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di Fabrizio Casari
Sono cominciati ieri, con una riunione tra il ministro Fornero e la leader della Cgil, Susanna Camusso, gli incontri che il governo ha indetto con i sindacati per spiegare la cosiddetta “fase 2” della manovra economica. Proprio la Camusso, nei giorni scorsi, aveva chiesto che il confronto tra governo e sindacati fosse articolato su riunioni comuni, ma la ministra, come un Sacconi qualunque, ha rigettato la proposta. Cisl e Uil hanno fatto male a dirsi subito disponibili, ma non é una novità. La convocazione dei sindacati in incontri bilaterali, invece che collettivamente, evidenzia insieme una continuità con il governo precedente e un’ulteriore contraddizione tra parole ed atti del governo: mentre infatti Monti si affanna nel chiedere “rapidità” nelle consultazioni, la ministra indice riunioni molteplici invece di convocarne una sola.
Il tentativo del governo é palese: cercare, in incontri diversi, la divisione tra le sigle sindacali che possa incrinare la ritrovata unità. In questo senso il governo è conscio della tendenza di Cisl e Uil a piegarsi alle richieste governative, tanto per la tendenza al consociativismo governativo nelle politiche economiche, quanto per l’interesse di Cisl e Uil ad ogni manovra di ridisegno degli equilibri interni al mondo del lavoro, che supplisca con il canale privilegiato nella relazione con il governo alla prevalenza numerica della Cgil nella rappresentanza dei lavoratori. Non a caso gli accordi separati con il governo Berlusconi li hanno visti entusiastici aderenti.
E se la fase “cresci Italia” appare sempre più ignota, quasi come i piani d’investimento di Marchionne, gli obiettivi politici appaiono decisamente chiari: è l’abolizione dell’articolo 18 e il conseguente ridimensionamento dei sindacati sui luoghi di lavoro. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è ormai un’ossessione dei professori, incuranti tanto dell’assoluta inutilità della sua abolizione ai fini della modernizzazione del mercato del lavoro, quanto della ricostruzione di un’equilibrata relazione tra le forze sociali e della conseguente pace sociale. Elementi, questi ultimi, che anche dal punto di vista degli industriali sono imprescindibili per un progetto di riforma complessiva del sistema che non può che essere condiviso se vuole avere una minima percentuale di successo. Il delirio di onnipotenza che ha colto i professori del nulla sembra però prevalere.
Eppure l’abolizione dell’articolo 18 non apre il mercato del lavoro, non introduce elementi utili allo sviluppo. Non riequilibra la carenza di tutele tra occupati e disoccupati, tra impieghi fissi e precari, che attengono invece alla riformulazione del welfare. La libertà assoluta di licenziare non la chiede l’Europa, non lo chiede nemmeno Confindustria. Perché dunque accanirsi? Perché lo chiedono le banche, che si apprestano a varare un piano di licenziamenti che coinvolgerà decine di migliaia di persone solo nel corso del 2012. E non vogliono intralci nell’esecuzione del piano
Se la Cgil, al momento, sembra intenzionata a resistere, sarà il caso di vedere cosa succederà in casa PD, dove Bersani aveva solo pochi giorni orsono bocciato nettamente ogni tentativo di mettere mano alla norma che tutela i dipendenti delle imprese con più di 15 dipendenti da licenziamenti discriminatori.
Certo, nel PD le posizioni sono notoriamente diverse anche se si parla delle previsioni del tempo, ma Bersani dovrà decidere se ascoltare gli Ichino e i teo-dem, insieme ai veltroniani o se, invece, ascoltare il corpo del partito. Pensare di tacere o limitarsi ad eccepire educatamente, piuttosto che imporre un no secco e definitivo al tentativo governativo di colpire ulteriormente il mondo del lavoro, potrebbe determinare guai seri, molto più seri di quelli abitualmente oggetto delle diatribe interne.
Qui non si tratta di scegliere su quali poli costruire la prossima alleanza elettorale, ma di continuare a detenere il ruolo di leadership del centrosinistra. Vale la pena di rischiare per difendere un governo che è ormai, con tutta evidenza, incapace di formulare qualunque proposta di politica politica economica che lo distingua da quello precedente? O un governo di destra diventa accettabile in assenza di festini e volgarità?
