di Mariavittoria Orsolato

Ad aprire un qualsiasi manuale di economia, si potrà leggere come la crisi del mercato pubblicitario vada di pari passo con la crisi economica: se si deve risparmiare bisogna tagliare il superfluo e l’advertising, per quanto utile, è quasi sempre tra le voci da depennare. Nei manuali si dovrebbe però anche trovare un sottoparagrafo dal titolo “l’eccezione Italia” e il perché è presto detto. Mediaset, attraverso la concessionaria Publitalia - inutile dirlo, entrambe di proprietà del premier Berlusconi - hanno fatto incetta di spot governativi, accaparrandosi 4,659 milioni di euro sui 21,466 stanziati nel 2010 per giornali, televisioni e radio.

Un capolavoro del conflitto d’interesse grazie a cui il 22% della cifra stanziata dal governo per trasmettere le cosiddette “pubblicità progresso” - perché in fondo il livello è da Teletubbies - è finito a costo zero nelle tasche dello stesso presidente del consiglio.

La Rai, essendo azienda pubblica, è obbligata a concedere spazi gratuiti alle comunicazioni istituzionali e pur avendo trasmesso spot per un valore di 890.000 euro, non ha incassato una lira. Le restanti concorrenti, ovvero Telecom Italia Media ( La7 ed Mtv) e Sky, hanno praticamente raccolto le briciole: alla prima sono andati 333.000 euro mentre alla piattaforma del tycoon australiano poco più di 190.000 euro.

Un’operazione magistrale che, per dirla nel gergo commerciale, rimane tutta nella lunga filiera della megaholding Berlusconi, holding che come abbiamo visto, comprende anche il governo italiano. Non pago del risultato dello scorso anno, anche per il primo semestre del 2011 il Biscione ha voluto fare incetta di “pubblicità progresso”: mentre infatti la scure di Tremonti si abbatteva sui portafogli dei ministeri, Palazzo Chigi aveva designato ben 8 milioni di euro alla pubblicità istituzionale, di cui ben 2,2 erano destinati ai costi di trasmissione sul il piccolo schermo. Manco a dirlo, il 90% di questo budget pubblicitario - circa 1,9 milioni di euro - è finito nelle casse di Cologno Monzese. Che strano.

Medium diversi ma stesso copione. Pur di non lasciare nulla di intentato, Mediaset ha istituito una seconda concessionaria pubblicitaria creata ad hoc per la tv digitale pay e per contrastare ovviamente l’avversaria Sky. Negli ultimi due anni Digitalia 08, questo il nome dell’ennesima scatola cinese, ha raccolto grazie agli spot istituzionali la bellezza di 157.000 euro.

Per quanto riguarda la carta stampata invece, sia nel 2010 che quest’anno, la Mondadori - ennesima società a cui fa capo il nostro piccolo Cesare in caduta libera - ha sbaragliato la concorrenza in fatto di raccolta da fonti governative. Lo scorso anno la cifra incassata si è aggirata sul milione e mezzo di euro, mentre per il primo semestre di quest’anno siamo addirittura oltre la metà, con 767.000 euro.

Conti alla mano, le percentuali sono presto fatte: nel 2010 gli introiti di Mediaset sono lievitati di 160 milioni di euro, per un totale di 2,413 miliardi. Un miracolo che non ha nulla da invidiare a quello di San Gennaro dato che, puntuale, si è replicato nel 2011: nei primi sei mesi di quest'anno, Mondadori, Digitalia e Publitalia si sono accaparrate circa il 34% della torta delle pubblicità istituzionale (più di 2 milioni e 700 mila euro sugli 8,081 stanziati) lasciando a letteralmente a bocca asciutta i concorrenti diretti La7 e Sky.

