di Rosa Ana De Santis

La legge di stabilità con cui il governo Berlusconi ha salutato il paese ha portato un bel regalo ai signori della guerra. E’ stato infatti cancellato il Catalogo delle armi da sparo, contribuendo a rendere più difficile qualsiasi forma di controllo e favorendo il commercio e gli affari delle lobby che traggono profitto dal mercato degli armamenti. La scusa di intervenire sulla crisi è sembrata sufficiente a spiegare un favore di questa portata a un gruppo, come quello di Finmeccanica, che certo non ha bisogno di privilegi e di aiuti.

Si continua a tagliare su numerosi fronti, mentre il bilancio della guerra nell’ultimo anno è vistosamente lievitato. L’ultima manifestazione che ha visto le Forze Armate protagoniste a Circo Massimo ne è stata, in certa misura, la prova simbolica più potente e, va doverosamente ricordato, per volontà non dei vertici militari che avevano optato per la sola ricorrenza dell’unità d’Italia - visto l’anno di austerity - ma per il narcisismo politico dell’ormai ex Ministro della Difesa.

La cancellazione del catalogo delle armi da sparo al fotofinish berlusconiano offre ora un ulteriore via libera al commercio bellico. Un macabro mercato sul quale il Rapporto di Amnesty International parla chiaro: Stati Uniti e molti paesi europei hanno nutrito le guerre, le rivolte e le crisi di tanti paesi difficili fornendo armi e autentica assistenza militare. Il Trattato studia il traffico verso Bahrein, Egitto, Libia, Siria e Yemen a partire dal 2005. L’Italia, in buona compagnia, è tra gli 11 paesi che hanno fornito munizioni ed equipaggiamenti allo Yemen, ad esempio, dove si sono contate molte morti di civili (indifesi manifestanti), e ai paesi del Nord Africa come la Tunisia e l’Egitto. Medio Oriente e Africa sono quindi il serbatoio assicurato di questo business e l’Italia figura tra i primi paesi che hanno fornito armi ai regimi arabi.

Diventa quasi impossibile, in questo scenario, dare credibilità alle parole della politica nazionale sulle guerre cattive e sulla necessità della pace quando proprio quei conflitti,osteggiati davanti alla tv, hanno in realtà  impolpato le casse dell’economia a suon di esportazioni. Lo stesso è accaduto con Gheddafi, prima che diventasse il nemico dell’Occidente.

Dal 2005 l’Italia ha aiutato il colonnello ei suoi con munizioni a grappolo, mortai e proiettili di ogni tipo. Poi il traffico è arrivato nelle mani dei ribelli, quelli che ora la comunità internazionale loda e difende, mentre fino a poco tempo fa armava il braccio proprio dei loro aguzzini. I lavori per un trattato internazionale che disciplini, caso per caso, un embargo su questo traffico quando interviene il serio rischio di una violazione dei diritti umani, sono ancora in corso e finora poco di concreto è avvenuto.

Le parole di riflessione di Helen Hughes, ricercatrice sul commercio di armi di Amnesty, che accompagnano i numeri del trattato e della ricerca inducono a riflettere sulla contraddizione, profonda e nascosta, tra l’economia e la politica. L’una mossa indipendentemente dall’altra con il risultato finale che gli affari rimangono sprovvisti di una direttrice etica e bastano a se stessi creando una spirale d’immoralità verso i beni privati e minando i beni pubblici fondamentali (i diritti in primis). Alla politica, come quella che abbiamo visto sfilare nei giorni della ribellione a Gheddafi, non rimane che una grancassa di trionfalismo retorico, senza contenuti reali e senza alcuna possibilità di incidere davvero nel corso delle cose.

In una parola è l’ipocrisia, infine, la protagonista di queste tristi pagine. Quella di chi, come gli Stati Uniti, hanno fatto dell’esportazione della democrazia una missione quasi mistica. Peccato che alla condizione già difficile da comprendere della guerra permanente in cui siamo caduti in nome di questa missione, si debba aggiungere il dato, sconcertante e colpevole, di aver armato chi ora - e già prima - era nemico della democrazia.

