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di Rosa Ana De Santis
Da 38 giorni 3 lavoratori delle imprese fornitrici di servizi a bordo dei convogli notturni, legati a Trenitalia, vivono arrampicati su una torre, al freddo, nella speranza di sensibilizzare i pendolari e l’azienda sulla loro oscura sorte di lavoro, definita genericamente di “riformulazione del servizio”. Tradotto significa tagli, licenziamento parziale o totale, una variabile all’ordine del giorno della rinegoziazione del contratto generale tra lo Stato e Trenitalia e la conseguente valutazione economica dei servizi considerati ormai inefficienti.
Ad esempio i viaggi notturni, con un flusso passeggeri diminuito del 60% negli ultimi dieci anni. I sindacati chiedono insistentemente al Ministro Passera di affrontare la situazione, perché la totale assenza di clausole di ricollocamento lascerebbe a piedi i numerosi lavoratori in esubero che ci sarebbero se le imprese vincitrici del bando di gara per i servizi di logistica, pulizia e manutenzione fossero le stesse di ora (Wasteels, Servirail, Rsi).
L’AD di Ferrovie, Moretti, ha risposto ricordando che Trenitalia non si occupa di welfare. In un momento di perdite secche e di concorrenza ormai prossima con il treno del futuro di nome Italo, nell’unico ramo in cui le Ferrovie non sono in perdita, ovvero l’alta velocità, il problema dei sindacati deve sembrare null’altro che un fastidioso sassolino nella scarpa. Oliviero, Giuseppe e Carmine, questi i loro nomi, hanno capito che per avere almeno attenzione non devono mollare e per questo non hanno intenzione di scendere dalla torre del binario 21 della Stazione Centrale di Milano.
Fino ad ora 24 mesi di tempo per trovare loro una nuova collocazione è stata l’unica speranza annunciata da chi li ha lasciati a casa e su questo vago annuncio la vita dei tre operai si è fermata, sospesa nel vuoto, almeno per i 24 mesi del limbo sociale o dell’inferno cui sono stati condannati insieme alle loro famiglie.
Anche il Natale è passato lassù, nei fischi dei macchinisti che li salutano ad ogni partenza, tra la folla che forse anche a questa scena si è ormai abituata.
I sindacati tentano di portare in agenda i rimedi a questa nuova schiera di disoccupati, invocano ammortizzatori sociali, il ripristino di collegamenti notturni che, cancellati di colpo, hanno tagliato a metà, come agli albori dell’unità d’Italia, il nord dal sud, togliendo possibilità di spostarsi soprattutto a quanti possono investire solo cifre a basso costo che solo questi treni ormai consentono per tratte molto lunghe.
La CGIL in testa ha chiesto ai Ministri Passera e Fornero di convocare con urgenza un tavolo tecnico con Ferrovie, perché accanto al tema del lavoro c’è quello delicatissimo e strategico per il paese, dei collegamenti ferroviari Nord- Sud e della comunicazione interna del paese che valutazioni aritmetiche di profitto stanno progressivamente oscurando.
Un modo bizzarro di onorare il 150° dell’Unità d’Italia quello di chi pensa di poter trattare le vie di comunicazione di un paese al pari di un prodotto commerciale come un altro, dopo averlo gestito con i soldi di tutti i contribuenti. Sempre troppo pochi e sempre poco chiaramente investiti e spesi.
Quelli che viaggiano in condizioni sempre peggiori e quelli che arrampicati sul tetto di una stazione raccontano un po’ a tutti che non c’è simbolo più azzeccato di un paese che ha tirato il freno, se non quello di un treno che, mentre un tempo ricuciva l’Italia come una cerniera, ora non lascia più la sua stazione.