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di Carlo Musilli
"Io so che tra cinque anni, tra cinque anni a primavera, alzerò la bandiera nera". E poi zac! Il braccio destro si alza, teso, con la mano a paletta. Il suo come quello del pubblico sotto al palco. Le luci al neon rivelano inquietanti tatuaggi sui bicipiti. Lo chiamano "Katanga" e sembrerebbe un fascistello qualsiasi. Uno di quelli arrabbiati e tutto sommato innocui, con troppo testosterone e pochi libri in casa. Peccato che il buon Katanga - al secolo Mario Vattani - si guadagni da vivere lavorando in Giappone per la Farnesina. E nemmeno in una posizione marginale, anzi: a luglio lo hanno addirittura promosso "console generale d'Italia a Osaka". Oggi però il titolare degli Esteri, Giulio Terzi, lo ha deferito alla Commissione disciplinare del ministero.
La doppia vita del console nero è stata scoperta dal quotidiano L'Unità, che spulciando Youtube ha trovato le immagini dell'ameno concertino fascista. Nel video, Vattani rantola con voce stonata e maschia alcune raccapriccianti canzoni di cui lui stesso è autore. Il raduno - organizzato da Casa Pound a Roma, vicino allo stadio Olimpico - è conosciuto come "La tana delle tigri", nome ripreso da un cartone animato giapponese. Ironia della sorte.
A sentirlo osannare la Repubblica di Salò, viene da chiedersi come diavolo abbia fatto "Katanga" a diventare un rappresentante all'estero del nostro Paese. La risposta è scontata: ce l’ha messo papà. Mario è infatti figlio di Umberto Vattani, uno dei diplomatici italiani più noti e influenti. I fausti natali che la fortuna gli ha concesso hanno garantito al nostro cantore una prestigiosa formazione internazionale.
Leggendo il suo curriculum sul sito della Farnesina, si apprende che "Katanga" parla cinque lingue, è laureato in Scienze politiche e ha iniziato la sua folgorante carriera nel 1991, alla tenera età di 25 anni. Fedelissimo dell'attuale sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è stato suo stretto consigliere sia al ministero dell'Agricoltura sia al Campidoglio. L’ha seguito perfino nelle trasferte ad Auschwitz e a Hiroshima.
Ora, chiunque sia abituato a immaginare i diplomatici come dei gentlemen dai modi compassati è naturalmente fuori strada. Negli stessi anni in cui costruiva il brillante futuro che lo avrebbe portato a guadagnare oltre 200 mila euro l'anno, Mario si dedicava anche alla sua vera passione, la "musica identitaria". Dapprima cantante degli "Intolleranza", nel 1996 ha pensato bene di fondare un gruppo tutto suo, dal nome ancora più esplicito: i "Sotto fascia semplice". L'identità predicata davanti a stuoli di ragazzini sovraeccitati era quella composta essenzialmente da saluti romani, croci celtiche e sproloqui totalitari. Senza dimenticare le risse.
Come ogni fascista che si rispetti, Mario racconta di risse. E se ne vanta. In uno dei suoi brani più apprezzati dal grande pubblico, "Ancora in piedi", Katanga ci racconta di quanto sia stato bello vendicarsi dei ragazzi che lo avevano picchiato nel piazzale dell'università: "Siamo tornati col Matto e con Sergio, siamo passati dalla porta di dietro. Vicino ai cessi, dalla parte dell'aula quarta, c'era il bastardo che mi aveva aggredito. L'abbiamo messo per terra e cercava di scappare, ma è rimasto appeso a una maniglia. Gli ho dato tanti di quei calci, ed era tanta la rabbia, che mi sono quasi storto una caviglia". Non c'è che dire, il vero aplomb del diplomatico.
Sorvolando sull'arte, passiamo alla cronaca. In tenerissima età Mario è finito nelle pagine centrali dei giornali insieme al suo amico Stefano Andrini, l'ex picchiatore nazi che Alemanno aveva nominato amministratore delegato di Ama. Il caso riguardava il pestaggio di due giovani di sinistra davanti al cinema Capranica. Ma la giustizia ha come sempre fatto il suo corso e Mario è stato prosciolto.
Anche non volendo credere a questi episodi di violenza criminale, bastano poche parole di Katanga per rimanere agghiacciati. A suo avviso, la Repubblica italiana è "fondata sui valori del tradimento e dell'arroganza, sulla lotta armata fatta da banditi e disertori". Non male, per uno che nella vita fa l'uomo di Stato. Dopo la diffusione dei video, la Farnesina è stata ovviamente in forte imbarazzo. In un primo tempo ha cercato di glissare parlando di "un fatto di costume". Poi - complice forse l'interrogazione parlamentare preparata dal Pd Roberto Morassut - si è convinta a prendere provvedimenti. Ora non resta che renderlo disoccupato e, magari, verificare se in giro per il mondo abbiamo piazzato altri consoli di questo livello.