Quello che viviamo è forse null’altro che l’ultimo giro di giostra e l’ultima onda di profitto da seguire, fino ai prossimi nemici e alle nuove guerre che come un battesimo di sangue e rigenerazione (come sempre è stato del resto) porteranno a forme di ripresa e a solidi contratti di commesse e guadagni. Valgono tanto l’Afghanistan e l’Iraq. Cosi tanto che anche la nostra produzione di armi, mentre il resto dell’economia del Paese vivacchia nella speranza di qualche scampolo di bilancio e di ossigeno, avanza nell’attesa del nuovo nemico e dei nuovi acquirenti.
La pace non è mai stato un affare di stato.

 

di Rosa Ana De Santis 

Le ultime mosse del governo Berlusconi non si sono contraddistinte per correttezza, in perfetta continuità con il passato. Il tentativo, smascherato presto insieme a molti altri, è stato quello di cambiare le carte in tavola con la legge 40, introducendo nottetempo le ultime linee guida per impedire la diagnosi-preimpianto sull’embrione. Nei convulsi momenti di agonia dell’Esecutivo, al sottosegretario Roccella non deve esser sembrato vero di poterci inchiodare tutti al suo fanatismo, in aperta sfida peraltro, questo il dato più grave, con l’ultimo parere espresso dalla Corte Costituzionale che bocciava la legge in moltissimi suoi punti di applicabilità.

La forzatura del governo è stata accompagnata, come di consueto, dalle parole di Benedetto XVI sulla dignità assoluta di ogni forma di vita umana, partendo da quella elementare e ancora non compiuta dell’embrione. Se le parole del Pontefice non stupiscono e sono assolutamente coerenti con la dottrina cattolica, il colpo di mano sulla legge 40 chiude alle aperture che l’ombra di incostituzionalità sull’impianto della norma aveva acceso.

La Chiesa, persino in nome della ricerca scientifica e dei benefici di quella medica, non può ammettere che una vita umana sia sacrificata in nome di un’altra. E’ evidente che questo assunto ne contiene un altro, primo e fondamentale, ovvero che ci sia un’eguaglianza di specie assoluta tra l’embrione e un bambino. Un dogma che spiega l’equazione cattolica tra l’aborto e un omicidio e che sfida ogni osservazione ed evidenza empirica di buon senso. L’anima e la sostanza inviolabile di ogni forma di vita umana, viene prima di qualsiasi interpretazione, anche altruista e benevolente, sull’utilità e il ragionamento dei costi e dei benefici.

Interessante però che questo comandamento assoluto e imprescindibile cada del tutto quando c’è di mezzo la categoria del martirio. La madre che non si cura e sacrifica la propria vita per far nascere un bambino è considerata santa e martire, eppure è una persona che ha scelto di rifiutare la propria sacralità di vita impegnandola in una causa che considera più importante e nobile della propria stessa sopravvivenza. Una questione di scelta che merita tutto il rispetto che deve esser riservato all’autodeterminazione e all’autonomia di giudizio. Per la Chiesa però è solo il martirio che autorizza la negazione consapevole e volontaristica della propria esistenza, a quanto pare. E’ l’unica lettura possibile e ammissibile, purtroppo, che sembra esser riservata al principio del libero arbitrio.

Perché tutto questo non vale più quando la causa cui si sacrifica la vita umana ab origine è la scienza e i suoi progressi. Forse perché lo sviluppo della tecnica rappresenta un orizzonte di autonomia della ragione umana che spaventa, come sempre è stato, il potere delle religioni e dei loro apparati terreni.

La Chiesa dirà che la differenza tra la soppressione di embrioni e la madre suicida è l’assenza, per i primi, di volontà e consapevolezza. Se gli embrioni sapessero a cosa serve il loro martirio lo accetterebbero? L’assurdità dell’interrogativo trova una sua risposta, proprio nella scienza. L’embrione non può scegliere perché non ha una struttura fisica e psico-emotiva che lo renda abile alla scelta, l’embrione non è un bambino mandato al martirio, l’embrione non può comportarsi come una persona umana. Forse perché non lo è o non lo è ancora? Del resto di fronte ad un bambino già nato, persona compiuta, fintanto che non è autonomo, non sono i suoi genitori a decidere per lui?