Una volta vampirizzato il campo della pubblicità istituzionale, a rimpinguare le casse di Cologno Monzese - a scapito degli altri concorrenti - ci hanno pensato poi aziende del fu comparto statale come Eni ed Enel. Stando a quanto afferma il Corriere Economia, l’Ente Nazionale Idrocarburi avrebbe investito 21,2 milioni di euro per la sua pubblicità sulle reti Mediaset mentre in Rai avrebbe lasciato solo 13 milioni. Un distacco nettissimo rispetto al 2009, quando il cane a sei zampe aveva investito 8,9 milioni in Viale Mazzini e 12,7 milioni a Cologno Monzese.

L’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica è riuscita a fare ancora di meglio, raddoppiando l’investimento pubblicitario su Mediaset rispetto alla Rai: nel 2010 la prima ha incassato ben 19 milioni di euro mentre la seconda a malapena 11. Uno squilibrio evidente che non si spiega in altro modo, se non con l’ubiquità del presidente del consiglio. Pur avendo assunto un atteggiamento messianico, in questi tempi di crisi al mago di Arcore è riuscito un solo miracolo: moltiplicare gli introiti. I suoi ovviamente.

 

di Carlo Musilli

"Sul decreto sviluppo non c'è fretta". Solo una settimana fa Silvio Berlusconi ostentava sicurezza sulle possibilità del governo di varare un nuovo pacchetto di misure per la crescita. Oggi il Cavaliere si ritrova a combattere su due crinali altrettanto scivolosi: salvare la faccia di fronte ai leader che lo vogliono commissariare e obbedire ai loro ordini. Quei sorrisi beffardi che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy si sono scambiati per commentare la credibilità italiana hanno cosparso di sale la ferita, ma non ci hanno raccontato nulla che non sapessimo già. A tenere per il guinzaglio il nostro Esecutivo non sono i governanti di Parigi e Berlino - che pure hanno buon gioco a trattarci come gli ultimi della classe da mandare dietro la lavagna - ma i vertici stessi delle istituzioni comunitarie.

L'irrisione pubblica certamente non fa piacere, eppure in questo momento a soffermarsi sull'umiliazione subita si manca il bersaglio. In queste ore il governo italiano è nel caos per tutt'altro motivo. Ieri il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, ci ha lanciato un ultimatum secco: al vertice Ue di mercoledì siamo obbligati a presentarci con qualcosa di concreto in mano. Misure efficaci, credibili e soprattutto approvate.

Incalzato da ogni angolo, il Cavaliere ha reagito, come al suo solito, giocando su due tavoli: ribalta mediatica e macchinazione politica. Mentre finge di non piegare la testa davanti all'arroganza mitteleuropea, sostenendo che "nessuno nell'Unione può autonominarsi commissario" né "dare lezioni ai partner", il premier si affanna ad accontentare quelle autorità contro cui non può nulla. In caso di sconfitta, stavolta, sarebbe difficile cavarsi dalla buca lanciando accuse di comunismo e disfattismo.

Ed ecco comparire repentinamente in agenda un Consiglio dei ministri straordinario. Il governo si ritrova ad avere due giorni per risolvere i problemi che non ha voluto affrontare negli ultimi tre mesi. Com'è ovvio, prevale immediatamente la regola del caos. I punti più controversi sono i soliti due: fisco e pensioni. Sul primo fronte si torna a parlare di amnistie, ma con significative variazioni sul tema. Il condono tombale vecchio stile non è una strada praticabile semplicemente perché nell'Unione europea - in base ad una sentenza della Corte di Giustizia risalente al 2008 - è illegale. Per ovviare a questa difficoltà, dalle prime indiscrezioni sembrava che la maggioranza avesse pensato ad una moltiplicazione miracolosa delle sanatorie.

Nella bozza del dl sviluppo ci sarebbero state addirittura 12 sottospecie di condono. Dal ministero dello Sviluppo economico è poi arrivata la smentita, tuttavia sembra utopico ritenere che la maggioranza possa rinunciare in toto a uno strumento che consentirebbe così facilmente di battere cassa. In particolare, negli ultimi giorni si è parlato con insistenza di "concordato fiscale di massa", che nella sua forma base si fonda su un meccanismo semplice: i contribuenti che accettano di versare al Fisco una cifra leggermente superiore a quella dichiarata vengono risparmiati dai controlli.