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di Mariavittoria Orsolato
La storica rivista americana Time ha eletto il protester come uomo dell’anno. Una figura irresistibilmente evocativa in questi tempi d’imposta abulia, che dopo anni di isolamento della militanza politica torna a conquistare ampi strati della società civile e a raccogliere consensi in modo trasversale. Da quando lo scorso 17 dicembre Mohamed Bouazizi, un venditore di frutta tunisino, si è dato fuoco per protestare contro la disoccupazione e la povertà generalizzata, il dissenso verso le istituzioni politiche e finanziarie si è diffuso velocemente in tutto il Medio Oriente, in Europa e negli Stati Uniti, rimodellando la politica mondiale e ridefinendo il concetto di attivismo.
Quelli che per convenzione sono definiti indignati ma che in realtà rappresentano un corpus politico abbastanza eterogeneo, hanno indubbiamente segnato a fondo gli eventi di quest'anno. Sono stati a manifestare nelle piazze delle città di decine di Paesi, hanno deposto tiranni e suscitato grandi speranze, hanno piantato le tende dinanzi ai luoghi di culto e ai centri della finanza delle metropoli statunitensi ed europee.
Perché stanchi di avere debiti che non hanno contratto. Perché sfiniti da una politica che si disinteressa della cosa pubblica e dei cittadini. Perché consapevoli di avere un'alternativa migliore al neoliberismo sfrenato che, pur avendo di fatto causato questa crisi, viene propinato e imposto come unica via di salvezza. Perché di nuovo consci che, se uniti, esiste sempre un'alternativa.
A far di nuovo convergere le masse ci ha pensato la rete, che grazie al boom dei social networks e dei social media ha documentato passo dopo passo tutte le proteste e gli inevitabili scontri, e soprattutto ha accolto e introiettato nuove pratiche di aggregazione civile. Se infatti fino a poco fa la rete veniva utilizzata nella sua esclusiva virtualità, ora il fenomeno del clicktivism - l'evoluzione digitale del volantinaggio e delle raccolte firme, concentrata più su un tema specifico che non su vere e proprie rivendicazioni politiche - ha lasciato nuovamente spazio al confronto nelle piazze. I cittadini hanno smesso di essere internauti e si sono trasformati in manifestanti, hanno deciso di abbandonare le tastiere e i monitor per scendere di nuovo in strada e porsi attivamente in contrasto con le politiche socioeconomiche dei loro Paesi.
Certo tra la Primavera Araba e il movimento Occupy ci sono indubbie differenze, sia in termini di pratiche che di rivendicazioni, ma il dato di fatto incontrovertibile di questo 2011 è che dopo anni di assenza dal palcoscenico globale, i movimenti hanno fatto il loro prepotente ritorno nella politica.
In Medio Oriente i focolai di protesta contro la corruzione, il prezzo del pane e le continue violazioni di diritti civili si sono propagati velocemente dalla Tunisia all'Algeria e poi in Egitto, in Siria e in Libia, portando a vere e proprie rivoluzioni negli ordinamenti statali e scontando il prezzo di moltissimi martiri.
Per quanto riguarda il mondo occidentale, dalla battaglia di Seattle del '99 che diede l'avvio al movimento No Global, passando per quello No War del 2003 contro la guerra in Iraq, la figura del manifestante ha subito diverse trasformazioni, figlie dell'autocritica e dell'evolversi delle problematiche e oggi, di diverso rispetto ai movimenti degli anni zero, c'è la larga adesione. Una partecipazione che si distingue dai cicli di protesta precedenti e ha la sua principale causa nel depauperamento generalizzato che ha preso avvio con lo scoppio della bolla finanziaria americana nel 2008.
Già da allora in Italia gli studenti dell'Onda erano tornati numerosissimi nelle piazze, manifestando contro i tagli imposti alla scuola pubblica e contro la riforma dell'Università in senso privatistico; a tre anni di distanza hanno aggiustato il tiro ed ora il loro bersaglio sono le politiche di austerità prescritte per interposta persona dalla BCE e dal FMI. Dopo aver seguito le “acampadas” spagnole e l'evoluzione del movimento Occupy negli Stati Uniti, quest'autunno gli studenti italiani hanno messo in atto diverse manifestazioni, occupazioni e proteste per dimostrare che la democrazia diretta e la decisionalità orizzontale non sono fantapolitica se portate avanti da una moltitudine.