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di Rosa Ana De Santis
Nonostante la pesante crisi economica che sta mettendo in ginocchio gli italiani, grazie anche ai rincari e al governo delle tasse, gli affari del riarmo vanno a gonfie vele. Questo emerge dal report realizzato dall’Archivio Disarmo con analisi dei numeri dal 2007 ad oggi. Il picco del triennio lo si è avuto nel 2008 con 21.132,4 milioni di euro, proprio quando la crisi da “spauracchio” iniziava ad assumere anche qui connotati concreti. Peraltro al tetto delle spese vanno aggiunte le voci di competenza militare elargite da altri ministeri, Ministero dell’Istruzione compreso che rendono il bilancio della Difesa sempre di dubbia interpretazione date le voci scorporate di cui si compone.
L’anno a venire non promette niente di buono con il celebrato “soldato del futuro” munito di armi del tutto nuove e di un equipaggiamento al limite del miglior action- movie. E’ vero che la Difesa non può essere trascurata in una politica estera sempre più impantanata in quella statunitense a caccia di nuovi teatri bellici, ma è altrettanto vero che questo paese, in nome della crisi, ha usato la scure sui diritti fondamentali dei cittadini: spese sociali, istruzione, sanità.
Se i tagli selvaggi sono così necessari per scongiurare la bancarotta del paese, non si può decidere di applicarli minando l’integrità dei diritti civili e individuali, per poi foraggiare il business di qualche sigla come Lockheed Martin o Alenia. Solo nel 2011 sono stati spesi per i caccia bombardieri 470milioni di euro.
Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell'Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, invita ad “una razionalizzazione delle spese militari”, anche perché proprio su questa materia economica e politica così delicata, lo Stato Italiano ha perduto una quota importante di sovranità schiacciandosi sulla Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC).
La recente vicenda dell’acquisto di F35 aveva già portato all’attenzione dell’opinione pubblica il problema, a fronte di un progressivo svuotamento del servizio civile: un solo F35 per l’economia dello stato equivale a 25 mila giovani in servizio in meno per un anno. Nel 2013 non ci saranno più ragazzi e ragazze nel Servizio Civile. L’Italia si è impegnata all’acquisto di cacciabombardieri per un importo con cui potrebbe mettere in sicurezza 14mila scuole che non rispettano la legge 626 (ora modificata nel decreto Lgs 81 del 2008 ndr).
Nel mezzo della polemica è intervenuto il Ministro della Difesa, l’ammiraglio Di Paola, annunciando di avere in programma di rivedere e ridimensionare il tutto, compresi gli sprechi e gli organici, senza alcuna preclusione per evitare un collasso del mondo della Difesa.
Nell’ultimo question time alla Camera dei Deputati il Ministro ha comunque difeso l’investimento dei cacciabombardieri nella interezza, che dovrebbe impegnare l’Italia fino al 2026 per l’acquisto di 131 F-35 per un totale di 15 miliardi di euro, adducendo la necessità di modernizzare l’equipaggiamento aerotattico ed evidenziando l’incremento di occupazione del settore che se ne ricaverebbe.
Il governo è ufficialmente in riflessione e probabilmente ritoccherà la quantità degli aerei, ma gli affari per le aziende andranno avanti, nonostante tutto. In nome della crescita e dell’occupazione chiosa il Ministro. Quella del settore bellico: l’unica al momento in cui si sia impegnato il governo Monti, oltre che al sostegno del sistema bancario.
Senza ripescare il linguaggio di un pacifismo che non solo non è mai stato percorribile, ma ancora meno lo è in questo scenario politico contingente, basta rievocare la linea dell’austerità chiesta dal governo Monti per usare la forbice anche nel mondo militare. Gli obiettivi di ridimensionamento non riguarderanno, comunque, le missioni internazionali. Il Ministro è stato chiaro: il prestigio del teatro operativo, che costa caro comunque, non è tra le voci del rigore economico in nome di una volontà, tutta politica, in cui non abbiamo sovranità e di un programma economico, che ha individuato nuove colonie da spolpare, che va ben oltre le commesse spicciole per l’acquisto di armi e tecnologie.