Sul fronte della previdenza, invece, si consuma lo scontro politico vero e proprio. L'innalzamento dell'età pensionabile a 67 anni (che potrebbe diventare un requisito comune a tutti i Paesi Ue) è un fatto a cui dobbiamo rassegnarci nella sostanza. I veri campi di battaglia sono altri: le modalità con cui la riforma sarà applicata (in particolar modo alle donne nel settore privato) e soprattutto il destino dei tanto bistrattati assegni di anzianità. Berlusconi li vuole cancellare (anche se ancora non è chiaro come intenda farlo) mentre la Lega rimane granitica sulle sue posizioni contrarie a ogni e qualsiasi intervento in tema pensionistico. Uno scontro che è durato tutta l'estate e che ora dovrà risolversi in poche ore. Altroché se c'è fretta. 

di Mariavittoria Orsolato

Dopo quanto successo lo scorso 15 ottobre a Roma, il dibattito pubblico si è concentrato - con risultati discutibili - su quali siano i limiti del dissenso, su come sia giusto manifestare, su quali debbano e non debbano essere le pratiche da utilizzare per contrastare una terribile crisi economica e politica che tutti riconoscono. Dato il livello di scontro raggiunto alla manifestazione “degli indignados”, inevitabile che le narrazioni della giornata si concentrassero sul binomio manicheo “violenza/non violenza” e che si perdesse di vista il fatto che, giunti al punto di disagio sociale in cui siamo, l’azione avrebbe necessariamente preso il posto della semplice mobilitazione.

Si è speculato su infiltrati, black bloc e borgatari rimbecilliti e, nella corsa a prospettare il futuribile più nero, si è spesso tirato in ballo - La Repubblica su tutti - il movimento No Tav come possibilissimo ricettacolo di frange sovversive. Una settimana dopo, la coraggiosa sacca di resistenza che da 22 anni protesta contro l’Alta Velocità e la costosissima devastazione della Val di Susa, ha dimostrato la miopia di molte affermazioni.

Stando alla stampa mainstream, alla manifestazione di ieri si sarebbe dovuti arrivare con le peggiori intenzioni: tutti concordi nel dire che la protesta No Tav ammicca ai cosiddetti “violenti” perché, come afferma la redazione torinese di Repubblica “è convinta che le azioni estreme dell'ala dura possano utilmente garantire visibilità alla causa”. Durante la mattinata 419 no tav sono stati identificati, 286 il numero dei veicoli controllati e 3 le persone denunciate a piede libero; lo schieramento delle forze dell’ordine era imponente - circa 2000 unità a presidiare la zona rossa del cantiere - e le strade per raggiungere la valle pattugliatissime.

C’erano addirittura i lince (i superblindati in dotazione all’esercito) ma, probabilmente anche perché lo Stato deve oltre 30.000 ore di straordinari non pagati agli agenti impegnati a Chiomonte, i tanto attesi scontri tra manifestanti e polizia non si sono verificati. Il teatro di quello che molti avrebbero voluto fosse un secondo tempo di quanto visto a Roma, affollato per l’occasione da troupe giornalistiche eterogenee, non ha infatti regalato alle telecamere la “violenza” da tutti prospettata e le concitate dirette dalla valle hanno chiuso in fretta e mani vuote. Il perché si spiega facilmente con la cronaca di quello che è stato il 23 ottobre dei No Tav.

Concentrati nel piazzale del campo sportivo di Giaglione, gli almeno 2.000 manifestanti (secondo fonti interne, 1500 per la questura) hanno improvvisato un’assemblea per decidere come procedere nel perseguire l’obiettivo dichiarato da settimane e ribadito all’indomani dei fatti romani: tagliare le reti che circondano il cantiere ferroviario che sta letteralmente scippando preziose risorse alla collettività. Partiti con tenaglie e cesoie alla mano si dirigono verso la zona rossa, un’aria plurirecintata in località Maddalena, gridando che tagliare le reti non è un reato. Riescono a passare la prima recinzione grazie all’azione delle donne valsusine, si dividono in tre spezzoni per aggirare il blocco sulla strada principale e arrivati dinanzi alla seconda recinzione eludono anche quella senza provare a forzarla e raggiungono la baita Clarea - acquistata legittimamente dai No Tav un anno fa per intralciare i progetti dell’opera -  dove pranzano tranquillamente e indicono un’ulteriore assemblea per tirare le somme della giornata.