A fianco degli studenti, quest'anno si sono imposti anche i movimenti referendari, che nelle consultazioni dello scorso maggio sono riusciti a guadagnare un'affluenza record e una vittoria bulgara nel dire no al nucleare, alla privatizzazione delle risorse pubbliche e ai privilegi di un antagonista nel frattempo caduto.
Spiace infatti non poter dire che qui nel Belpaese, il Rais non è caduto per mano della popolazione o dell'opposizione alle Camere ma perché sfiduciato dai mercati internazionali che lo ritenevano incapace di imporre la mannaia fiscale necessaria a far quadrare i conti di Stato.
La manifestazione dello scorso 15 ottobre sarebbe dovuta servire quantomeno a dare uno scossone al morente governo Berlusconi, ma la totale mancanza di coordinamento tra le varie anime del movimento degli “indignados” e gli scontri che ne sono conseguiti, ha finito per far riflettere sul manicheo quanto sterile dualismo violenza/nonviolenza e non sulle reali ragioni della mobilitazione che ha portato 200.000 persone a Roma, prima fra tutte la precarizzazione esistenziale diffusasi tra amplissimi strati della società.
Citando assolutamente a sproposito la Pavone-Giamburrasca “La storia del passato ormai ce l'ha insegnato che un popolo affamato fa la rivoluzion” e ora, entrati nel XXI° secolo, ci si rende conto che nulla è cambiato, che come in un prolungato Medioevo sono ancora le popolazioni a pagare lo scotto dei propri sovrani e che forse è giunta l'ora tornare in piazza a riproporre un '48.
L’abbiamo visto a piazza Tahrir, l'abbiamo rivisto a Zuccotti Park e in piazza Syntagma: giovani, istruiti, abili col computer, internet e social media; stanchi di essere stoppati dal vecchio establishment, dalla corruzione di chi pare destinato a governare per diritto divino, dalla mancanza di prospettive. Queste persone, questi orgogliosi manifestanti, sono diventati dei protagonisti e, in un modo o nell'altro, cambieranno la nostra storia.
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di Fabrizio Casari
Avremo anche mangiato meno, come dicono le statistiche, ma sotto l’albero di Natale, qualcuno ha continuato a stimolare appetiti. Centrodestra e centrosinistra, in affanno causa appoggio a Monti e la sua manovra recessiva che, con ironia non richiesta, ha chiamato “salva Italia”, stanno cercando di rimettere insieme cocci e idee, schieramenti e alleanze per arrivare in ordine alle prossime elezioni politiche.
I più lesti nei lavori in corso sono a destra: ormai quasi più nessuno nega il progetto di nuova alleanza con Casini (ultimo La Russa ieri), pur sapendo che questo non può che passare dal ritiro della candidatura a premier del Cavaliere. Questo sarà l’unico elemento d’incertezza: Berlusconi vorrà ricandidarsi e, con ciò, portare alla sconfitta il PDL o invece, dimostrando acume, saprà mettersi sul podio senza scendere nell’arena, lasciando la candidatura ad Alfano che, s’intende, governerà per lui?
In fondo, un’eventuale Alfano premier sarebbe come un affidavit del cavaliere, una sorta di gestore dei suoi beni. Quanto alla Lega, in qualche modo rientrerà: non si vede proprio dove andrebbe da sola, né pare ipotizzabile un suo rinchiudersi sulla dimensione locale, peraltro già seriamente elettoralmente castigata dagli anni al governo. Il sopraggiungere di Casini e Fini darebbe poi ampio margine di tranquillità per i numeri e dunque pazienza se anche la Lega non dovesse tornare all’ovile.
Il centro tesse la tela, ma non ha nessuna intenzione di svolgere un ruolo secondario, di appoggio ad altri. Vuole la candidatura diretta a governare: certo non da solo, ma a governare. All’uopo sono in corso le manovre di riassetto, profferte di alleanze e minacce di scissioni, come nel solito copione. In cantiere c’é il prodigioso, miracolato per antonomasia, polo dei cattolici che, urbi et orbi, rilancia la centralità dello schieramento confessionale. Trasversale, organizzato in partiti e, più specificatamente, in correnti nei vari partiti, ha nel “sobrio” governo un’interlocuzione fondamentale.