E’ qui che scatta l’autorità e il diritto di chi lo genera a decidere al suo posto con la certezza che l’embrione, a differenza di quel bambino, non è dotato di ciò che lo rende capace di percepire la vita e la morte, il dolore e il piacere. Non è mancanza di pietà, ma assenza di ciò che la rende possibile. Se non si comprende che la produzione di embrione a fini medici o la diagnosi pre impianto salveranno bambini da malattie oggi incurabili o da anomalie genetiche invalidanti e spesso mortali, questi, certamente persone che percepiscono la vita e il dolore,  continueranno, con tutta l’anima che la fede cattolica gli riconosce a pagare il prezzo più grande.

Quello di una dottrina che ancora oggi, dopo secoli di concili e di riconciliazioni con la scienza, pretende di sfidare l’evidenza dell’osservazione per salvare la croce. Quella che la scienza vuole togliere e che la fede ha bisogno di conservare. Quasi sempre per chiedere ad una donna il martirio di sacrificarsi per un figlio e per non riconoscerle mai il diritto di conoscere l’identità genetica di un embrione per avere un figlio sano o per fare in modo che altre donne, grazie al progresso della scienza e alla disponibilità di embrioni, abbiano lo stesso diritto.

Se l’inno cattolico alla vita si trasforma in uno strano privilegio degli embrioni a danno di bambini che continueranno a non avere il diritto alla salute e in una mortificazione alla scelta e all’autonomia delle persone, la fede diventa una faticosa contrarietà al buon senso e alla pietas. Come se la fede per stare in piedi avesse un disperato bisogno del dolore e della dannazione terrena. Uno strano modo di rispettare le meraviglie della creazione e uno svilimento del sacro, che si riduce così o a martirio o a miracolo, che toglie dignità alla natura umana, proprio quando vorrebbe salvaguardarla o, come suggerisce la scrittura, benedirla.

 

di Fabrizio Casari

L’uscita di scena, normalmente, è parte della recita e, tanto quanto la recita, indica le qualità di un buon attore. Quella di Berlusconi è stata in linea con il personaggio: un inchino dovuto agli applausi dei comprimari, un gesto di sfida verso il nuovo set che si va allestendo. L’inchino agli applausi dei comprimari è un ringraziamento sentito: il do ut des che ha permesso a oscuri personaggi di quarta fila d’ingrassare e ingrossare il proprio curriculum in cambio del servile contributo alla causa dei suoi interessi che ha caratterizzato i diciassette anni lungo i quali si è snodata l’avventura del cavaliere.

L’ultima seduta della Camera con Berlusconi a capo del governo è arrivata a seguire l’ultimo Consiglio dei Ministri, malinconico e privo di futuro. Perché Berlusconi potrà anche ricandidarsi, potrà anche cercare l’ennesimo colpo di reni, ma non sarà più quel che è stato, alfa e omega di un blocco sociale, verbo del nuovo qualunquismo, occasione di liceità per gli impulsi impolitici di un Paese da sempre ostile al frequentare la responsabilità e il senso dello Stato che caratterizzano le grandi nazioni.

Berlusconi è stato molto amato dai suoi e molto detestato da chi suo non lo era o non rimase tale sempre. Le facce, il corpo, le parole e gli atti di un modo di governare indifferente al senso dell’opportunità, al dovere della responsabilità verso il Paese lo hanno contrassegnato. Nella storia delle diverse stagioni della politica italiana, quello di Berlusconi è stato l’unico regime concepito, costruito e alimentato per e con la supremazia degli affari privati del capo. Le sue aziende e la loro fortuna, i suoi vizi privati e un piccolo esercito chiamato a servire l’imperatore e a servirsi a sua volta dell’impero, non hanno conosciuto precedenti simili, a nessuna latitudine. Nulla, nel suo governare, ha avuto il segno del bene comune, tutto è stato ad personam, persino la legge elettorale.

Ma il personaggio non è stato solo questo. Berlusconi è stato capace di tenere insieme l’establishment e gli esclusi, faccendieri e politicanti, evasori e corruttori, vittime e carnefici, trasformando il Paese intero in un palcoscenico dove attori e comprimari si scambiavano i ruoli. Ed è stato capace di creare un blocco sociale di consenso numericamente enorme, anche perché socialmente trasversale: operazione resa possibile, soprattutto, da un’abilità straordinaria nella propaganda politica.

