di Fabrizio Casari

Sono cominciati ieri, con una riunione tra il ministro Fornero e la leader della Cgil, Susanna Camusso, gli incontri che il governo ha indetto con i sindacati per spiegare la cosiddetta “fase 2” della manovra economica. Proprio la Camusso, nei giorni scorsi, aveva chiesto che il confronto tra governo e sindacati fosse articolato su riunioni comuni, ma la ministra, come un Sacconi qualunque, ha rigettato la proposta. Cisl e Uil hanno fatto male a dirsi subito disponibili, ma non é una novità. La convocazione dei sindacati in incontri bilaterali, invece che collettivamente, evidenzia insieme una continuità con il governo precedente e un’ulteriore contraddizione tra parole ed atti del governo: mentre infatti Monti si affanna nel chiedere “rapidità” nelle consultazioni, la ministra indice riunioni molteplici invece di convocarne una sola.

Il tentativo del governo é palese: cercare, in incontri diversi, la divisione tra le sigle sindacali che possa incrinare la ritrovata unità. In questo senso il governo è conscio della tendenza di Cisl e Uil a piegarsi alle richieste governative, tanto per la tendenza al consociativismo governativo nelle politiche economiche, quanto per l’interesse di Cisl e Uil ad ogni manovra di ridisegno degli equilibri interni al mondo del lavoro, che supplisca con il canale privilegiato nella relazione con il governo alla prevalenza numerica della Cgil nella rappresentanza dei lavoratori. Non a caso gli accordi separati con il governo Berlusconi li hanno visti entusiastici aderenti.

E se la fase “cresci Italia” appare sempre più ignota, quasi come i piani d’investimento di Marchionne, gli obiettivi politici appaiono decisamente chiari: è l’abolizione dell’articolo 18 e il conseguente ridimensionamento dei sindacati sui luoghi di lavoro. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è ormai un’ossessione dei professori, incuranti tanto dell’assoluta inutilità della sua abolizione ai fini della modernizzazione del mercato del lavoro, quanto della ricostruzione di un’equilibrata relazione tra le forze sociali e della conseguente pace sociale. Elementi, questi ultimi, che anche dal punto di vista degli industriali sono imprescindibili per un progetto di riforma complessiva del sistema che non può che essere condiviso se vuole avere una minima percentuale di successo. Il delirio di onnipotenza che ha colto i professori del nulla sembra però prevalere.

Eppure l’abolizione dell’articolo 18 non apre il mercato del lavoro, non introduce elementi utili allo sviluppo. Non riequilibra la carenza di tutele tra occupati e disoccupati, tra impieghi fissi e precari, che attengono invece alla riformulazione del welfare. La libertà assoluta di licenziare non la chiede l’Europa, non lo chiede nemmeno Confindustria. Perché dunque accanirsi? Perché lo chiedono le banche, che si apprestano a varare un piano di licenziamenti che coinvolgerà decine di migliaia di persone solo nel corso del 2012. E non vogliono intralci nell’esecuzione del piano

Se la Cgil, al momento, sembra intenzionata a resistere, sarà il caso di vedere cosa succederà in casa PD, dove Bersani aveva solo pochi giorni orsono bocciato nettamente ogni tentativo di mettere mano alla norma che tutela i dipendenti delle imprese con più di 15 dipendenti da licenziamenti discriminatori.

Certo, nel PD le posizioni sono notoriamente diverse anche se si parla delle previsioni del tempo, ma Bersani dovrà decidere se ascoltare gli Ichino e i teo-dem, insieme ai veltroniani o se, invece, ascoltare il corpo del partito. Pensare di tacere o limitarsi ad eccepire educatamente, piuttosto che imporre un no secco e definitivo al tentativo governativo di colpire ulteriormente il mondo del lavoro, potrebbe determinare guai seri, molto più seri di quelli abitualmente oggetto delle diatribe interne.

Qui non si tratta di scegliere su quali poli costruire la prossima alleanza elettorale, ma di continuare a detenere il ruolo di leadership del centrosinistra. Vale la pena di rischiare per difendere un governo che è ormai, con tutta evidenza, incapace di formulare qualunque proposta di politica politica economica che lo distingua da quello precedente? O un governo di destra diventa accettabile in assenza di festini e volgarità?

 

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