“Il popolo No Tav, con una partecipazione enorme, è riuscito ad entrare nella zona rossa, bypassando i divieti e tagliando le reti poste da un’imponente dispositivo di sicurezza. La Val di Susa si è ripresa la sua terra impartendo lezioni a tutto l’apparato politico e mediatico che nei giorni scorsi aveva cercato di screditare in tutti i modi possibili il movimento”, questo il riassunto della giornata assolutamente pacifica di ieri che fa il sito ufficiale www.notav.info

Esercitando la semplice disobbedienza civile, i valsusini sono riusciti a dimostrare all’Italia come imporsi sulle politiche che si considerano sbagliate e verso cui si sente il dovere di ribellarsi. Una ribellione che pur comportando azioni concrete verso obiettivi materiali, può raccogliere il plauso e l’appoggio di cui quest’embrione di movimento anticapitalista necessita dopo il 15 ottobre. Come recita la definizione di wikipedia, infatti: “Se si parte dal presupposto che lo stato è una costruzione umana, che non è infallibile, e che è diritto dovere dei cittadini di vigilare affinché esso non abusi del suo potere, la disobbedienza civile appare salvifica e meritoria”.

Ed è da questa meritorietà che il movimento civile dovrebbe partire per ridiscutere le sue pratiche e organizzarsi per essere realmente incisivi sull’andamento socioeconomico e politico nazionale. Nessuno dei presenti ieri al corteo ha dimenticato la battaglia del 3 luglio scorso, quando i poliziotti lanciarono centinaia di lacrimogeni e i manifestanti si difesero con centinaia di pietre, ma i No Tav stavolta hanno scelto di dialogare con gli agenti, di non dar loro alcun pretesto per esercitare la forza, hanno optato per il buon senso. Senza rinunciare all’azione diretta e concreta che in molti avocano per dare una risposta efficace allo stato di degrado in cui il Pese è scivolato.

 

di Carlo Musilli

Come nel romanzo di Dumas i tre moschettieri erano Athos, Porthos e Aramis, ma alla fine ha avuto più successo D'Artagnan, così nella corsa a Bankitalia i tre candidati erano Saccomanni, Grilli e Bini Smaghi, ma alla fine è diventato governatore Ignazio Visco. Fra i bookmakers si è diffuso lo stupore. Fra tutti gli altri, il sollievo. La nomina ufficiale è ancora da venire, ma ormai l'iter da sbrigare è pura formalità.

Contro ogni aspettativa, il nome indicato da Silvio Berlusconi sta bene proprio a tutti. Ieri è stato un rutilare di comunicati e dichiarazioni in cui le parole più ricorrenti erano "professionalità", "autonomia" e "indipendenza". Insomma, apprezzamenti trasversali: dalla furibonda Confindustria al mondo delle associazioni, dal più remoto anfratto della politica fino alla vetta Quirinale.

Visco in effetti non ha nulla che non vada. Economista di alto profilo con una carriera decennale in Banca d'Italia che l’ha portato fino alla carica di vice direttore generale, può contare anche su una solida esperienza internazionale come chief economist nientedimeno che dell'Ocse. La domanda però rimane: se si doveva scegliere un candidato interno a via Nazionale, perché non il direttore generale Saccomanni? Perché scegliere il suo pur valoroso vice?

La risposta è nel modo in cui i nostri governanti concepiscono le istituzioni. In sostanza, una logica aziendale, la stessa che nell'era berlusconiana si è soliti applicare anche alle gerarchie dei partiti e della pubblica amministrazione. Uno schema che estende la pratica della lottizzazione anche alle poltrone che nulla hanno a che vedere (o almeno non dovrebbero) con le guerre di fazione.

