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di Carlo Musilli
Di Romano ha solo il nome, ma ce n'è abbastanza perché alle camicie verdi si rivolti lo stomaco. Il buon Francesco Saverio, ministro dell'Agricoltura, non solo è ancora più "terùn" dei tanto odiati capitolini (luogo di nascita Palermo), ma ha anche origini democristiane. Trasformiste, per la verità, visto prima di fondare il beneamato gruppo dei "Responsabili" (ora "Popolo e territorio") di partiti e partitini ne ha girati parecchi, a cominciare dall'Udc di Casini. Come se non bastasse, la poltrona attualmente occupata da Romano è sempre stata nelle mire dei leghisti e all'inizio della legislatura sembrava dovesse toccare a Luca Zaia.
Insomma, Francesco Saverio è il prototipo del politico che il Carroccio ha sempre detestato. E proprio lui sta per trasformarsi nella prova vivente di quello che Lega è diventata: un partito supino agli ordini del Palazzo, sempre più lontano da quella base territoriale che ne ha sempre costituito la forza.
Mercoledì la Camera voterà la mozione di sfiducia sollevata da Pd, Idv e Fli nei confronti del ministro dell'Agricoltura, indagato dalla procura palermitana per corruzione e concorso in associazione mafiosa. Dopo nemmeno una settimana dal salvataggio di Marco Milanese, alla Lega toccherà mandar giù anche questo rospo. L'exploit compiuto su Alfonso Papa, finito in carcere proprio per il disallineamento dei deputati padani, è ormai irripetibile.
A confermarlo è il ministro degli Interni, Roberto Maroni, leader di quella corrente anti-bossiana più vicina alla base che vorrebbe smarcarsi da Berlusconi per poter sopravvivere alla caduta del sovrano. Ma ancora non è tempo. Sulla testa di Romano - ha precisato il numero uno del Viminale - pende "una mozione di sfiducia presentata dall'opposizione. Ne sono state presentate altre in passato, ma sono sempre state respinte. Non vedo francamente perché non si debba fare la stessa cosa".
Maroni sorvola con leggerezza sulla gravità delle accuse mosse al ministro Romano. Mercoledì sarà respinta una sfiducia ben diversa da quella presentata in passato, ad esempio, contro Sandro Bondi. Allora si parlava d’incompetenza, stavolta di rapporti con la mafia. L'equazione non regge. Ma ormai il Carroccio si è trasformato nell'apoteosi del garantismo: "Voteremo no - ha spiegato il capogruppo alla Camera, Marco Reguzzoni - perché se passasse il principio che uno si deve dimettere in base ad un avviso di garanzia, consegneremmo a qualsiasi pm il potere di licenziare un ministro".
In realtà la ritrovata (o simulata) compattezza della Lega serve soltanto a proteggere il Pdl da se stesso, disarmando quei falchi tiratori (ben sette) che la settimana scorsa stavano per fare un bello scherzetto al Governo sul caso Milanese. Il tutto per tenere in piedi un Esecutivo che altrimenti sarebbe costretto subito a fare le valige.
In proposito Romano è stato chiarissimo, le sue minacce sono impossibili da equivocare: " Io sono il leader di un partito politico che sostiene il Governo - ha avvertito ostentando sicurezza - e con numeri diversi cambierebbe la maggioranza". Anche lui, con ovvia tendenza auto-assolutoria, sembra considerare i rapporti con la mafia come un peccato veniale per un ministro della Repubblica: "Devo rispondere non per fatti inerenti a un’attività politica, ma alla mia qualità di persona. E parliamo di vicende che risalgono a otto anni fa e che non possono inficiare l'attività svolta".
Ormai è diventato un ritornello stantio quello che ci racconta di una Lega in posizione di dominio sul Cavaliere e su tutto il Pdl. Se consideriamo quanto avvenuto nelle ultime settimane, la verità sembra essere esattamente il contrario. Il voto su Milanese aveva dimostrato la subalternità del Carroccio ai berluscones. E il nuovo salvataggio di Romano non farà che confermarla. Segni di una leadership che non c'è più, quella di Bossi, e di una che rischia di azzopparsi ancor prima di cominciare, quella di Maroni.