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di Carlo Musilli
Cosentino dalla galera alla libertà. Maroni dall'esilio al reintegro nelle fila del partito. Due piroette spettacolari, entrambe realizzate nell'arco di poche ore: mancava solo il tutù la settimana scorsa a Umberto Bossi. Nel vano tentativo di riaffermare la propria leadership sulla Lega, riallacciando allo stesso tempo i rapporti con Berlusconi, il Senatùr ha reso più evidente che mai agli occhi degli italiani quello che il Carroccio è diventato: un'accolita allo sbando, lacerata da una frattura verticale troppo profonda per essere sanata. E dopo aver smarrito quasi tutto il suo carisma personale, l'ex alfiere del "celodurismo" sta lasciando per strada anche il suo bene più prezioso, la ragione prima delle sue fortune politiche: il rapporto privilegiato con la base territoriale.
Ironia della sorte, è stata una goccia campana a far traboccare il vaso padano. Il voto in Parlamento sulle sorti di Nicola Cosentino, deputato Pdl accusato di avere rapporti con la Camorra, sembrava aver alzato il sipario sul duello finale fra Bossi e il pupillo di un tempo, Roberto Maroni. Appoggiato dalla segreteria di via Bellerio, Bobo aveva assicurato che la Lega si sarebbe schierata a favore dell'arresto. E così è stato, almeno nella Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera. Quando però la questione è arrivata in Aula, il Senatùr ha ingranato la retromarcia: smentendo clamorosamente l'ex ministro dell'Interno, ha dato libertà di coscienza ai deputati leghisti. Risultato: Cosentino dorme ancora nel suo letto invece che a Poggioreale.
Gli elettori che dai microfoni di Radio Padania lo hanno accusato di aver "salvato un camorrista", evidentemente non hanno urlato abbastanza forte. Subito dopo il colpo di mano a Montecitorio, infatti, Bossi ha pensato bene di continuare sulla linea dispotica. Venerdì sera ha inviato a tutti i circoli locali del partito un fax dal sapore mussoliniano in cui ordinava ai sudditi di sospendere tutte le manifestazioni pubbliche che prevedevano la presenza dell'empio Maroni. Una vera bolla di scomunica in salsa padana, sinistro preludio all'espulsione dal partito.
Per risvegliarsi da questo estemporaneo delirio di onnipotenza il Senatùr ha impiegato una mezza giornata scarsa. Domenica in una patetica intervista a La Padania è arrivato così il secondo volteggio, ancora più imbarazzante del primo: "Nessun veto, io e Maroni presto faremo un comizio insieme. Chi spera in una Lega divisa rimarrà deluso". Forse il fax era stato scritto dai temibili comunisti che sostengono Mario Monti.
Insomma, la dimostrazione di forza che gli era riuscita in Parlamento grazie ai 20/30 deputati che ancora gli sono fedeli è miseramente fallita appena messo piede fuori dal Palazzo. Due ragioni hanno indotto Bossi a più miti consigli: in primo luogo la protesta della famosa base, già indignata per il voto su Cosentino e per la grottesca vicenda dei rimborsi elettorali investiti in Tanzania. Sembra che i militanti stiano addirittura preparando una dura contestazione per la manifestazione che si terrà domenica a Milano. Pensato in origine per serrare i ranghi contro il governo del Professore, il raduno rischia così di trasformarsi nel funerale della Lega unitaria.
In secondo luogo, la controffensiva di Maroni, che ha sfidato pubblicamente l'editto bossiano annunciando la propria partecipazione prima a Che tempo che fa, poi all'assemblea di Libera Padania a Varese, in programma per mercoledì. Ma, soprattutto, Bobo ha minacciato di chiedere la conta dei propri sostenitori nei congressi provinciali e nell'eventuale consiglio federale (invocato da più parti). Nelle amministrazioni locali del nord, l'esercito dei maroniani è molto più vasto di quanto si pensi e sarebbe in grado di sovvertire in via definitiva gli equilibri interni al partito, consegnando a Bossi un biglietto di sola andata per la pensione.
