di Carlo Musilli

La sobrietà del governo Monti un po' ci stava annoiando, ma per fortuna la Lega è tornata a scuoterci dal torpore. Uscite d'un balzo dalle tenebre dell'opposizione, le camicie verdi ci hanno finalmente regalato un'altra di quelle storielle grottesche e inverosimili da decennio berlusconiano. Riuscite a immaginare qualcosa di più assurdo di un finanziere padano e tarchiatello che si mette a fare business nell'Africa nera?

In realtà, la vicenda è seria ed è stata documentata riccamente da Giovanni Mari sul Secolo XIX. Nelle ultime due settimane del 2011, un conto leghista da 10 milioni di euro, gestito dal segretario amministrativo federale del Carroccio, Francesco Belsito, è stato letteralmente prosciugato. Gran parte dei quattrini è finita all'estero.

E con una certa fantasia: 1,2 milioni a Cipro, poco più di un milione in Norvegia e addirittura 4,5 milioni in Tanzania. Quest'ultima operazione vedrebbe coinvolto anche Stefano Bonet, consulente finanziario già invischiato in un oscuro fallimento societario nel 2010 e socio in affari del mitico Aldo Brancher. L'ex ministro-meteora, quello durato appena 17 giorni prima di essere indagato nell'inchiesta sulla scalata ad Antonveneta.

Ma torniamo a Belsito. Il George Soros del Carroccio è un fedelissimo del cerchio magico bossiano - a braccetto con Stefano Reguzzoni e Rosi Mauro - e risponde delle sue azioni direttamente al Senatùr. Pur infastidito dall'inchiesta, che giudica un'indebita "violazione della privacy", il tesoriere ha ammesso che quei soldi arrivano dai "rimborsi elettorali". Insomma, finanziamenti pubblici.

Ora, per quanto sembri incredibile, la legge non vieta espressamente ai partiti di prodursi in questo genere di operazioni con i soldi che ricevono. Ma il clamore suscitato dalla vicenda ha provocato diversi sudori freddi in via Bellerio. A voler fare gli idealisti, ad esempio, viene da chiedersi perché diavolo la Lega sia andata a investire in titoli norvegesi, che avevano un interesse del 3,5%, invece di puntare sui Bot italici, che all'epoca rendevano oltre il 6%. In questo caso la risposta è semplice: finanziariamente, si trattava di un investimento oculato in una moneta straniera. D'altra parte, che i leghisti non abbiano nulla a che spartire con l'amor di patria è cristallino da oltre vent'anni.

Il discorso si complica se scendiamo al basso livello della nostra politica. Sembra che la tempesta sui "danài" esportati abbia portato sconquasso nell'ultima riunione dei capi leghisti, intrecciandosi nientedimeno che con la richiesta d'arresto per Nicola Cosentino, il deputato campano del Pdl accusato dai magistrati di essere il referente politico del clan dei Casalesi.

Sull'onda dello sdegno per le operazioni del collega bossiano, Roberto Maroni ha avuto gioco facile a imporre la propria posizione: niente libertà di coscienza, Cosentino vada in galera. E così le camicie verdi hanno votato a favore delle manette nella Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera e si preparano a fare altrettanto in Aula. Con buona pace di chi sperava ancora in un margine di trattativa con il Pdl.

Mentre Bobo torna sugli scudi - cercando di farci credere che proprio lui, da numero due del partito, di questa storia non sapeva assolutamente nulla - tutt'intorno i maroniani intonano un canto funebre per Belsito. Lo vogliono silurare: un anello in meno nel cerchio magico.

Questa e altre materie - il bilancio del partito, ad esempio - saranno trattate in un consiglio federale da tenersi entro gennaio. Una riunione che lascia prevedere spargimenti di sangue, a sentir le parole di Matteo Salvini, il più agguerrito nel lanciar strali contro il panciuto tesoriere: "Dovrà rendere conto di ogni euro speso - tuona l'eurodeputato del Carroccio - ci sono diverse sezioni che chiedono 100 euro ai militanti per pagare l’affitto a fine mese. La Padania, il nostro quotidiano, versa in difficoltà economiche che tutti conoscono. E poi leggiamo della Tanzania…".