Compito certo resogli più facile grazie alla sproporzione di mezzi a disposizione nei confronti degli avversari, ma onestamente frutto anche di una capacità superiore nel saper interpretare gli umori popolari, nel saper elevare gli istinti più beceri dell’egoismo nazionale a senso comune, nel saper piegare i bisogni collettivi ai suoi bisogni familiari. Il tutto sempre con la capacità di occupare il centro della scena, di saper imporre la sua agenda privata sulla congiuntura politica.

E anche nelle modalità dell’ultima crisi, quella finale, è stato capace di sceglierne i tempi, i riti, le gestualità; scansata la sfiducia per non cadere sul campo, ha scelto quando uscire, come uscire e il modo di uscirne, pur nell’ambito di un epilogo inevitabile: insomma una regia ad personam per il suo ultimo film.

L’anomalia di Berlusconi, però, non è stata solo quella di scegliere i tempi e le modalità di comunicazione della politica, ma anche quella di governare per diciassette anni senza avere un progetto per l’Italia, considerata sempre e solo il bacino di utenza delle sue ambizioni, del suo narcisismo, dei suoi affari. Mai nel cavaliere è prevalsa un’idea di modello di società da proporre, bensì la progressiva destrutturazione di ogni cemento sociale e culturale, obiettivi ai quali ha dedicato ogni energia, ogni mezzo, lecito e illecito. E’ sceso in campo con la forza delle sue televisioni e dei suoi miliardi, riuscendo a moltiplicare la sua presenza nel sistema mediatico e costruendo la sua vera fortuna patrimoniale.

Nella giornata appena conclusa si è riproposta, nel perimetro di Montecitorio, la storia di questi diciassette anni: lui al centro dell’emiciclo che riceve gli applausi dei suoi deputati, mentre fuori persone di ogni età applaudivano alla sua uscita di scena. Opposte fazioni per opposti applausi. Non poteva uscire diversamente chi, per il suo ego debordante, dell’applauso e persino dei fischi ha avuto sempre bisogno per poter dimostrare di essere comunque, nella vittoria e nella sconfitta, unico destinatario dell’attenzione generale.

Per la prima o per l’ultima volta quelle persone che l’hanno sempre detestato e combattuto l’hanno in qualche modo salvato da una fine anonima, dal nulla che incombeva. L’assenza di festeggiamenti per la sua uscita avrebbe potuto ferirlo davvero; si sarebbe sentito, per una volta, un uomo qualunque, vittima dell’indifferenza dei più, della scrollata di spalle collettiva, incamminato su una corsia preferenziale verso un limbo inaspettato. Ma ha dovuto lasciare il Quirinale da un’uscita secondaria e rientrare a casa da un’altra entrata secondaria per evitare immagini a testa bassa. Perché le persone prima o poi se ne vanno, ma le foto della sconfitta restano per sempre. Letali.

di Carlo Musilli

Berlusconi si dimette, ma non molla la presa. Chi festeggia il 12 novembre come nuova festa della Liberazione dovrebbe forse riflettere su quello che il Cavaliere è ancor in grado di fare al nostro Paese. Ormai è certo che a guidare il prossimo Esecutivo sarà il professor Mario Monti, ma dubbi di ben altra importanza rimangono sul tavolo: quale sarà il margine d'azione del nuovo governo? Quanto durerà? Sarà in grado di svolgere il compito per cui è stato nominato, o gli verranno posti dei limiti che ne mineranno l'efficacia?

Alla fine Berlusconi ha garantito l'appoggio al nuovo esecutivo, che con ogni probabilità verrà nominato oggi stesso - dopo le consultazioni del presidente Napolitano - e sarà formato solo da tecnici. Sembra che il Cavaliere abbia cercato di trattare con il neosenatore a vita per la nomina di alcuni ministri e per l'impostazione del programma, ricevendo un secco no come risposta.

Poi però è partito il valzer delle indiscrezioni sui paletti imposti dal Pdl, in particolare dall'area ex An: il governo dovrà avere una durata limitata e prestabilita, dovrà limitarsi a varare i provvedimenti contenuti nella lettera all'Europa (quindi niente riforma elettorale) e i suoi componenti non dovranno candidarsi alle successive elezioni. Il nodo di cui più si è discusso è però quello relativo a Gianni Letta: molti berluscones lo vorrebbero vicepremier, per mantenere comunque un indirizzo politico. Ma pare che lo stesso Berlusconi sia poco convinto da questa soluzione, soprattutto perché non verrebbe mai accettata dalle opposizioni (che infatti hanno subito urlato il proprio niet).

