di Carlo Musilli

Come in ogni barzelletta ben costruita, la parte divertente arriva alla fine. Oggi il Governo si è accorto di non avere più tempo per giocare alla democrazia e ha deciso di porre la fiducia sulla manovra bis. L'aspetto simpatico è che per settimane pidiellini di ogni sorta avevano negato di voler imboccare questa strada. Appena due giorni fa il presidente del Senato, Renato Schifani, aveva perfino "demonizzato" l'ipotesi.

Per il resto, in effetti, c'è poco da ridere. La notizia è arrivata con un comunicato che ha fatto seguito all'ennesimo vertice di maggioranza, stavolta a Palazzo Grazioli. Durante il loro ultimo summit, gli statisti che ci governano hanno anche stabilito una serie di modifiche alla manovra da far confluire in un maxi emendamento. E lo hanno fatto davvero in zona Cesarini, visto che pochi minuti prima la conferenza dei capigruppo aveva fissato per domani il voto decisivo a Palazzo Madama. A questo punto, con un testo ormai blindato, il via libera definitivo della Camera potrebbe arrivare entro la settimana.

Vediamo quali sono le novità. Sull'Iva il premier è riuscito a piegare le resistenze di Tremonti, imponendo l'aumento di un punto sull'aliquota ordinaria (che passa così dal 20 al 21%). Sorvolando sull'aumento dell'inflazione e la conseguente depressione dei consumi, l'aspetto più preoccupante è che ancora non è stata specificata alcuna scadenza. Eppure questa misura è sempre stata presentata come "temporanea".

Sul fronte delle pensioni invece è stata la Lega a chinare la testa, anche se alla fine la soluzione trovata ha l'odore del compromesso. Il nuovo testo prevede l'adeguamento delle pensioni delle donne nel settore privato a partire dal 2014 anziché dal 2015. Nessuna modifica invece per i tanto odiati assegni di anzianità, su cui è stato il Carroccio a spuntarla. Nel complesso, non esattamente una rivoluzione previdenziale.

Fin qui si tratta di interventi ampiamente previsti. La novità più sorprendente è il ritorno alla Edmond Dantés del contributo di solidarietà. Ma siamo sicuri che sia proprio lui, quel demonio che obbligava il Cavaliere a "mettere le mani nelle tasche degli italiani" facendogli "sanguinare il cuore"? A ben vedere, no. Rispetto al suo famigerato progenitore, il nuovo prelievo ha una soglia più alta (300mila invece di 90 e 150mila euro) e un'aliquota più bassa (il 3% invece del 5 e del 10%). Meno voti persi.

Tutto qui. Dopo quasi un mese passato a produrre invenzioni tributarie e previdenziali più o meno fantasiose, questo è il meglio che l'Italia ha saputo offrire ai mercati. Modifiche rabberciate all'ultimo minuto, giusto perché alla fine qualche cambiamento bisognava pur farlo. Pesavano troppo le tirate d'orecchi arrivate dal Quirinale, dal presidente della Bce, Jean Claude Trichet, e dal suo successore Mario Draghi, attuale governatore di Bankitalia.

Peccato che si tratti d’interventi che non modificano nella sostanza una manovra troppo preoccupata della base elettorale per fare davvero il bene del Paese. Non solo si evita di colpire i grandi patrimoni, ma con l'ultimo intervento della commissione Bilancio del Senato sono state stralciate perfino quelle minime liberalizzazioni su cui si era trovato un accordo. E le tanto sbandierate misure anti evasione perdono gran parte del loro appeal, strizzando l'occhio invece di far paura ai grandi evasori.

Non rimane che vedere come le nuove intuizioni del nostro Governo saranno accolte dall'Europa. Parte del mistero legato a questa manovra ubriaca si spiega proprio con quello che accadrà a Francoforte, dove giovedì si riunirà il board della Bce. L'Eurotower dovrà decidere se continuare ad aiutarci acquistando i nostri titoli di Stato. Non è da escludere che scelga di chiudere i rubinetti, ma, più verosimilmente, si limiterà ad indicarci una data di scadenza.

Di sicuro c'è soltanto che l'Italia non ha saputo afferrare la mano tesa della Banca centrale comunitaria. Lo dimostra il fatto che negli ultimi giorni Piazza Affari ha ripreso a crollare e lo spread a viaggiare ben oltre i limiti di guardia. Invece di sfruttare l'occasione che ci è stata offerta per riprendere fiato, abbiamo dilapidato gli ultimi spiccioli di credibilità che ci rimanevano in tasca. E purtroppo per noi, alle bugie credono solo gli elettori, non i mercati.       