Su queste basi viene da pensare che al Senatùr converrebbe tener buono il suo numero due, o quantomeno non dargli pretesti troppo invitanti per consumare lo scisma. Allora perché ha scelto la strada dello scontro frontale, salvo poi pentirsi fulmineamente, condannando se stesso e la propria cerchia a una miserevole figura?
Il fulcro di tutto è il rapporto con il Pdl, da cui dipendono il futuro e la stessa sopravvivenza del Carroccio. Come un Gattopardo padano, Bossi vorrebbe cambiare tutto perché nulla cambi: il suo obiettivo è andare alle elezioni anticipate con l'attuale legge elettorale che, non consentendo agli elettori di esprimere preferenze sui deputati, riconsegnerebbe lo scettro del potere agli adepti del cerchio magico, che tornerebbero ad allearsi con i berluscones. Maroni, al contrario, vuole dire addio al Porcellum e sfruttare il governo tecnico per organizzare un nuovo centrodestra composto da Lega, Pdl e Udc, ma senza Bossi e Berlusconi. Non sarà una transizione breve, ma il processo è iniziato. E per salvarsi il Senatùr sarà costretto a volteggiare ancora.
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di Carlo Musilli
La sobrietà del governo Monti un po' ci stava annoiando, ma per fortuna la Lega è tornata a scuoterci dal torpore. Uscite d'un balzo dalle tenebre dell'opposizione, le camicie verdi ci hanno finalmente regalato un'altra di quelle storielle grottesche e inverosimili da decennio berlusconiano. Riuscite a immaginare qualcosa di più assurdo di un finanziere padano e tarchiatello che si mette a fare business nell'Africa nera?
In realtà, la vicenda è seria ed è stata documentata riccamente da Giovanni Mari sul Secolo XIX. Nelle ultime due settimane del 2011, un conto leghista da 10 milioni di euro, gestito dal segretario amministrativo federale del Carroccio, Francesco Belsito, è stato letteralmente prosciugato. Gran parte dei quattrini è finita all'estero.
E con una certa fantasia: 1,2 milioni a Cipro, poco più di un milione in Norvegia e addirittura 4,5 milioni in Tanzania. Quest'ultima operazione vedrebbe coinvolto anche Stefano Bonet, consulente finanziario già invischiato in un oscuro fallimento societario nel 2010 e socio in affari del mitico Aldo Brancher. L'ex ministro-meteora, quello durato appena 17 giorni prima di essere indagato nell'inchiesta sulla scalata ad Antonveneta.
Ma torniamo a Belsito. Il George Soros del Carroccio è un fedelissimo del cerchio magico bossiano - a braccetto con Stefano Reguzzoni e Rosi Mauro - e risponde delle sue azioni direttamente al Senatùr. Pur infastidito dall'inchiesta, che giudica un'indebita "violazione della privacy", il tesoriere ha ammesso che quei soldi arrivano dai "rimborsi elettorali". Insomma, finanziamenti pubblici.
Ora, per quanto sembri incredibile, la legge non vieta espressamente ai partiti di prodursi in questo genere di operazioni con i soldi che ricevono. Ma il clamore suscitato dalla vicenda ha provocato diversi sudori freddi in via Bellerio. A voler fare gli idealisti, ad esempio, viene da chiedersi perché diavolo la Lega sia andata a investire in titoli norvegesi, che avevano un interesse del 3,5%, invece di puntare sui Bot italici, che all'epoca rendevano oltre il 6%. In questo caso la risposta è semplice: finanziariamente, si trattava di un investimento oculato in una moneta straniera. D'altra parte, che i leghisti non abbiano nulla a che spartire con l'amor di patria è cristallino da oltre vent'anni.