Per settimane è andata avanti una miseranda battaglia politica intorno al nome da scegliere per il dopo Draghi. Saccomanni, che sarebbe stato il successore naturale di Supermario a voler seguire il cursus honorum, aveva un grosso handicap: era sostenuto da Silvio Berlusconi. Poco importa che dalla sua parte fossero schierati anche il presidente Napolitano e Sua Maestà uscente Mario Draghi. Il sostegno del Cavaliere è stato sufficiente ad attirare sul direttore generale l'antipatia di Giulio Tremonti, che ha subito sponsorizzato il suo prediletto, Vittorio Grilli.

Ora, quella del direttore generale del Tesoro è sempre parsa una candidatura un po' improbabile (se non altro per la sua compromissione politica), forse addirittura strumentale. In molti hanno interpretato l'impuntatura del ministro non tanto come l'aspirazione a piazzare un proprio uomo ai vertici di Palazzo Koch, ma come un buon pretesto per creare l'ennesima frattura nella maggioranza. Una scusa, un alibi per poi poter rassegnare le dimissioni senza perdere la faccia. Forse sarebbe andata effettivamente così se avesse vinto Saccomanni. Ma alla fine anche Tremonti si è ridotto a più miti consigli e ha portato a casa una mezza vittoria con l'elezione di Visco, la sua "seconda scelta".

Quanto a Bini Smaghi, c'è tutto un altro teatrino di cui rendere conto. Lo scorso aprile Berlusconi aveva promesso al presidente francese Nicolas Sarkozy che il posto nel board della Bce attualmente occupato dall'economista fiorentino sarebbe andato a un francese. In cambio, l'Eliseo avrebbe appoggiato l'ascesa di Draghi a timoniere dell'Eurotower, in sostituzione di Jean Claude Trichet. Piccolo problema: nessuno ha il potere di far dimettere Bini Smaghi, che dovrebbe andarsene di propria iniziativa. Peccato che non abbia alcuna intenzione di farlo, se non in cambio di un incarico altrettanto prestigioso.

Conscio di tenere il coltello dalla parte del manico, il fiorentino ha scelto di forzare la mano, rimanendo avvinghiato con le unghie e con i denti alla sua comodissima poltrona di Francoforte. La sua chiara intenzione era di mostrare i muscoli per lucrare una nomina spettacolare, come appunto poteva essere quella di governatore. Ma aveva fatto male i calcoli. L'atteggiamento eccessivamente sicuro, quasi spocchioso, ha finito con l'innervosire il Capo dello Stato, che pare abbia posto una sorta di veto alla sua elezione.

Inoltre, se alla fine Berlusconi avesse ceduto al ricatto, la nomina del nuovo banchiere centrale sarebbe stata fin troppo smaccatamente drogata dal più deteriore dei do ut des. In sostanza, avremmo eletto il capo di Bankitalia per far piacere al Presidente di un altro Paese. E tutto il mondo se ne sarebbe accorto. Senza contare che dai corridoi di via Nazionale avevano già promesso dimissioni a pioggia nel caso fosse stato nominato Bini Smaghi.

Pericolo scampato, ma la partita nel comitato direttivo della Bce rimane aperta. Sarkozy continua a pretendere il pagamento della cambiale firmata da Berlusconi la scorsa primavera. In verità, non senza qualche ragione: riuscita a immaginare un direttorio della Banca centrale europea in cui due poltrone su sei sono occupate da italiani?

A Parigi no di sicuro, anche perché da quel tavolo rimarrebbero esclusi proprio i francesi, che ad essere onesti hanno un peso a livello continentale ben superiore al nostro. Morale della favola: per evitare di creare un incidente diplomatico grave e di turbare ulteriormente i già precari equilibri della finanza comunitaria, Bini Smaghi dovrà assolutamente lasciare libero quel posto. Resta da vedere quale sarà la contropartita.
 

di Fabrizio Casari

Un riflesso. Condizionato o incondizionato che sia, è certamente un riflesso automatico quello che è scattato nella bocca (e forse anche nella testa) di Antonio Di Pietro quando, in consonanza con Maroni, ha proposto il ripristino della Legge Reale. Sarebbe questa, per il leader dell’IDV, la risposta giusta alle violenze imbecilli e autoreferenziali scatenatesi il 15 ottobre.