Il neoministro Riccardi e l’ex ministro Fioroni hanno indicato la retta (benché tortuosa) via, che dovrà segnare il cammino dei cattolici. Non è detto che rinasca la Dc, dice il sobrio Riccardi, “forse non ci saranno unificazioni, ma saranno possibili nuove condensazioni” tra i cattolici. La “condensazione” è oggettivamente un inedito del lessico politico, pur se ancora distante dal più famoso “convergenze parallele”. Ma indica un indirizzo in continuità con quanto visto finora: lo schieramento papalino é elemento sabotatore del bipolarismo perché, in primo luogo, è un aggregato melmoso che nega ogni riferimento alle culture politiche originarie di destra e sinistra, coprendole con un gigantesco mantello cattolico che strozza nella culla ogni polarizzazione possibile.
Intendiamoci: i cattolici hanno tutto il diritto di scegliersi e proporsi a partire dalla loro identità religiosa, da cui far discendere un’eventuale schieramento o partito con un nome, un cognome, un’identità e un progetto. E dunque ci si potrebbe chiedere: cosa gli impedisce di riunificarsi, di chiamare a raccolta tutti coloro che nel centro-destra e nel centrosinistra sono parcheggiati? Insieme potrebbero costituire il cosiddetto Terzo Polo dotandolo di forza necessaria a presentarsi come guida per il governo.
Ma non succede e non succederà. Il respiro del progetto sarebbe corto e faticherebbe ad arrivare alla doppia cifra elettorale. E’ molto più redditizio occupare settori di tutti gli schieramenti per condizionarne le scelte. Ogni differenziazione netta sul piano della politica economica, sociale (e soprattutto dei diritti civili) tra conservatori e progressisti, libertari e reazionari, è fumo negli occhi per la melmosità del centrismo.
L’occupazione del centro dello schieramento politico non corrisponde alla necessità di mediare le spinte centrifughe di una società globalizzata e confusa e gli interessi di classe ancora in campo: non è il prologo allo svolgimento di una proposta complessiva per il Paese e non è quindi propedeutico alla formazione di una forza politica.
L’occupazione del centro, utile per impedire proprio lo sviluppo e la crescita della dialettica politica complessiva, è invece al tempo stesso premessa e scopo finale dell’operazione. In un adattamento dell’assioma taoista, il governare senza governare diventa il governare comunque, indipendentemente da chi formalmente governi.
Il santissimo schieramento non è berlusconiano perché eticamente improponibile e non è progressista perché politicamente insopportabile. Dunque è collocato a destra della sinistra e a sinistra della destra, perché per garantire la loro centralità nei secoli dei secoli hanno bisogno d’impedire che la polarizzazione della politica entri nelle urne.
E’ per questo che la ripresa di centralità politica dei cattolici si misura su due fronti: da un lato deve consolidarsi l’uscita di scena del cavaliere, che toglie spazio alla naturale ricomposizione tra la destra e i pii esponenti; dall’altro deve essere strappata la cosiddetta “foto di Vasto”, raffigurante Bersani, Di Pietro e Vendola in un abbraccio di scarso valore affettivo ma di rendita elettorale certa.
Ovviamente, l’emergenza prioritaria è quella d’impedire soprattutto che la foto di Vasto diventi un progetto politico o anche solo elettorale. Perché il pericolo maggiore, per i cattolici, non è quello di una destra arroccata intorno ai privilegi del sultano, né quello di ricondurre la Vandea leghista alle ragioni della governabilità: il pericolo vero è una crescita dell’anima socialdemocratica e laica del PD che possa trovare uno sbocco nella ricerca di un’alleanza a sinistra, data comunque vincente nei sondaggi.
Recuperare i milioni di voti di sinistra che negli ultimi dieci anni sono rimasti sospesi, affidare alla trasversalità sociale di movimenti che lungo questi ultimi due anni hanno riempito piazze e urne referendarie, é il rischio vero che i cattopiddini intravedono. Una sterzata a sinistra della coalizione li obbligherebbe all’uscita dal PD e, quindi, allo smantellamento della parte fondamentale del progetto. Non è certo l’Api il contenitore in grado di ospitare milioni di voti.
L’eventuale uscita di scena del cavaliere e le trame tra Alfano e Casini da un lato, lo sbianchettamento parziale o totale della foto di Vasto dall’altro, determineranno i prossimi passi. Ciò che serve al Paese é oggetto di punti di vista differenti, ma ciò che serve ai resti della DC per continuare a occuparlo é pensiero condiviso, pur se con accenti diversi. Un pensiero che chiede strada a tutti e propone spazi per tutti. Auspicando, come trent’anni orsono, le convergenze parallele.