Il discorso si complica se scendiamo al basso livello della nostra politica. Sembra che la tempesta sui "danài" esportati abbia portato sconquasso nell'ultima riunione dei capi leghisti, intrecciandosi nientedimeno che con la richiesta d'arresto per Nicola Cosentino, il deputato campano del Pdl accusato dai magistrati di essere il referente politico del clan dei Casalesi.
Sull'onda dello sdegno per le operazioni del collega bossiano, Roberto Maroni ha avuto gioco facile a imporre la propria posizione: niente libertà di coscienza, Cosentino vada in galera. E così le camicie verdi hanno votato a favore delle manette nella Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera e si preparano a fare altrettanto in Aula. Con buona pace di chi sperava ancora in un margine di trattativa con il Pdl.
Mentre Bobo torna sugli scudi - cercando di farci credere che proprio lui, da numero due del partito, di questa storia non sapeva assolutamente nulla - tutt'intorno i maroniani intonano un canto funebre per Belsito. Lo vogliono silurare: un anello in meno nel cerchio magico.
Questa e altre materie - il bilancio del partito, ad esempio - saranno trattate in un consiglio federale da tenersi entro gennaio. Una riunione che lascia prevedere spargimenti di sangue, a sentir le parole di Matteo Salvini, il più agguerrito nel lanciar strali contro il panciuto tesoriere: "Dovrà rendere conto di ogni euro speso - tuona l'eurodeputato del Carroccio - ci sono diverse sezioni che chiedono 100 euro ai militanti per pagare l’affitto a fine mese. La Padania, il nostro quotidiano, versa in difficoltà economiche che tutti conoscono. E poi leggiamo della Tanzania…".
Forse bisognerebbe spiegare a Salvini in quali condizioni versa l'Italia, che - gli piaccia o no - è ancora il suo Paese. Con tutto il rispetto per le fervide sezioni di partito e per l'integerrimo quotidiano con cui ha avuto il privilegio di collaborare, l'onorevole dovrebbe pensare per un attimo ai disoccupati, ai precari e ai pensionati che ogni giorno tirano a campare. E poi leggono della Tanzania.
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di Rosa Ana De Santis
Se il 2011 si era chiuso con l’emergenza carceri, il nuovo anno è iniziato con 4 nuovi casi di suicidio. I numeri dei suicidi sventati e dei casi di autolesionismo che hanno richiesto il tempestivo intervento della polizia penitenziaria sono stati numerosi: oltre 10.000 tra il 2010 e il 2011. Le forze dell’ordine preposte alla vigilanza dei detenuti sono peraltro sotto organico e lavorano ormai a prezzo di forti sacrifici personali ed economici. Una bomba ad orologeria quella che si è innescata in tutte le prigioni del Paese: celle al collasso, condizioni igienico-sanitarie terribili, scarsa assistenza delle persone ammalate, processi di recupero ai minimi termini: l’abbandono è la regola.
I provvedimenti legislativi degli ultimi anni non hanno di fatto messo mano al sistema vigente e l’Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria chiede ormai un’amnistia e l’adozione di misure alternative per una serie di reati oggi trattati con la detenzione; misura, peraltro fallimentare vista la percentuale di recidive di reato superiore al 60%. Dormire in 4 persone con materassi a terra, in 2 metri quadri scarsi, non deve essere quello che si intende per detenzione rieducativa.
Il sovraffollamento è il problema primario di San Vittore - dove ci sono addirittura 13 bambini – come di Rebibbia, che ospita 1.712 detenuti contro i 1.200 previsti. Altra situazione denunciata dalle associazioni di volontariato è quella del carcere fiorentino di Sollicciano, con i suoi 1.015 detenuti contro i 500 che dovrebbe avere; a costoro, l’unica possibilità offerta è quella di rimanere nelle celle di pochi metri quadrati per 22 ore al giorno.