Intanto, a beneficio della cultura giuridica di Di Pietro, va ricordato che la legge Reale non è stata del tutto abrogata, giacché alcune delle norme in essa contenuta sono tutt’oggi vigenti. Poi, a beneficio della cultura politica del Di Pietro stesso, va ricordato come quella legge, del 1975, ha rappresentato uno spartiacque decisivo tra la giurisprudenza europea e quella emergenziale italiana, che venne in parte (ma solo in parte) superata dalla riforma del Codice di Procedura Penale, nel 1989, a firma di Vassalli e Pisapia.

La Legge Reale assegnò poteri straordinari alle forze di polizia e agli inquirenti: venne concesso l’uso delle armi da fuoco in piazza, la possibilità di effettuare perquisizioni senza autorizzazione del giudice, di operare arresti anche in assenza di flagranza di reato e di fermare per 48 ore un cittadino senza dover comunicare il fermo all’autorità giudiziaria, la quale, a sua volta, aveva a disposizione altre 48 ore per decidere se convalidare o no il fermo. Offrì tiro libero e fermo di polizia, in offesa ad una giurisprudenza che si voleva equa e garantista. La sua applicazione fu un fallimento totale: non impedì negli anni a seguire scontri durissimi di piazza, né l’insorgere e lo svilupparsi del partito armato; il suo bilancio, nei primi 15 anni, contò 254 morti su un totale di 625 vittime.

La legge Reale fu la rappresentazione più evidente dello scollamento intervenuto tra la legge e le norme liberticide che ad essa si sostituirono e il clima politico nel quale venne calata s’iscriveva più nell’idea che il sistema dominante non era giudicabile (“la DC non si fa processare nelle piazze”) che non alle esigenze di una corretta dialettica politica tra governo e opposizione sociale e politica anche al di fuori del Parlamento.

D’altra parte, in una fase storica nella quale il conflitto sociale e politico era altissimo, scegliere la strada delle leggi speciali non era tanto una “estrema ratio” contro la rappresentazione di piazza di quel conflitto, quanto piuttosto la ricerca dell’innalzamento del livello dello scontro tra il potere e chi vi si opponeva. Proprio quelle norme, infatti, ponevano la protesta davanti ad un bivio: arrendersi e lasciare la piazza o difenderla adeguando il livello a quello, altissimo, dell’ipoteca militare che lo Stato imponeva. L’obiettivo spacciato era la difesa dell’ordine pubblico, quello vero era azzerare le lotte sociali con la minaccia delle armi, piegare il conflitto sotto la paura, ridurre ogni istanza politica di rivolta alla compatibilità del differendo parlamentare. Tutto ciò che da questo esulava, diventava da quel momento una sfida all’ultimo sangue.

Il risultato fu drammatico, giacché da un lato esaltò le peggiori pulsioni autoritarie da parte delle forze dell’ordine (che pure stavano conoscendo una stagione di riforme che smilitarizzarono e democratizzarono - anche se non del tutto - la Polizia) e dall’altro spinse nel baratro militarista pezzi interi di ribellione sociale e politica. Nel giro di pochi anni, quelle norme liberticide diedero il loro contributo alla militarizzazione crescente d’intere aree dell’antagonismo gettandole nel dirupo dello scontro militare con lo Stato.

Con questo non va certo sottovalutata la follia armatista che si alimentava della ”autonomia del politico”, per usare un linguaggio di quei tempi, né le suggestioni emozionali di chi davvero credeva che le lotte di massa per invertire i rapporti di forza nella società fossero meno incisive dei colpi di pistola. Poco sembrò importargli che quei colpi erano sparati da soggetti che, privi di delega alcuna, avevano preso le armi in nome e per conto di chi voleva cambiare la società, ma che con loro niente aveva a che fare, niente condivideva e niente voleva avere a che spartire.