Forse bisognerebbe spiegare a Salvini in quali condizioni versa l'Italia, che - gli piaccia o no - è ancora il suo Paese. Con tutto il rispetto per le fervide sezioni di partito e per l'integerrimo quotidiano con cui ha avuto il privilegio di collaborare, l'onorevole dovrebbe pensare per un attimo ai disoccupati, ai precari e ai pensionati che ogni giorno tirano a campare. E poi leggono della Tanzania.     

 

di Rosa Ana De Santis

Se il 2011 si era chiuso con l’emergenza carceri, il nuovo anno è iniziato con 4 nuovi casi di suicidio. I numeri dei suicidi sventati e dei casi di autolesionismo che hanno richiesto il tempestivo intervento della polizia penitenziaria sono stati numerosi: oltre 10.000 tra il 2010 e il 2011. Le forze dell’ordine preposte alla vigilanza dei detenuti sono peraltro sotto organico e lavorano ormai a prezzo di forti sacrifici personali ed economici. Una bomba ad orologeria quella che si è innescata in tutte le prigioni del Paese: celle al collasso, condizioni igienico-sanitarie terribili, scarsa assistenza delle persone ammalate, processi di recupero ai minimi termini: l’abbandono è la regola.

I provvedimenti legislativi degli ultimi anni non hanno di fatto messo mano al sistema vigente e l’Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria chiede ormai un’amnistia e l’adozione di misure alternative per una serie di reati oggi trattati con la detenzione; misura, peraltro fallimentare vista la percentuale di recidive di reato superiore al 60%. Dormire in 4 persone con materassi a terra, in 2 metri quadri scarsi, non deve essere quello che si intende per detenzione rieducativa.

Il sovraffollamento è il problema primario di San Vittore - dove ci sono addirittura 13 bambini – come di Rebibbia, che ospita 1.712 detenuti contro i 1.200 previsti. Altra situazione denunciata dalle associazioni di volontariato è quella del carcere fiorentino di Sollicciano, con i suoi 1.015 detenuti contro i 500 che dovrebbe avere; a costoro, l’unica possibilità offerta è quella di rimanere nelle celle di pochi metri quadrati per 22 ore al giorno.

Il ministro della Giustizia, Paola Severino, all’emergenza carceri ha risposto per ora con il decreto legge sull’uso delle camere di sicurezza, cui ha risposto polemicamente e subito il Vice capo della Polizia, Francesco Cirillo, ricordando al ministro che oggi le camere di sicurezza in Italia sono assolutamente sprovviste dei servizi minimi da garantire alle persone in stato di fermo da 48 ore e in attesa di processo per direttissima, e finora hanno funzionato come luoghi di puro e veloce transito. Né il personale, né quelle celle, possono funzionare per allocare detenuti. Peraltro su queste camere di sicurezza non sono mai state date alle forze dell’ordine direttive chiare su come dovessero essere e funzionare.

Un vuoto che rispondeva al bisogno di considerarle dei parcheggi temporanei. Oggi, nell’intenzione del Ministro, il magazzino dovrebbe diventare un’appendice del carcere, senza sprecare mezza parola su come organizzarlo, né verificandone le condizioni in cui versano. Pensare di rispondere all’emergenza con una misura di soccorso, che continua a non voler entrare nel merito delle condizioni antidemocratiche della detenzione, è un modo per aggirare e rimandare il problema. Palliativi e provvedimenti difficili da giustificare, come quello del braccialetto elettronico costato 5 mila euro l’uno. Un modo bizzarro di investire denaro pubblico a fronte di ben altri problemi legati alla detenzione.

La tensione tra governo e polizia di queste ore racconta molto bene quanto la politica abbia finora voltato le spalle a chi lavora in un mondo tanto difficile e tanto fondamentale per la salvaguardia della democrazia e delle sue leggi. Tace il governo sull’urgenza della depenalizzazione di gruppi interi di reati legati alla Vandea ideologica razzistoide e xenofoba che ha avvelenato gli ultimi 20 anni. Il sovraffollamento delle carceri si deve infatti alla detenzione per reati che negli altri paesi d’Europa non esistono e per il ritardo cronico della magistratura inquirente e giudicante nell’evadere i casi giudiziari. Le cifre sui detenuti in attesa di giudizio sono in assoluto e in percentuale l’obbrobrio nell’obbrobrio.