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di Mariavittoria Orsolato
Dopo l’annuncio dello scorso 15 settembre, alcuni attivisti appartenenti alla comunità Lgbt hanno dato seguito alla promessa di pubblicare online la lista con i nomi delle personalità politiche pubblicamente omofobe ma privatamente omosessuali. “Questa iniziativa - spiegavano in un messaggio gli attivisti sul loro sito - nasce per riportare un po’ di giustizia in un paese dove ci sono persone che non hanno alcun tipo di difesa rispetto agli insulti e gli attacchi quotidiani da parte di una classe politica ipocrita e cattiva”.
Puntuale, alle 10 di ieri mattina, il blog listaouting.wordpress.com ha reso noti i primi 10 nomi di quanti, tra gli scranni del centrodestra nasconderebbero la loro identità sessuale dietro posizioni del tutto contrarie al riconoscimento dei diritti e della dignità omosex, in questo caso quelli che hanno votato contro l’ultima legge sull’omofobia promossa dalla deputata Pd Paola Concia. Tra i nomi che compaiono in quello che verrà ricordato come il primo web outing della storia italiana, un ministro, un presidente di regione e un portavoce istituzionale: molti insospettabili, altri - a voler essere onesti - no.
Gli autori della lista, tutti rigorosamente anonimi e accreditati su una piattaforma estera, non hanno fornito alcun tipo di prova o dimostrazione a suffragio della loro tesi ed è più che probabile che a questa azione dimostrativa segua a ruota un’azione penale. Di fatto la privacy di 10 persone è stata violata e nonostante l’intento fosse proprio quello di smascherare l’ipocrisia di certa politica, anche dalla comunità Lgbt si sono levate voci di perplessità e dissenso, prima tra tutte quelle del presidente dell’Arcigay Paolo Patanè.
Questi ha apertamente condannato l’iniziativa degli hacker anonimi, arrivando a identificarla con quella “macchina del fango” che ammorba la vita politica italiana e la comunicazione. Difficile dargli torto. Stando infatti a quello che è il vocabolario omosex, l’outing è cosa ben diversa dal coming out: se quest’ultimo risponde ad una volontaria dichiarazione del proprio orientamento sessuale, il primo è invece un atto forzoso, uno svelamento che avviene contro la volontà del diretto interessato.
Certo l’idea di mettere a nudo l’incoerenza tra atti pubblici e comportamenti privati dei nostri politici è un’azione sacrosanta di informazione e, in un certo senso, di pubblico servizio: un cittadino/elettore ha tutto il diritto di sapere se il suo voto è destinato ad una persona degna di fiducia o meno. Purtroppo però, quella messa in atto dagli attivisti di “listaouting” non può definirsi un’operazione trasparenza con tutti i crismi. Se infatti l’anonimato è in questo caso condizione necessaria alla propria tutela legale - in base alla legge italiana l’outing è configurabile come reato di diffmazione e gli avvocati, si sa, costano - il fatto di non citare fonti o produrre prove a riscontro di quanto affermato rischia di inficiare le buone intenzioni con cui questa azione è stata comunque pensata e portata avanti.
La stessa Paola Concia ha definito "metodo estremo" la pubblicazione della lista, che certo non ha trovato estimatori. Stilando una lista di nomi e pubblicandola così, nuda e cruda, si rischia inevitabilmente di diventare epigoni di quei Feltri o Belpietro che pubblicano lenzuolate di battute basate su aria fritta. Che questi 10 politici si siano macchiati di grave incoerenza, rinnegando la loro intima natura, è cosa che, evidentemente, sanno solo gli attivisti responsabili di aver compilato la lista; vuoi perché testimoni oculari di certi comportamenti, vuoi perché in ambienti “ristretti” le voci girano sempre. A conferma di quanto da loro affermato non c’è infatti nulla: non una fonte, non una citazione, nemmeno una nota di polizia che affermi come i soggetti siano stati “attenzionati” per i loro comportamenti privati. E questo purtoppo non è informare correttamente.
C’è però da dire che, in un certo senso, questi attivisti anonimi si sono semplicemente adeguati a quelle che sono le tecniche più in voga al momento nella complessa scena politio/sociale: detto in parole povere, lo sputtanamento dell’avversario. Di fatto questa è diventata la dinamica più praticata nel confronto tra parti e in fin dei conti sbirciare nella camera da letto per poi divulgarne i contenuti ha sempre pagato. Che qui in Italia esista una persona che ancora pare esserne immune è un altro paio di maniche.