 

di Rosa Ana De Santis

Ci ricordiamo della guerra davanti alla tv, in qualche fotogramma e nella liturgia della commemorazione, quando familiari e politici aspettano sulla pista di Ciampino l’ultimo ragazzo caduto in missione o i feriti. Soltanto allora la guerra entra nelle nostre case, nel suo volto estremo e irrimediabile. Ed è lì che la glassa dell’eroismo, che non costa nulla alla politica, copre ogni dissenso e ogni domanda. Anche la più semplice sembra fuori posto e irrispettosa. Quei ragazzi sono morti e questo chiude ogni discorso. Ma quando quei soldati sopravvivono, quando quella guerra può parlare e raccontare tutto senza risparmiare dettagli, allora la storia è un’altra.

Si chiama sindrome post traumatica da stress (Ptsd). Ne soffrono carcerati, malati, clochard, ma soprattutto militari. La differenza tra la stima dei soldati colpiti da questa patologia in Europa e l’Italia è altissima e desta sospetti, per non parlare di quella altrettanto grande con gli Stati Uniti. Il tasso dei suicidi tra le truppe USA è altissimo e 1 soldato su 5 torna dall’Afghanistan e dall’Iraq con questi segni dentro.

Passiamo dal 4-5% di media dei contingenti europei a stime inesistenti nel caso delle truppe italiane. Su 150mila soldati impiegati all'estero solo 2/3 dei pochi casi rilevati all'anno risultano come diagnosi di Ptsd. Zero sul piano dei numeri e delle statistiche, fenomeno inesistente. Il dato è strano, sembra quasi che i nostri ragazzi, come recitava lo spot della Difesa, siano impegnati in guerre diverse, “intelligenti” direbbe qualcuno, dove l’orrore tradizionale sembra estinto. Come se i nostri soldati fossero al di fuori da tutto quello che accade nei teatri operativi. Forse le stime al ribasso servono proprio a questo, a convincere che lì dove vanno i nostri non ci siano carneficine, agguati, armi puntate, terrore.

Ma le testimonianze dei sopravvissuti rompono l’incantesimo e dicono tutto quello che non si vorrebbe sapere. Pietro Sini e Piero Follese, reduci di Nassiriya, in recenti testimonianze raccolte dalla stampa, raccontano di corpi smembrati, incastrati e squagliati sui blindati, raccolti in sacchi di spazzatura con cui sono state riempite le bare. Di compagni strappati al fuoco e portati a spalla in quell’inferno. Raccontano con il terrore di non essere creduti, così come per un tempo infinito non si è creduto alla loro sindrome. E soprattutto raccontano del silenzio in cui sono stati lasciati, per la colpa di essere vivi. Perché dei soldati con questi problemi sembrano meno eroi, meno degli altri, o semplicemente tolgono alla guerra la farsa della lontananza e della violenza light e restituiscono senza censure tutta la miseria bellica che nessun cittadino italiano vuole credere e che ogni deputato in aula preferisce negare.

In Italia si registrano una ventina di casi l’anno, una manciata, insignificanti sul piano statistico, di cui ancor meno quelli gravi: un dato che gli psichiatri che hanno seguito i vari reduci con disturbi considerano poco credibile. Il silenzio delle Forze Armate rimanda a due aspetti: uno attiene alla modalità con cui vengono gestiti questi casi, e prima ancora seguiti questi soldati, e una riguarda la diagnosi vera e propria.

Il Generale Michele Gigantino, per 10 anni a capo del Dipartimento di scienze psichiatriche e neurologiche al Celio, spiega la differenza con gli altri paesi appellandosi al merito dei comandanti italiani e a una qualità dei nostri militari in campo che ci distinguerebbe dal resto dell’Europa. E’ per questa ragione che i soldati che mostrano disturbi del comportamento e postumi da trauma sono allontanati? Perché sono considerati meno validi degli altri?

Sarebbe interessante capire però perché mai questi soldati dopo l’impegno nei teatri operativi non siano seguiti adeguatamente sul piano psicologico e soprattutto quale sia il percorso nelle singole Forze Armate che porta al riscontro della sindrome vera e propria. I soldati che rientrano mostrano - alcuni subito altri tardivamente - insonnia, depressione, irritabilità e isolamento. Leferite da esplosione o da arma da fuoco che hanno sul corpo sono niente al confronto del resto, di tutto quello che non si vede.

L’intervento da parte della task force di specialisti dovrebbe essere tempestivo per il recupero e la rielaborazione immediata dei ricordi traumatici. Se il primato da questo punto di vista spetta agli americani, anche le Forze Armate italiane hanno team cosiddetti Emdr (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), eppure il rientro dei soldati e dei loro traumi viene spesso occultato e ridotto al silenzio. Molti di loro denunciano di esser stati abbandonati, isolati e non ascoltati, ridotti a pratiche e burocrazie, spesso anche rallentate e boicottate, allontanati dal linguaggio dell’eroismo e della patria.