D’altra parte la ristrettezza dei fondi stanziati per la giustizia rendono la carenza di personale e mezzi a disposizione della magistratura l’elemento decisivo per accumulare ritardi. E anche sul piano degli investimenti in infrastrutture e formazione del personale di sorveglianza i governi degli ultimi 20 anni hanno scrollalo le spalle. I sindacati di polizia rammentano al governo che dal 2000 ad oggi si sono uccisi 100 poliziotti penitenziari: 1 direttore di istituto e 1 dirigente regionale: un escalation che se risale, senza dubbio, a problemi di ordine personale, ci aiuta però anche a ricordare che oltre a mancare ormai ogni traccia d’umanità nella detenzione, mancano anche i più essenziali servizi di supporto psicologico specializzato a chi opera nel mondo della pena e della rieducazione.

Più di 200 anni fa Cesare Beccaria, sulla pena, scriveva che essa dovesse avere tre requisiti fondamentali: rapidità, certezza e umanità. Non uno di questi tre criteri è oggi onorato dal nostro sistema di giustizia. Per metodo, per penuria di mezzi e forse per mancanza di persuasione profonda, di cultura della pena. Quella di aver capito che l’infrazione della legge e la rieducazione del reo, insieme alla giusta punizione, é il battesimo di un’intera comunità nazionale.

Chiamata a ricordare le sue leggi e la loro sacra osservanza.  A non considerare il carcere come la discarica sociale del male, ma come un pezzo di Stato e di umanità in cui tutti abbiamo perduto qualcosa e qualcuno. Il male continua ad esistere anche se mettiamo lucchetti sempre più grandi a gabbie sempre più strette e senza una politica all’altezza il carcere non sarà più, come non è già più,  il luogo della legge, ma il posto in cui essa si estingue per sempre.  Quale sconfitta più grande per un paese civile e democratico se non quella di abdicare in casa, nel braccio della pena, allo spirito stesso delle sue leggi.

di Fabrizio Casari

Sono cominciati ieri, con una riunione tra il ministro Fornero e la leader della Cgil, Susanna Camusso, gli incontri che il governo ha indetto con i sindacati per spiegare la cosiddetta “fase 2” della manovra economica. Proprio la Camusso, nei giorni scorsi, aveva chiesto che il confronto tra governo e sindacati fosse articolato su riunioni comuni, ma la ministra, come un Sacconi qualunque, ha rigettato la proposta. Cisl e Uil hanno fatto male a dirsi subito disponibili, ma non é una novità. La convocazione dei sindacati in incontri bilaterali, invece che collettivamente, evidenzia insieme una continuità con il governo precedente e un’ulteriore contraddizione tra parole ed atti del governo: mentre infatti Monti si affanna nel chiedere “rapidità” nelle consultazioni, la ministra indice riunioni molteplici invece di convocarne una sola.

Il tentativo del governo é palese: cercare, in incontri diversi, la divisione tra le sigle sindacali che possa incrinare la ritrovata unità. In questo senso il governo è conscio della tendenza di Cisl e Uil a piegarsi alle richieste governative, tanto per la tendenza al consociativismo governativo nelle politiche economiche, quanto per l’interesse di Cisl e Uil ad ogni manovra di ridisegno degli equilibri interni al mondo del lavoro, che supplisca con il canale privilegiato nella relazione con il governo alla prevalenza numerica della Cgil nella rappresentanza dei lavoratori. Non a caso gli accordi separati con il governo Berlusconi li hanno visti entusiastici aderenti.

E se la fase “cresci Italia” appare sempre più ignota, quasi come i piani d’investimento di Marchionne, gli obiettivi politici appaiono decisamente chiari: è l’abolizione dell’articolo 18 e il conseguente ridimensionamento dei sindacati sui luoghi di lavoro. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è ormai un’ossessione dei professori, incuranti tanto dell’assoluta inutilità della sua abolizione ai fini della modernizzazione del mercato del lavoro, quanto della ricostruzione di un’equilibrata relazione tra le forze sociali e della conseguente pace sociale. Elementi, questi ultimi, che anche dal punto di vista degli industriali sono imprescindibili per un progetto di riforma complessiva del sistema che non può che essere condiviso se vuole avere una minima percentuale di successo. Il delirio di onnipotenza che ha colto i professori del nulla sembra però prevalere.