Il voto dei pidiellini rimane appeso a un filo, come quello dei deputati Idv. Il partito di Antonio Di Pietro aveva tentato di schiacciare sull'acceleratore della demagogia sostenendo ciecamente la causa delle elezioni anticipate, ma ben presto si è accorto di aver sbagliato direzione. Gran parte dei suoi stessi militanti ha capito che indire in questo momento una campagna elettorale vorrebbe dire gettare l'Italia in pasto ai mercati e farla sbranare a pezzo a pezzo dagli speculatori. Non ci è voluto molto perché l'ex magistrato si riducesse a più miti consigli e specificasse che semplicemente non può garantire "una fiducia al buio".

Certezze granitiche arrivano invece dalla Lega, che si collocherà all'opposizione. Lo hanno confermato gli ex ministri Maroni e Calderoli nell'ultima riunione con il premier dimissionario. Umberto Bossi ha spiegato che il Carroccio non può sostenere Monti, un uomo che vuole "privatizzare le municipalizzate". Ma la verità sembra essere un'altra: le camicie verdi hanno un bisogno disperato di ricompattare il partito e di ricucire il rapporto con la base. Rifiutando di assumersi qualsiasi responsabilità in tempo di crisi, i leghisti puntano a diventare i paladini degli scontenti (e ce ne saranno molti se il professore farà bene il suo lavoro), riuscendo magari a drenare parte dei voti persi dal Pdl.

Che questo significhi rottura definitiva o meno, è evidente che Berlusconi continuerà ad avere dalla sua parte gli uomini del Senatùr ogni qualvolta intenderà votare contro il nuovo Governo. E perciò può ancora permettersi di gonfiare il petto: "Siamo in grado di staccare la spina come e quando vogliamo", avrebbe detto al termine dell'ultima riunione con i suoi a Palazzo Grazioli, poco prima di salire al Quirinale per rimettere il mandato.

Era chiaramente un bluff, visto che la maggioranza alla Camera non esiste più. Ma quando arrivano dal Cavaliere anche i bluff non vanno presi sottogamba. Se ne sono accorti anche Idv e Terzo Polo, che nel corso dell'ultima votazione a Montecitorio sul Ddl Stabilità (approvato in via definitiva con 379 voti a favore, 26 contrari e 2 astenuti) si sono espressi a favore di un testo che non hanno contribuito a scrivere.

L’hanno fatto per alzare una cortina di fumo sui numeri alla Camera. Confondendo i propri voti con quelli della maggioranza, i due partiti d'opposizione hanno evitato che il governo ormai moribondo dimostrasse di poter tornare sopra la fatidica quota 308 (con maggioranza assoluta a 316). Quella era la soglia raggiunta nel voto sul Rendiconto, che ha segnato il tracollo finale del vecchio esecutivo.

L'espediente ha avuto una sua efficacia, ma non è bastato a fiaccare l'animo Berlusconi, che reclama sempre e comunque di avere i numeri per condizionare le sorti dell'Italia. In effetti, almeno al Senato è così. Ma anche nell'Aula di Montecitorio non è assolutamente scontato che i lavori del nuovo governo fileranno via senza alcun incidente. E' quantomeno avventato supporre che tutti i pidiellini redenti terranno fede alla loro conversione senza mai vacillare. I nuovi ministri saranno pure dei tecnici bocconiani, ma i deputati che siedono intorno a loro sono gli stessi che abbiamo eletto nel 2008. E ormai li conosciamo.

 

 

 

di Mariavittoria Orsolato

Ieri, nella data simbolica dell’ 11.11.11, il popolo di Occupy Wall Street ha indetto una giornata di mobilitazione globale per continuare la protesta contro la finanza globale, le politiche di austerità e in generale un sistema capitalistico oggettivamente arrivato al capolinea. In Italia l’invito d’oltreoceano è stato colto con entusiasmo e in più di 50 città lungo la penisola si sono svolte manifestazioni, flash mob e occupazioni. Per il movimento riorganizzatosi dopo il 15 ottobre, infatti, l’imminente fine dell’era Berlusconi non può essere festeggiata, né considerata come una vittoria: di fronte alla prospettiva di un governo tecnico manovrato da Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale, l’unica cosa da fare è continuare a protestare.