Se questa azione, alla prova dei fatti, risulterà risultare controproducente in visione del riconoscimento dei diritti e della dignità omosessuale, lo dirà solo la soglia di tolleranza che gli italiani hanno raggiunto nei confronti dei cosiddetti “scandali sessuali”. Quelli lanciati da “listaouting” sono, alla fine dei conti, attacchi personali e, nell’economia spiccia delle battaglie per i diritti civili, risultano abbastanza inutili, dal momento che non si tratta di spostare voti o di creare consenso ma semplicemente di sovvertire con i numeri una realtà conclamata e assolutamente ingiusta.
Nel XXI° secolo, tronfi di scienza e con bagagli di conoscenze e strumenti impensabili solo 50 anni fa, non è infatti più accettabile che esistano cittadini di serie B, discriminati nelle opportunità solo in ragione del loro orientamento sessuale. E questo è sempre bene tenerlo a mente.
Quello di oggi è comunque solo un antipasto: gli autori del blog annunciano che l’elenco di personalità incoerenti con le loro prese di posizioni pubbliche è destinata ad allungarsi a breve e che tra quelli destinati alla lettera scarlatta saranno presenti anche i nomi di molti sacerdoti. La curiosità certo non manca, gli strascichi di polemiche che inevitabilmente seguiranno nemmeno. Lo stesso dicasi per il buon gusto, se il "metodo Boffo" fa proseliti tra le sue vittime.
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di Rosa Ana De Santis
Riprendendo la tradizione che contraddistingue l’Udc, Casini, a margine della conferenza stampa alla Camera dei Deputati dopo la valutazione di Standard & Poor’s sul debito nazionale, lancia l’appello agli uomini di buona volontà della maggioranza. Una nuova fase del Pdl, per risparmiare all’Italia in crisi nerissima lo spettro della Grecia, ovvero un’entrata in scena del suo partito: l’unico vero ago della bilancia dell’agone politico italiano. Frattini ha già risposto all’appello, promettendo qualche poltrona e un armistizio di fine legislatura che però preveda sempre la presenza del Cavaliere.
L’imbarazzo della maggioranza è tale che si pensa a un governo Alfano con Berlusconi come garante per le riforme. Ma da Palazzo Grazioli il premier persiste nel non mollare. Sul banco dell’accordo ci sarebbero temi fondamentali per il futuro del Paese: una riforma del quadro costituzionale che comprenda la legge elettorale, una manovra per la crescita, la riforma della giustizia.
La diplomazia parlamentare è al lavoro, ma all’ennesima soluzione politichese, scollata dagli elettori e affidata agli inciuci di Palazzo, il Pd non ci sta e rinnova l’invito alle urne, magari con una nuova legge elettorale fatta prima. Casini non vuole che il suo partito si trasformi in una “zattera di salvataggio”, cosi va dicendo da un po’ e maschera con la responsabilità la consueta attitudine a governare senza avere la maggioranza dagli elettori. L’Udc è la prova che il vero partito di governo stabile in Italia è il centro. Quello che fa la maggioranza anche quando i numeri non ci sono più.
Anche il Pd si candida per il governo di responsabilità nazionale, ma siamo quasi sicuri che non sia quella di cui parla Casini. Quella che vede già l’agonia del Pdl imbandita per prolungare la festa. Quella di palazzo di Grazioli, che i cattolici - CEI in testa - pare disdegnino con troppo silenzio, e quella fatta al popolo sovrano.
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di Rosa Ana De Santis
Le nuove intercettazioni e l’ennesima resistenza del Premier a chiarire la propria posizione di fronte ai magistrati, offrono l’ennesima immagine impietosa di corruzione morale e ricattabilità cui il Paese è abituato da tempo. Ieris era, alle 20,00 é scaduto l'ultimatum che i magistrati hanno dato al Premier per incontrarlo e definire la sua posizione nell'inchiesta. Servirà la richiesta al Parlamento per l'accompagnamento coatto o il cav avrà un sussulto di decenza e andrà dai magistrati a riferire?
Nel peggior momento di crisi economica e d’isolamento internazionale, il mercato, Confindustria, l’Europa e non solo i sindacati e le piazze individuano in Berlusconi la causa della perdita di credibilità nazionale. Ma oltre l’architettura politico-parlamentare della vicenda c’è una questione culturale e sociologica che ormai possiamo considerare assurta alla pianificazione di una vera e propria teoria che, proprio per dignità, può essere meglio definita come anticulturale.