Eppure l’abolizione dell’articolo 18 non apre il mercato del lavoro, non introduce elementi utili allo sviluppo. Non riequilibra la carenza di tutele tra occupati e disoccupati, tra impieghi fissi e precari, che attengono invece alla riformulazione del welfare. La libertà assoluta di licenziare non la chiede l’Europa, non lo chiede nemmeno Confindustria. Perché dunque accanirsi? Perché lo chiedono le banche, che si apprestano a varare un piano di licenziamenti che coinvolgerà decine di migliaia di persone solo nel corso del 2012. E non vogliono intralci nell’esecuzione del piano

Se la Cgil, al momento, sembra intenzionata a resistere, sarà il caso di vedere cosa succederà in casa PD, dove Bersani aveva solo pochi giorni orsono bocciato nettamente ogni tentativo di mettere mano alla norma che tutela i dipendenti delle imprese con più di 15 dipendenti da licenziamenti discriminatori.

Certo, nel PD le posizioni sono notoriamente diverse anche se si parla delle previsioni del tempo, ma Bersani dovrà decidere se ascoltare gli Ichino e i teo-dem, insieme ai veltroniani o se, invece, ascoltare il corpo del partito. Pensare di tacere o limitarsi ad eccepire educatamente, piuttosto che imporre un no secco e definitivo al tentativo governativo di colpire ulteriormente il mondo del lavoro, potrebbe determinare guai seri, molto più seri di quelli abitualmente oggetto delle diatribe interne.

Qui non si tratta di scegliere su quali poli costruire la prossima alleanza elettorale, ma di continuare a detenere il ruolo di leadership del centrosinistra. Vale la pena di rischiare per difendere un governo che è ormai, con tutta evidenza, incapace di formulare qualunque proposta di politica politica economica che lo distingua da quello precedente? O un governo di destra diventa accettabile in assenza di festini e volgarità?

 

di Carlo Musilli

"Io so che tra cinque anni, tra cinque anni a primavera, alzerò la bandiera nera". E poi zac! Il braccio destro si alza, teso, con la mano a paletta. Il suo come quello del pubblico sotto al palco. Le luci al neon rivelano inquietanti tatuaggi sui bicipiti. Lo chiamano "Katanga" e sembrerebbe un fascistello qualsiasi. Uno di quelli arrabbiati e tutto sommato innocui, con troppo testosterone e pochi libri in casa. Peccato che il buon Katanga - al secolo Mario Vattani - si guadagni da vivere lavorando in Giappone per la Farnesina. E nemmeno in una posizione marginale, anzi: a luglio lo hanno addirittura promosso "console generale d'Italia a Osaka".  Oggi però il titolare degli Esteri, Giulio Terzi, lo ha deferito alla Commissione disciplinare del ministero.

La doppia vita del console nero è stata scoperta dal quotidiano L'Unità, che spulciando Youtube ha trovato le immagini dell'ameno concertino fascista. Nel video, Vattani rantola con voce stonata e maschia alcune raccapriccianti canzoni di cui lui stesso è autore. Il raduno - organizzato da Casa Pound a Roma, vicino allo stadio Olimpico - è conosciuto come "La tana delle tigri", nome ripreso da un cartone animato giapponese. Ironia della sorte.

A sentirlo osannare la Repubblica di Salò, viene da chiedersi come diavolo abbia fatto "Katanga" a diventare un rappresentante all'estero del nostro Paese. La risposta è scontata: ce l’ha messo papà. Mario è infatti figlio di Umberto Vattani, uno dei diplomatici italiani più noti e influenti. I fausti natali che la fortuna gli ha concesso hanno garantito al nostro cantore una prestigiosa formazione internazionale.

Leggendo il suo curriculum sul sito della Farnesina, si apprende che "Katanga" parla cinque lingue, è laureato in Scienze politiche e ha iniziato la sua folgorante carriera nel 1991, alla tenera età di 25 anni. Fedelissimo dell'attuale sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è stato suo stretto consigliere sia al ministero dell'Agricoltura sia al Campidoglio. L’ha seguito perfino nelle trasferte ad Auschwitz e a Hiroshima.

Ora, chiunque sia abituato a immaginare i diplomatici come dei gentlemen dai modi compassati è naturalmente fuori strada. Negli stessi anni in cui costruiva il brillante futuro che lo avrebbe portato a guadagnare oltre 200 mila euro l'anno, Mario si dedicava anche alla sua vera passione, la "musica identitaria". Dapprima cantante degli "Intolleranza", nel 1996 ha pensato bene di fondare un gruppo tutto suo, dal nome ancora più esplicito: i "Sotto fascia semplice". L'identità predicata davanti a stuoli di ragazzini sovraeccitati era quella composta essenzialmente da saluti romani, croci celtiche e sproloqui totalitari. Senza dimenticare le risse.