La lista nera delle vittime della Legge Reale cominciò dunque dalla messa in un angolo del sistema di diritti e garanzie e fu il primo di una lunga serie di tasselli che composero il domino di una giurisprudenza emergenzialista e liberticida che arrivò in seguito, solo per fare un esempio, a determinare in ben 11 anni l’ammontare del carcere preventivo possibile in attesa di processo. Caso unico al mondo.

Se è a quello schema giuridico che l’On. Di Pietro s’ispira, lo dica con chiarezza. Nessuno, del resto, potrebbe stupirsi più di tanto leggendo il curriculum professionale e politico del padrone dell’IDV. Ma ai danni fatti con le sue disinvolte candidature non dovrebbero sommarsi quelli derivanti da ancor più disinvolte parole in libertà. Dopo i De Gregorio e Scilipoti non si sente davvero la mancanza della riesumazione di Oronzo Reale.

Rispondere con una pulsione repressiva a quanto accade significa rifiutarsi di capire cosa si muove nel tessuto sociale del paese, rinunciare a interpretare e ad agire con il primato della politica. Se davvero fosse la tutela degli spazi democratici la coperta infeltrita che provano a cucire intorno al divieto, allora le strade sarebbero altre, giacché si dispone di mezzi, uomini e conoscenze per operare in chiave preventiva. Ma non sembrano i manifestanti pacifici l’oggetto delle attenzioni; sembra che più che essere interessati a tutelare l’esercizio del dissenso nelle piazze si sia preoccupati di chiudere le piazze alla protesta. Eppure, non è mai successo che la compressione degli spazi di democrazia abbia ridotto la violenza o aumentato il tasso di partecipazione democratica. Così facendo, si vuole aprire un fossato profondo nel quale far cadere qualche gruppo d’imbecilli per poi poter dire, come già qualcuno biascica, che chiedere la caduta del governo e un cambio radicale di politiche sia sinonimo di eversione?

Che siano gli ex-fascisti (ex?) a lanciarsi con enfasi nella gara a chi chiede più repressione e meno spazi, non è del resto strano. La democrazia, diversamente dalla scarlattina, non si attacca. Pare quindi evidente che si vuole approfittare di quanto esibito da 500 soggetti per marginalizzare o criminalizzare quanti si mobilitano contro questo governo e contro questo quadro politico.

Invece, il dato politico centrale di sabato scorso, sul quale ci si dovrebbe confrontare, sono le cinquecentomila persone giunte da ogni dove a dire che c’è un’Italia che vuole riprendersi la parola e lo spazio per pronunciarla. Non sono possibili equivoci al riguardo.

Se mezzo milione di persone scendono in piazza, se l’indignazione contro la guerra della finanza contro il lavoro diventa la parola d’ordine generalizzata, significa che la nostra scalcinata democrazia ha ancora da qualche parte risorse accantonate. Pur alla ricerca di un suo profilo identitario, nel caos di proposte senza senso rilanciate da becchini che si spacciano per medici, un’immensa massa critica si muove per dire che la pagina strappata della sovranità politica non è l’ultima pagina del libro.

Ovunque nel mondo, e anche in Italia, una nuova leva di donne e uomini cerca spazio e rappresentanza; non si riconosce in nessuno ma vuol essere riconosciuta da tutti. Non ha altre ricette se non quella dell’abbandono delle vecchie ricette. Non ha altri poteri se non quello di opporre un rifiuto, non ha altri mezzi se non quello della protesta. Sarà bene costruire un ambito di tutela per questo diritto alla protesta, sia dall’interno che dall’esterno; ma nessuno deve pensare che per eliminare la follia si elimini tout-court il diritto alla pubblica parola. In gioco non c’è la salvaguardia di un’innocenza ormai perduta, semmai la consapevolezza che quando la parola torna ad essere proprietà di tutti, siamo tutti noi che ne beneficiamo.

 

 


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