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di Fabrizio Casari
Non c’è solo l’equità tra le promesse mancate dal governo Monti. Un’altra, significativa delusione, arriva dalla politica della comunicazione governativa. Il presidente del Consiglio, infatti, aveva garantito un uso parco e misurato delle dichiarazioni dei suoi ministri. E se l’equità è risultata essere fumo negli occhi, anche sulla sobrietà della comunicazione qualcosa non deve aver funzionato. Con regolarità ormai quotidiana, infatti, il volto piangente del governo, la Ministro Elsa Fornero, esterna e crea allarme sociale, contribuendo a far crescere il fastidio generale del paese per gli apprendisti stregoni.
L’ultima gaffe l’ha vista protagonista a un convegno della Federazione della Stampa Italiana: si è presentata affermando che i conti dell’Inpgi non sono in ordine e che peccano di trasparenza e che, dunque, dovranno subire le decisioni della Fornero medesima. Quindi si è alzata, prima che potessero replicare alle sue esternazioni, ed è uscita dalla sala, rinunciando a partecipare alla conferenza stampa prevista. La reazione è stata dura: tutti gli intervenuti hanno ricordato come i conti dell’Inpgi siano a posto fino al 2050 e che quanto a trasparenza i suoi bilanci, pubblici e certificati da otto organismi - tra i quali il Ministero dell’Economia e del Lavoro e la Corte dei Conti - si possono leggere sul sito ufficiale dell’istituto previdenziale. Basta saperli leggere.
Tanto per dare un quadro dello spessore del personaggio, al convegno che celebrava il centenario dell’introduzione del primo contratto nazionale di categoria, la Fornero ha detto: “Se c’è da cento anni andrà pure rinnovato, no”? Confondendo così la nascita dell’istituto del contratto nazionale con il contratto vero e proprio vigente, che ha invece, come dovrebbe sapere, due anni di vita.
Il Presidente dell’Inpgi, Camporese, che vede il rischio di manovrine furbette destinate a trasferire i fondi degli istituti privati nelle casse di quelli pubblici, l’ha invitata a dire quello che ha in mente davvero e, comunque, a documentarsi prima di dire falsità grossolane, annunciando che il ministro risponderà in tutte le sedi competenti delle sue parole.
Ma quella contro le casse previdenziali private (che nulla ricevono da quelle pubbliche e che pagano di tasca propria gli ammortizzatori sociali) è stato solo l’ennesimo infortunio della professoressa, che in tre giorni ha sostenuto l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la distruzione del sistema pensionistico pubblico e le provocazioni a danno di quello privato. Non passa giorno ormai, senza che la Fornero non senta il bisogno di straparlare. Esaurite le lacrime in favore di telecamere, la signora, colta da improvvisa mania di protagonismo, squaderna con i giornalisti amici pensieri e parole, dichiarazioni e smentite.
Ieri il segretario del PD, Bersani, facendo eco alle reazioni sindacali (particolarmente dura con lei la leader della CGIL Camusso e quello della CISL Bonanni), è dovuto intervenire con forza per ribadire che toccare l’articolo 18 in un paese con il record europeo di disoccupazione è follia e che è arrivata ora che il governo ascolti le forze sociali se vuole andare avanti.
A fare eco alla Fornero ci sono solo Ichino e la Marcegaglia, il che non è propriamente la rappresentazione del consenso di massa. La Fornero, come Ichino, invoca la flex.security, uno di quei mantra fallaci già sotto l’aspetto terminologico. Perché se la parte “flex” è chiara (e sperimentata in tutta la sua brutalità), dove sarebbe la “security”? Il Ministro, che sull’articolo 18 ha già fatto marcia indietro, si ritiene espressione del “nuovo” ma la sensazione d’incompetenza totale e d’inadeguatezza, già percepita nei primi giorni del suo incarico, è diventata ormai certezza.
Al riguardo, stabilito che il Ministro è fuori contesto e le sue esternazioni sono fuori da ogni logica e competenza, la domanda che ci si pone è fondamentalmente una: parla per vanità personale o perché l’Esecutivo la manda allo sbaraglio per vedere le reazioni e regolarsi di conseguenza? Il tempo della sua permanenza al governo sarà la risposta all’interrogativo.