Come ogni fascista che si rispetti, Mario racconta di risse. E se ne vanta. In uno dei suoi brani più apprezzati dal grande pubblico, "Ancora in piedi", Katanga ci racconta di quanto sia stato bello vendicarsi dei ragazzi che lo avevano picchiato nel piazzale dell'università: "Siamo tornati col Matto e con Sergio, siamo passati dalla porta di dietro. Vicino ai cessi, dalla parte dell'aula quarta, c'era il bastardo che mi aveva aggredito. L'abbiamo messo per terra e cercava di scappare, ma è rimasto appeso a una maniglia. Gli ho dato tanti di quei calci, ed era tanta la rabbia, che mi sono quasi storto una caviglia". Non c'è che dire, il vero aplomb del diplomatico.

Sorvolando sull'arte, passiamo alla cronaca. In tenerissima età Mario è finito nelle pagine centrali dei giornali insieme al suo amico Stefano Andrini, l'ex picchiatore nazi che Alemanno aveva nominato amministratore delegato di Ama. Il caso riguardava il pestaggio di due giovani di sinistra davanti al cinema Capranica. Ma la giustizia ha come sempre fatto il suo corso e Mario è stato prosciolto.

Anche non volendo credere a questi episodi di violenza criminale, bastano poche parole di Katanga per rimanere agghiacciati. A suo avviso, la Repubblica italiana è "fondata sui valori del tradimento e dell'arroganza, sulla lotta armata fatta da banditi e disertori". Non male, per uno che nella vita fa l'uomo di Stato. Dopo la diffusione dei video, la Farnesina è stata ovviamente in forte imbarazzo. In un primo tempo ha cercato di glissare parlando di "un fatto di costume". Poi - complice forse l'interrogazione parlamentare preparata dal Pd Roberto Morassut - si è convinta a prendere provvedimenti. Ora non resta che renderlo disoccupato e, magari, verificare se in giro per il mondo abbiamo piazzato altri consoli di questo livello.

di Mariavittoria Orsolato

La storica rivista americana Time ha eletto il protester come uomo dell’anno. Una figura irresistibilmente evocativa in questi tempi d’imposta abulia, che dopo anni di isolamento della militanza politica torna a conquistare ampi strati della società civile e a raccogliere consensi in modo trasversale. Da quando lo scorso 17 dicembre Mohamed Bouazizi, un venditore di frutta tunisino, si è dato fuoco per protestare contro la disoccupazione e la povertà generalizzata, il dissenso verso le istituzioni politiche e finanziarie si è diffuso velocemente in tutto il Medio Oriente, in Europa e negli Stati Uniti, rimodellando la politica mondiale e ridefinendo il concetto di attivismo.

Quelli che per convenzione sono definiti indignati ma che in realtà rappresentano un corpus politico abbastanza eterogeneo, hanno indubbiamente segnato a fondo gli eventi di quest'anno. Sono stati a manifestare nelle piazze delle città di decine di Paesi, hanno deposto tiranni e suscitato grandi speranze, hanno piantato le tende dinanzi ai luoghi di culto e ai centri della finanza delle metropoli statunitensi ed europee.

Perché stanchi di avere debiti che non hanno contratto. Perché sfiniti da una politica che si disinteressa della cosa pubblica e dei cittadini. Perché consapevoli di avere un'alternativa migliore al neoliberismo sfrenato che, pur avendo di fatto causato questa crisi, viene propinato e imposto come unica via di salvezza. Perché di nuovo consci che, se uniti, esiste sempre un'alternativa.

A far di nuovo convergere le masse ci ha pensato la rete, che grazie al boom dei social networks e dei social media ha documentato passo dopo passo tutte le proteste e gli inevitabili scontri, e soprattutto ha accolto e introiettato nuove pratiche di aggregazione civile. Se infatti fino a poco fa la rete veniva utilizzata nella sua esclusiva virtualità, ora il fenomeno del clicktivism - l'evoluzione digitale del volantinaggio e delle raccolte firme, concentrata più su un tema specifico che non su vere e proprie rivendicazioni politiche - ha lasciato nuovamente spazio al confronto nelle piazze.  I cittadini hanno smesso di essere internauti e si sono trasformati in manifestanti, hanno deciso di abbandonare le tastiere e i monitor per scendere di nuovo in strada e porsi attivamente in contrasto con le politiche socioeconomiche dei loro Paesi.