Il ministro della Giustizia, Paola Severino, all’emergenza carceri ha risposto per ora con il decreto legge sull’uso delle camere di sicurezza, cui ha risposto polemicamente e subito il Vice capo della Polizia, Francesco Cirillo, ricordando al ministro che oggi le camere di sicurezza in Italia sono assolutamente sprovviste dei servizi minimi da garantire alle persone in stato di fermo da 48 ore e in attesa di processo per direttissima, e finora hanno funzionato come luoghi di puro e veloce transito. Né il personale, né quelle celle, possono funzionare per allocare detenuti. Peraltro su queste camere di sicurezza non sono mai state date alle forze dell’ordine direttive chiare su come dovessero essere e funzionare.
Un vuoto che rispondeva al bisogno di considerarle dei parcheggi temporanei. Oggi, nell’intenzione del Ministro, il magazzino dovrebbe diventare un’appendice del carcere, senza sprecare mezza parola su come organizzarlo, né verificandone le condizioni in cui versano. Pensare di rispondere all’emergenza con una misura di soccorso, che continua a non voler entrare nel merito delle condizioni antidemocratiche della detenzione, è un modo per aggirare e rimandare il problema. Palliativi e provvedimenti difficili da giustificare, come quello del braccialetto elettronico costato 5 mila euro l’uno. Un modo bizzarro di investire denaro pubblico a fronte di ben altri problemi legati alla detenzione.
La tensione tra governo e polizia di queste ore racconta molto bene quanto la politica abbia finora voltato le spalle a chi lavora in un mondo tanto difficile e tanto fondamentale per la salvaguardia della democrazia e delle sue leggi. Tace il governo sull’urgenza della depenalizzazione di gruppi interi di reati legati alla Vandea ideologica razzistoide e xenofoba che ha avvelenato gli ultimi 20 anni. Il sovraffollamento delle carceri si deve infatti alla detenzione per reati che negli altri paesi d’Europa non esistono e per il ritardo cronico della magistratura inquirente e giudicante nell’evadere i casi giudiziari. Le cifre sui detenuti in attesa di giudizio sono in assoluto e in percentuale l’obbrobrio nell’obbrobrio.
D’altra parte la ristrettezza dei fondi stanziati per la giustizia rendono la carenza di personale e mezzi a disposizione della magistratura l’elemento decisivo per accumulare ritardi. E anche sul piano degli investimenti in infrastrutture e formazione del personale di sorveglianza i governi degli ultimi 20 anni hanno scrollalo le spalle. I sindacati di polizia rammentano al governo che dal 2000 ad oggi si sono uccisi 100 poliziotti penitenziari: 1 direttore di istituto e 1 dirigente regionale: un escalation che se risale, senza dubbio, a problemi di ordine personale, ci aiuta però anche a ricordare che oltre a mancare ormai ogni traccia d’umanità nella detenzione, mancano anche i più essenziali servizi di supporto psicologico specializzato a chi opera nel mondo della pena e della rieducazione.
Più di 200 anni fa Cesare Beccaria, sulla pena, scriveva che essa dovesse avere tre requisiti fondamentali: rapidità, certezza e umanità. Non uno di questi tre criteri è oggi onorato dal nostro sistema di giustizia. Per metodo, per penuria di mezzi e forse per mancanza di persuasione profonda, di cultura della pena. Quella di aver capito che l’infrazione della legge e la rieducazione del reo, insieme alla giusta punizione, é il battesimo di un’intera comunità nazionale.
Chiamata a ricordare le sue leggi e la loro sacra osservanza. A non considerare il carcere come la discarica sociale del male, ma come un pezzo di Stato e di umanità in cui tutti abbiamo perduto qualcosa e qualcuno. Il male continua ad esistere anche se mettiamo lucchetti sempre più grandi a gabbie sempre più strette e senza una politica all’altezza il carcere non sarà più, come non è già più, il luogo della legge, ma il posto in cui essa si estingue per sempre. Quale sconfitta più grande per un paese civile e democratico se non quella di abdicare in casa, nel braccio della pena, allo spirito stesso delle sue leggi.