Il problema è il congedo, la causa di servizio, la pensione? Oppure la paura è anche quella di restituire la guerra degli eroi alla sua spietata verità, dicendo finalmente a madri e padri dove stanno davvero i loro figli e cosa sono andati a fare laggiù? Le denunce dei sopravvissuti andranno dimostrate, ma non c’è dubbio che si fa fatica a credere che i nostri soldati facciano una guerra diversa da quella di tutti gli altri, com’è altrettanto vero che la loro testimonianza è stata finora cancellata dal romanzo delle missioni di pace.

Nemmeno i giornalisti inviati ne sono immuni. La paura che nasce dal trauma colpisce anche i reporter e gli inviati di guerra. Altra recente testimonianza é quella di Janine di Giovanni, inviata in tutti gli angoli del pianeta in guerra. E’ la nascita del figlio a scatenarle l’ansia e il terrore che ha covato dentro per anni e sarà proprio il figlio, crescendo, a guarirla.

Una generazione fa era la malattia del Vietnam, oggi è un disturbo psicologico acclarato che riguarda la guerra, ma non questa o quella. Ogni guerra, come dimensione esistenziale che prescinde dal paese e dall’uniforme, dagli obiettivi e dal tempo storico. La guerra che facciamo anche noi, mentre diciamo di portare la pace. La guerra, forse persino quella più giusta, che però ci vergogniamo anche solo di pronunciare.

Come se Nassiyria fosse stata un’esplosione su Marte o sulla Luna. Come se i sopravvissuti fossero visionari o peggio ancora delle mine vaganti. Persone fragili, ormai dai nervi in pezzi, o solo soldati che hanno fatto fino in fondo all’inferno tutto il loro dovere e che possono e forse vogliono raccontarlo tutto.

Perché chi non muore non ha tanto bisogno di sentirsi eroe, ma chiede di dare un senso alla disumanità della guerra, chiede di espiarla, di tirarla fuori dalle viscere per non essere più solo un sopravvissuto. Per tornare, in qualche modo, ad essere vivo.

di Fabrizio Casari

Chi vuole pensare che l’opposizione della CGIL alla manovra sia dettata dalla necessità di difendere il suo ruolo nelle relazioni industriali lo faccia pure; pensare idiozie non é reato. Ma se si vuole invece valutare la qualità della manovra, anche dal punto di vista degli investitori (non certo sindacalisti...) basta vedere come la risposta sia stata negativa oltre ogni previsione. Ieri, a testo diffuso, appena aperte le contrattazioni borsistiche, lo spread sui titoli quasi riproponeva un nuovo record negativo. Atteso che la BCE non potrà acquistare titoli di Stato italiani all’infinito, era invece dall’entità e dalla valenza riformatrice strutturale che i mercati si attendevano risposte. Appena letta la manovra, è arrivata la sentenza. Europa o no, dell’Italia e del suo governo non c’è da fidarsi.

La manovra stabilita da Berlusconi e dai suoi ascari non sarà, con ogni probabilità, quella definitiva. Il Parlamento, a meno che non venga posta la fiducia, produrrà certamente modifiche al testo licenziato dal governo. Ma c’è un elemento, nella manovra proposta, che balza agli occhi: l’odio sociale verso lavoratori e pensionati e l’amnistia generalizzata verso il padronato e gli evasori. Una manovra di classe, frutto dell’impostazione darwiniana di Palazzo Chigi e che non risponde affatto, peraltro, a quanto internazionalmente richiesto.

Perché con il riordino dei conti non c’entra niente la libertà di licenziamento e con le riforme economiche non c’entra nulla la sostanziale abolizione della vigenza giuridica del contratto collettivo nazionale di lavoro. L’affidamento alla contrattazione territoriale ha solo lo scopo di alzare l’asticella del ricatto padronale verso i lavoratori. Bersani l’ha definita “micragneria frutto di un puntiglio ideologico” e ha ragione. Non solo non aggiusterà nemmeno di un euro i conti pubblici, ma offrirà un aumento della disoccupazione e del precariato, tramite la definitiva consegna del diritto del lavoro al ricatto degli imprenditori, alle unghie del darwinismo sociale e della giungla produttiva. L’aumento del capitale umano di riserva è utile solo a deprezzare ulteriormente il lavoro e ad annullarne i diritti, portando la contrattazione sullo stesso a livello di elemosina. Siamo, appunto, all’odio di classe: la manovra di riallineamento dei conti (che la BCE chiede sia completata entro il 2013, una follia…) non ha nulla a che vedere con quanto disposto dai sodali di Arcore.

