speranza annunciata da chi li ha lasciati a casa e su questo vago annuncio la vita dei tre operai si è fermata, sospesa nel vuoto, almeno per i 24 mesi del limbo sociale o dell’inferno cui sono stati condannati insieme alle loro famiglie.
Anche il Natale è passato lassù, nei fischi dei macchinisti che li salutano ad ogni partenza, tra la folla che forse anche a questa scena si è ormai abituata.
I sindacati tentano di portare in agenda i rimedi a questa nuova schiera di disoccupati, invocano ammortizzatori sociali, il ripristino di collegamenti notturni che, cancellati di colpo, hanno tagliato a metà, come agli albori dell’unità d’Italia, il nord dal sud, togliendo possibilità di spostarsi soprattutto a quanti possono investire solo cifre a basso costo che solo questi treni ormai consentono per tratte molto lunghe.
La CGIL in testa ha chiesto ai Ministri Passera e Fornero di convocare con urgenza un tavolo tecnico con Ferrovie, perché accanto al tema del lavoro c’è quello delicatissimo e strategico per il paese, dei collegamenti ferroviari Nord- Sud e della comunicazione interna del paese che valutazioni aritmetiche di profitto stanno progressivamente oscurando.
Un modo bizzarro di onorare il 150° dell’Unità d’Italia quello di chi pensa di poter trattare le vie di comunicazione di un paese al pari di un prodotto commerciale come un altro, dopo averlo gestito con i soldi di tutti i contribuenti. Sempre troppo pochi e sempre poco chiaramente investiti e spesi.
Quelli che viaggiano in condizioni sempre peggiori e quelli che arrampicati sul tetto di una stazione raccontano un po’ a tutti che non c’è simbolo più azzeccato di un paese che ha tirato il freno, se non quello di un treno che, mentre un tempo ricuciva l’Italia come una cerniera, ora non lascia più la sua stazione.
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di Rosa Ana De Santis
Nonostante la pesante crisi economica che sta mettendo in ginocchio gli italiani, grazie anche ai rincari e al governo delle tasse, gli affari del riarmo vanno a gonfie vele. Questo emerge dal report realizzato dall’Archivio Disarmo con analisi dei numeri dal 2007 ad oggi. Il picco del triennio lo si è avuto nel 2008 con 21.132,4 milioni di euro, proprio quando la crisi da “spauracchio” iniziava ad assumere anche qui connotati concreti. Peraltro al tetto delle spese vanno aggiunte le voci di competenza militare elargite da altri ministeri, Ministero dell’Istruzione compreso che rendono il bilancio della Difesa sempre di dubbia interpretazione date le voci scorporate di cui si compone.
L’anno a venire non promette niente di buono con il celebrato “soldato del futuro” munito di armi del tutto nuove e di un equipaggiamento al limite del miglior action- movie. E’ vero che la Difesa non può essere trascurata in una politica estera sempre più impantanata in quella statunitense a caccia di nuovi teatri bellici, ma è altrettanto vero che questo paese, in nome della crisi, ha usato la scure sui diritti fondamentali dei cittadini: spese sociali, istruzione, sanità.
Se i tagli selvaggi sono così necessari per scongiurare la bancarotta del paese, non si può decidere di applicarli minando l’integrità dei diritti civili e individuali, per poi foraggiare il business di qualche sigla come Lockheed Martin o Alenia. Solo nel 2011 sono stati spesi per i caccia bombardieri 470milioni di euro.
Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell'Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, invita ad “una razionalizzazione delle spese militari”, anche perché proprio su questa materia economica e politica così delicata, lo Stato Italiano ha perduto una quota importante di sovranità schiacciandosi sulla Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC).
La recente vicenda dell’acquisto di F35 aveva già portato all’attenzione dell’opinione pubblica il problema, a fronte di un progressivo svuotamento del servizio civile: un solo F35 per l’economia dello stato equivale a 25 mila giovani in servizio in meno per un anno. Nel 2013 non ci saranno più ragazzi e ragazze nel Servizio Civile. L’Italia si è impegnata all’acquisto di cacciabombardieri per un importo con cui potrebbe mettere in sicurezza 14mila scuole che non rispettano la legge 626 (ora modificata nel decreto Lgs 81 del 2008 ndr).
Nel mezzo della polemica è intervenuto il Ministro della Difesa, l’ammiraglio Di Paola, annunciando di avere in programma di rivedere e ridimensionare il tutto, compresi gli sprechi e gli organici, senza alcuna preclusione per evitare un collasso del mondo della Difesa.
Nell’ultimo question time alla Camera dei Deputati il Ministro ha comunque difeso l’investimento dei cacciabombardieri nella interezza, che dovrebbe impegnare l’Italia fino al 2026 per l’acquisto di 131 F-35 per un totale di 15 miliardi di euro, adducendo la necessità di modernizzare l’equipaggiamento aerotattico ed evidenziando l’incremento di occupazione del settore che se ne ricaverebbe.
Il governo è ufficialmente in riflessione e probabilmente ritoccherà la quantità degli aerei, ma gli affari per le aziende andranno avanti, nonostante tutto. In nome della crescita e dell’occupazione chiosa il Ministro. Quella del settore bellico: l’unica al momento in cui si sia impegnato il governo Monti, oltre che al sostegno del sistema bancario.