Sono proprio le voci delle prostitute a caccia di contrattini e comparsate tv a confermarcelo. La vendita del corpo, sempre esistita e sempre in voga nel mondo dell’entertainment, dove negli ultimi 20 anni non è mai stato necessario avere grandi doti artistiche, è diventata molto più che una pratica, qualcosa di più che il “mestiere più vecchio del mondo”. E’ la prima volta, soprattutto in un Paese come il nostro, condizionato da un sostrato culturale profondamente religioso, che quello che accade diventa qualcosa da raccomandare, una teoria che può essere legittimata e nobilitata. Per le ragazzine, le più giovani, quelle più desiderate da Berlusconi, quelle che dalle madri e dai fratelli sono spinte senza pudore a “concedersi al drago”.
E’ una delle escort preferite, Terry De Niccolò, a sintetizzarlo in poche parole in un’intervista. La volgarità delle affermazioni è il male minore in quella che viene sfornata come una pratica di cui non vergognarsi, e che ha per presupposto un’idea della società che rasente il limite del nazismo culturale e del darwinismo sociale. La società pensata dentro le camere di Arcore è quella in cui le “racchie” devono soccombere, i vincenti (coloro che hanno denaro, non importa come e se talentuosi) possono sbancare. Manca la rupe di Sparta da cui lanciare i più deboli per completare il quadro aberrante.
Che il premier utilizzi risorse pubbliche (dai voli di Stato alla promozione di consulenze e faccendieri in aziende come Finmeccanica ed Eni e altro ancora) sarebbe motivo sufficiente a sputtanare (è il caso di dirlo) le celebrate rivendicazioni di libero uso delle proprie risorse personali, ancorché in modo vergognoso. Ma l’aspetto peggiore è che la professione più antica del mondo diventa il fulcro sul quale fa leva il movimento assillante del premier e del suo nutrito numero di sodali, maschi o femmine che siano.
Beninteso, la disponibilità ad offrirsi in cambio di qualcosa non nasce con Berlusconi. Berlusconi ha avuto però l’abilità di rendere confessabili quelle voluttà, le più basse e le più volgari, che grazie a lui, per il semplice fatto di esistere, diventano legittimabili. La prostituzione è nobilitata come il modo migliore per avere successo, collocazione professionale e ruolo sociale.
Non è certo la prostituzione della strada, non è nemmeno quella dei vecchi bordelli dove le donne che avevano solo la propria disponibilità carnale facevano l’unica cosa che sapevano fare. Ora è un vestito che può essere cucito addosso a tutte, un lavoro confezionato in un nome migliore, un futuro per le ragazzine d’Italia. La scorciatoia efficace per superare il traffico reso intasato delle tante aventi diritto per capacità e titoli. Qualcosa che davanti ai microfoni non scuote più la coscienza di tanti genitori. Basta che le figlie abbiano la faccia carina di Noemi Letizia o quella voluttuosa di Ruby. Studentesse, impiegate, aspiranti deputate, manager: tutte in lizza per avere un futuro e per offrirsi come nella prima repubblica si offrivano le bustarelle.
Era stato proprio Berlusconi a suggerire in prima serata alla precaria, giovane e carina, di sistemarsi trovando un fidanzato ricco. Altro che teoremi sul precariato e sul lavoro incessante delle Istituzioni. La ricetta di Palazzo Grazioli è un’altra, talmente un’altra che il Cavaliere ci lavora ogni notte. E’ comico dover associare tutto questo al governo che ha raccolto voti sulla propaganda della cultura del merito, sulla talentuosità dei giovani e sul mito americano del “self made man” come viatico di organizzazione sociale e personale. E’ evidente che l’unico merito che si riconosce, nella fattispecie alle donne, è quello del canone estetico e della disponibilità a prostituirsi per ottenere qualsiasi cosa: un contrattino, una manciata di gioielli, un aumento di carriera. Altro che studio, inglese, formazione e competenza. Inevitabile vedere in parallelo le norme del livido Sacconi contro il lavoro in contemporanea con l’esaltazione del mestiere. Sono le due facce della stessa medaglia.