Certo tra la Primavera Araba e il movimento Occupy ci sono indubbie differenze, sia in termini di pratiche che di rivendicazioni, ma il dato di fatto incontrovertibile di questo 2011 è che dopo anni di assenza dal palcoscenico globale, i movimenti hanno fatto il loro prepotente ritorno nella politica.

In Medio Oriente i focolai di protesta contro la corruzione, il prezzo del pane e le continue violazioni di diritti civili si sono propagati velocemente dalla Tunisia all'Algeria e poi in Egitto, in Siria e in Libia, portando a vere e proprie rivoluzioni negli ordinamenti statali e scontando il prezzo di moltissimi martiri.

Per quanto riguarda il mondo occidentale, dalla battaglia di Seattle del '99 che diede l'avvio al movimento No Global, passando per quello No War del 2003 contro la guerra in Iraq, la figura del manifestante ha subito diverse trasformazioni, figlie dell'autocritica e dell'evolversi delle problematiche e oggi, di diverso rispetto ai movimenti degli anni zero, c'è la larga adesione. Una partecipazione che si distingue dai cicli di protesta precedenti e ha la sua principale causa nel depauperamento generalizzato che ha preso avvio con lo scoppio della bolla finanziaria americana nel 2008.

Già da allora in Italia gli studenti dell'Onda erano tornati numerosissimi nelle piazze, manifestando contro i tagli imposti alla scuola pubblica e contro la riforma dell'Università in senso privatistico; a tre anni di distanza hanno aggiustato il tiro ed ora il loro bersaglio sono le politiche di austerità prescritte per interposta persona dalla BCE e dal FMI. Dopo aver seguito le “acampadas” spagnole e l'evoluzione del movimento Occupy negli Stati Uniti, quest'autunno gli studenti italiani hanno messo in atto diverse manifestazioni, occupazioni e proteste per dimostrare che la democrazia diretta e la decisionalità orizzontale non sono fantapolitica se portate avanti da una moltitudine.

A fianco degli studenti, quest'anno si sono imposti anche i movimenti referendari, che nelle consultazioni dello scorso maggio sono riusciti a guadagnare un'affluenza record e una vittoria bulgara nel dire no al nucleare, alla privatizzazione delle risorse pubbliche e ai privilegi di un antagonista nel frattempo caduto.

Spiace infatti non poter dire che qui nel Belpaese, il Rais non è caduto per mano della popolazione o dell'opposizione alle Camere ma perché sfiduciato dai mercati internazionali che lo ritenevano incapace di imporre la mannaia fiscale necessaria a far quadrare i conti di Stato.

La manifestazione dello scorso 15 ottobre sarebbe dovuta servire quantomeno a dare uno scossone al morente governo Berlusconi, ma la totale mancanza di coordinamento tra le varie anime del movimento degli “indignados” e gli scontri che ne sono conseguiti, ha finito per far riflettere sul manicheo quanto sterile dualismo violenza/nonviolenza e non sulle reali ragioni della mobilitazione che ha portato 200.000 persone a Roma, prima fra tutte la precarizzazione esistenziale diffusasi tra amplissimi strati della società.

Citando assolutamente a sproposito la Pavone-Giamburrasca “La storia del passato ormai ce l'ha insegnato che un popolo affamato fa la rivoluzion” e ora, entrati nel XXI° secolo, ci si rende conto che nulla è cambiato, che come in un prolungato Medioevo sono ancora le popolazioni a pagare lo scotto dei propri sovrani e che forse è giunta l'ora tornare in piazza a riproporre un '48.

L’abbiamo visto a piazza Tahrir, l'abbiamo rivisto a Zuccotti Park e in piazza Syntagma: giovani, istruiti, abili col computer, internet e social media; stanchi di essere stoppati dal vecchio establishment, dalla corruzione di chi pare destinato a governare per diritto divino, dalla mancanza di prospettive. Queste persone, questi orgogliosi manifestanti, sono diventati dei protagonisti e, in un modo o nell'altro, cambieranno la nostra storia.

 


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