I primi e i più numerosi a scendere in piazza sono stati, non a caso, gli studenti medi e universitari. I primi a sbattere il muso contro un futuro ormai negato e gli ultimi ad essere ascoltati dalle istituzioni. A differenza di quello che fu il primo passo della protesta e dell’autorganizzazione del movimento - quell’Onda che tre anni fa si riversò contro i tagli imposti dalla riforma Gelmini - i ragazzi oggi non cercano il dialogo con il palazzo ma puntano direttamente ad assediarlo, a delegittimarlo definitivamente per intraprendere un percorso di democrazia orizzontale.

A Roma, sfidando nuovamente l’ordinanza di Alemanno, hanno organizzato un presidio di oltre due ore in via XX settembre, davanti al Ministero del Tesoro. A Bologna, hanno dipinto grandi “V” rosse sugli istituti di credito, le sedi assicurative e davanti alla sede felsinea di Equitalia, l’agenzia di riscossione statale che con le sue ingiunzioni più di tutte sta facendo pagare agli italiani le conseguenze di questa crisi. A Fiesole gli indignati fiorentini hanno contestato aspramente il presidente del Consiglio europeo Van Rampuy, mentre a Milano si sono stesi sull’asfalto di fronte agli uffici del Parlamento europeo del capoluogo lombardo, tracciando con la vernice le sagome di quelle che hanno definito “vittime dell’austerity”.

Una protesta anticapitalista che non individua nell’eventualità del governo tecnico il male minore e che rifiuta in toto quella che a tutti gli effetti potrebbe essere la definitiva affermazione dell’elite finanziaria sulla sovranità statale. Vedono il probabile governo Monti come uno svuotamento irreversibile della democrazia, con un tecnocrate assolutamente inserito nella cricca dei reprobi della finanza il cui compito sarà quello di calare dall’alto provvedimenti atti solo ad assecondare i mercati e a scaricare sui cittadini il costo della crisi delle banche. Temono che tra le misure imminenti ci sia la privatizzazione di quei beni comuni messi in salvo dai referendum di maggio, invocano il diritto all’insolvenza e, dopo quanto successo ad Oakland, puntano sullo sciopero precario e generalizzato per dare visibilità al dramma della disoccupazione e dei lavori “a gratis”.

Chiedono di salvare l’istruzione e non il sistema bancario, inneggiano al default. Puntano sulle occupazioni delle scuole e degli spazi in disuso dei comuni per dare riparo alle assemblee - ormai permanenti - che cercano di discutere sulle forme di mobilitazione, che provano a creare dal basso delle alternative efficaci a combattere la crisi, senza toccare il welfare e la già ristretta possibilità di entrata (o permanenza) nel mondo del lavoro.

Dopo il 15 ottobre si sono ripromessi di non cedere alla tentazione distruttiva e di portare avanti le loro ragioni con pratiche differenziate e creative. Come quella di Santa Insolvenza, figlia dell’area disobbediente bolognese e interpretata dal trans Valerie, che vestita di banconote false organizza processioni contro il debito e utilizza il megafono umano messo a punto a Zuccotti Park per far recitare le sue preghiere anti-austerity.

Quanti ieri si sono recati nelle piazze delle città italiane rifiutano di credere che la soluzione a questo momento esiziale sia la caduta di Berlusconi. Informati su quanto giù successo in Grecia e altrove, sono ormai consapevoli che questa “dipartita” è dovuta alla “morbidezza” con cui l’ormai ex Esecutivo ha affrontato i richiami della BCE. Che Berlusconi è stato disarcionato non tanto per la sua inadeguatezza ad affrontare la crisi economica, quanto perché troppo politicamente debole per attuare la macelleria sociale che i mercati e l’elite neoliberista chiedono per ripianare i debiti dell’Italia.

I ragazzi, i precari, i ricercatori e tutta quella galassia di svantaggiati che si riconosce nel 99% soverchiato e oppresso dall’1% non hanno nulla da festeggiare, non vogliono cedere al masochismo del male minore perché sentono che il loro futuro e i loro diritti possono essere cancellati in nome dei bilanci e dei numeri fittizi della finanza. Più che indignati, sembrano proprio incazzati neri e il 17 novembre sono pronti a scendere in piazza di nuovo.

 


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