Senza ripescare il linguaggio di un pacifismo che non solo non è mai stato percorribile, ma ancora meno lo è in questo scenario politico contingente, basta rievocare la linea dell’austerità chiesta dal governo Monti per usare la forbice anche nel mondo militare. Gli obiettivi di ridimensionamento non riguarderanno, comunque, le missioni internazionali. Il Ministro è stato chiaro: il prestigio del teatro operativo, che costa caro comunque, non è tra le voci del rigore economico in nome di una volontà, tutta politica, in cui non abbiamo sovranità e di un programma economico, che ha individuato nuove colonie da spolpare, che va ben oltre le commesse spicciole per l’acquisto di armi e tecnologie.
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di Carlo Musilli
Cosentino dalla galera alla libertà. Maroni dall'esilio al reintegro nelle fila del partito. Due piroette spettacolari, entrambe realizzate nell'arco di poche ore: mancava solo il tutù la settimana scorsa a Umberto Bossi. Nel vano tentativo di riaffermare la propria leadership sulla Lega, riallacciando allo stesso tempo i rapporti con Berlusconi, il Senatùr ha reso più evidente che mai agli occhi degli italiani quello che il Carroccio è diventato: un'accolita allo sbando, lacerata da una frattura verticale troppo profonda per essere sanata. E dopo aver smarrito quasi tutto il suo carisma personale, l'ex alfiere del "celodurismo" sta lasciando per strada anche il suo bene più prezioso, la ragione prima delle sue fortune politiche: il rapporto privilegiato con la base territoriale.
Ironia della sorte, è stata una goccia campana a far traboccare il vaso padano. Il voto in Parlamento sulle sorti di Nicola Cosentino, deputato Pdl accusato di avere rapporti con la Camorra, sembrava aver alzato il sipario sul duello finale fra Bossi e il pupillo di un tempo, Roberto Maroni. Appoggiato dalla segreteria di via Bellerio, Bobo aveva assicurato che la Lega si sarebbe schierata a favore dell'arresto. E così è stato, almeno nella Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera. Quando però la questione è arrivata in Aula, il Senatùr ha ingranato la retromarcia: smentendo clamorosamente l'ex ministro dell'Interno, ha dato libertà di coscienza ai deputati leghisti. Risultato: Cosentino dorme ancora nel suo letto invece che a Poggioreale.
Gli elettori che dai microfoni di Radio Padania lo hanno accusato di aver "salvato un camorrista", evidentemente non hanno urlato abbastanza forte. Subito dopo il colpo di mano a Montecitorio, infatti, Bossi ha pensato bene di continuare sulla linea dispotica. Venerdì sera ha inviato a tutti i circoli locali del partito un fax dal sapore mussoliniano in cui ordinava ai sudditi di sospendere tutte le manifestazioni pubbliche che prevedevano la presenza dell'empio Maroni. Una vera bolla di scomunica in salsa padana, sinistro preludio all'espulsione dal partito.
Per risvegliarsi da questo estemporaneo delirio di onnipotenza il Senatùr ha impiegato una mezza giornata scarsa. Domenica in una patetica intervista a La Padania è arrivato così il secondo volteggio, ancora più imbarazzante del primo: "Nessun veto, io e Maroni presto faremo un comizio insieme. Chi spera in una Lega divisa rimarrà deluso". Forse il fax era stato scritto dai temibili comunisti che sostengono Mario Monti.
Insomma, la dimostrazione di forza che gli era riuscita in Parlamento grazie ai 20/30 deputati che ancora gli sono fedeli è miseramente fallita appena messo piede fuori dal Palazzo. Due ragioni hanno indotto Bossi a più miti consigli: in primo luogo la protesta della famosa base, già indignata per il voto su Cosentino e per la grottesca vicenda dei rimborsi elettorali investiti in Tanzania. Sembra che i militanti stiano addirittura preparando una dura contestazione per la manifestazione che si terrà domenica a Milano. Pensato in origine per serrare i ranghi contro il governo del Professore, il raduno rischia così di trasformarsi nel funerale della Lega unitaria.
In secondo luogo, la controffensiva di Maroni, che ha sfidato pubblicamente l'editto bossiano annunciando la propria partecipazione prima a Che tempo che fa, poi all'assemblea di Libera Padania a Varese, in programma per mercoledì. Ma, soprattutto, Bobo ha minacciato di chiedere la conta dei propri sostenitori nei congressi provinciali e nell'eventuale consiglio federale (invocato da più parti). Nelle amministrazioni locali del nord, l'esercito dei maroniani è molto più vasto di quanto si pensi e sarebbe in grado di sovvertire in via definitiva gli equilibri interni al partito, consegnando a Bossi un biglietto di sola andata per la pensione.
Su queste basi viene da pensare che al Senatùr converrebbe tener buono il suo numero due, o quantomeno non dargli pretesti troppo invitanti per consumare lo scisma. Allora perché ha scelto la strada dello scontro frontale, salvo poi pentirsi fulmineamente, condannando se stesso e la propria cerchia a una miserevole figura?
Il fulcro di tutto è il rapporto con il Pdl, da cui dipendono il futuro e la stessa sopravvivenza del Carroccio. Come un Gattopardo padano, Bossi vorrebbe cambiare tutto perché nulla cambi: il suo obiettivo è andare alle elezioni anticipate con l'attuale legge elettorale che, non consentendo agli elettori di esprimere preferenze sui deputati, riconsegnerebbe lo scettro del potere agli adepti del cerchio magico, che tornerebbero ad allearsi con i berluscones. Maroni, al contrario, vuole dire addio al Porcellum e sfruttare il governo tecnico per organizzare un nuovo centrodestra composto da Lega, Pdl e Udc, ma senza Bossi e Berlusconi. Non sarà una transizione breve, ma il processo è iniziato. E per salvarsi il Senatùr sarà costretto a volteggiare ancora.