A perdere, alla fine di questa storia, non sarà solo l’uomo Berlusconi, se non sullo scacchiere della partita di governo, ma un’intera generazione di donne che, ormai palesemente, potranno rivendicare l’attività sessuale come unico merito riconosciuto e riconoscibile. Sono queste le macerie culturali e sociali da cui non sarà semplice riprendersi, soprattutto perché esse sono il sintomo che una cultura di reale emancipazione delle donne, dalla percezione sessista degli uomini, se mai c’è stata, è diventata minoritaria. Questo Berlusconi ha compreso prima degli altri e questo ha rilanciato in ogni casa italiana con le televisioni.
La pancia e il sotto cintura dei maschi è diventata filosofia di vita e stile, fine ultimo cui tendere la propria carriera. Il sesso è tornato ai suoi primitivi criteri maschilisti e di dominio. Le bassezze sono ormai sdoganate e prive di vergogna. E’ stato proprio Berlusconi a far uscire il sesso dalla privacy, che rivendicano i suoi legali, e dalla sua camera di letto. Lui l’ha trasformato in strumento sociale e culturale, nonché in calamita di voti da parte dei maschi invidiosi e delle donne innamorate del suo impero.
Tutto questo è potuto accadere proprio in un Paese che si dice cattolico, ma solo per molto meno. Un capo di governo ricattabile e in ostaggio delle proprie voluttà al punto da avvantaggiare papponi e compagni di governo a suon di appalti, non è certamente in grado di guidare un Paese. Ma la regressione culturale di fattura berlusconiana gli sopravviverà a lungo. E’ una certezza. Il precipitato peggiore di questo disordine clinico e morale, in cui per la prima volta è la politica ad entrare nel letto dell’imperatore, sarà quello di aver lasciato ai più giovani un significato distorto del merito e del successo. Pensare che la vendita di sé sia qualcosa di dignitoso e illudersi che il pollice in su di Nerone voglia dire di valere qualcosa. Men che mai ora, mentre Roma brucia, ma solo di vergogna.
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di Carlo Musilli
Tra gli spifferi di Montecitorio, da tempo i parlamentari della maggioranza sussurravano la parolina proibita, la più detestata quando si parla di politica fiscale: condono. Ora che la manovra è legge e l'attenzione mediatica si è spostata altrove, l'impulso fin qui represso si è trasformato in parole scritte su carta bollata. Per di più attraverso uno strumento subdolo come l'Ordine del giorno, che non fa rumore, ma impegna il Governo ad agire in una certa direzione. In verità gli Odg approvati dall'Esecutivo in questi giorni sono stati una valanga, ma quello più interessante porta la firma di Domenico Scilipoti.
Il leader di quelli che una volta erano conosciuti come "Responsabili" (oggi "Popolo e territorio") ha deciso di non farsi mancare proprio niente, mettendo sul piatto sia un condono fiscale tombale sia uno edilizio. Il primo si applicherebbe sulle tasse evase dal 2006, il secondo sugli immobili fino a 400 metri cubi costruiti entro il 31 dicembre 2010. Secondo il "Re dei peones" (dal titolo dell'opera letteraria pubblicata da Scilipoti, con tanto di prefazione firmata Silvio Berlusconi), il condono dei "piccoli abusi destinati all'edilizia residenziale", sarebbe "opportuno" perché consentirebbe di reperire "immediate e certe risorse".
Sorvolando sul fatto che quantificare il gettito di un condono è un'operazione tutt'altro che "certa", e che la riscossione non è mai "immediata", come dimostrato dalle passate esperienze, è divertente come l'onorevole Scilipoti tenda a sminuire il senso della sua stessa proposta, presentandola come una faccenda di bonarietà e ragionevolezza. Non finge neanche di porsi il problema morale di fronte a una misura che fa l'interesse dei delinquenti.
Quanto al condono fiscale, da settimane i pidiellini Amedeo Laboccetta e Antonio Mazzocchi hanno prodotto un testo che pare abbia ricevuto larghi apprezzamenti. In sostanza, si tratterebbe di un'amnistia generalizzata (dall'Irpef all'Irap, fino ad arrivare, Europa permettendo, all'Iva) per tutti gli evasori che hanno rubato soldi al Fisco fra il 2006 e il 2009. Gettito previsto: 35 miliardi. "Sono più di 40 i colleghi deputati - spiega Laboccetta - che a Montecitorio hanno firmato il documento che io e l'amico Mazzocchi abbiamo elaborato e inviato al Segretario Angelino Alfano". Davvero un motivo d'orgoglio.