Tanto i famosi “mercati”, come gli organismi finanziari internazionali, ci chiedono il riequilibrio dei conti, cioè riportare nei parametri il rapporto deficit/Pil. Per farlo, ci sono due possibili ricette: ridurre draconianamente la già carente spesa pubblica, riducendo così il debito ma uccidendo gli indebitati, o aumentare le entrate della fiscalità generale. La riduzione della spesa ha due strade possibili: i tagli orizzontali, violenti quanto inutili, o la sua razionalizzazione. Questo secondo aspetto può essere affrontato con una decisa sterzata politica nell’indirizzo dei flussi di spesa, a partire dalla riduzione di quella militare.

Può trovare sana applicazione nella fine degli sperperi di denaro pubblico (vedi grandi opere, peraltro mai cominciate perché, fortunatamente, la Ue in alcuni casi ha bloccato i fondi), nell’abolizione degli Enti inutili, nella riduzione dei costi della politica (compreso l’introduzione dell’election day, l’azzeramento delle scorte ai vippetti della casta, la fine dei privilegi a categorie che davvero non ne hanno né bisogno, né diritto). Ancora, cancellare 4 miliardi di euro all’anno di consulenze per la Pubblica Amministrazione è un’operazione d’igiene della politica e dei conti. Ma forse, come sostiene il Segretario Generale della CGIL, Susanna Camusso, "siamo di fronte ad un Governo che, basando il suo potere sui privilegi, non è in grado di affrontare i veri nodi dei tagli al costo della politica". E, last but non least, alla fine dei finanziamenti a pioggia verso le imprese che, ricevuto il denaro per ristrutturare, lo portano all’estero per speculare.

Sono tantissime le voci sulle quali la razionalizzazione della spesa pubblica potrebbe esercitarsi. Ma la furberia di questi anni che ha visto ridurre del 40% il versamento dallo Stato centrale agli Enti Locali con una mano, mentre per esigenze elettorali del cavaliere si toglieva l’ICI dall’altra, produce solo un aumento del prelievo a livello locale. Le mani nelle tasche degli italiani, dunque, sono state messe, e a una mancata riduzione delle aliquote nazionali si è sommato l’innalzamento delle imposte locali, inevitabile per far sopravvivere i Comuni. E, come rileva l’Upi, se si
togliessero dal bilancio dello Stato le risorse per le grandi opere che non possono essere fatte nel 2012 e si liberassero in proporzione i residui e gli avanzi di Province e Comuni, si potrebbero, subito, immettere sul mercato almeno 5 miliardi.

Idem dicasi per l’altro aspetto, quello relativo all’incremento delle entrate per la fiscalità generale. Che il 93% del versamento nazionale all’erario venga dal lavoro dipendente è un abuso che discrimina i furbi da chi non può esserlo e inoltre, con la riduzione dell’occupazione, il grafico relativo va a picco. Una riforma del sistema fiscale sarebbe invece necessaria e non più rinviabile per un paese nel quale l’evasione fiscale e quella contributiva ammonta a più del doppio della rata annuale del debito comprensiva di quota capitale ed interessi. In attesa di un modello fiscale che imponga il conflitto d’interessi tra chi paga e chi è pagato, azzerando così una parte importante dell’evasione, ci sarebbero diversi strumenti da adoperare per la leva fiscale.

A cominciare dalla fine dei privilegi erogati a Enti d’ogni tipo (Vaticano in testa, ma non solo) per arrivare alla repressione decisa verso l’evasione fiscale e contributiva, aggiungendo provvedimenti irrinunciabili come la patrimoniale. E’ una parola che getta nel panico anche le cosiddette opposizioni, ma che invece corrisponde sia alla logica elementare, per la quale si può prelevare dove c’è da prelevare e non dove non c’è, sia al principio costituzionale dell’apporto progressivo alla fiscalità generale.

La tassazione straordinaria dei capitali scudati, l’innalzamento dell’imposta sui movimenti speculativi e la vendita all’asta delle frequenze televisive sarebbero alcuni tra i primi movimenti da compiere. La tracciabilità dei pagamenti e obbligo di presentazione del proprio conto corrente, il redditometro, sono strumenti atti a combattere l’evasione, quindi ci sarebbe poco da scandalizzarsi, mentre l’invito alla delazione è una cialtronata etica e una nullità in termini di efficacia.

E non servirebbe a molto la dismissione del patrimonio pubblico (valutato diverse migliaia di miliardi di euro), giacché anche un pensiero limitato assegna un punteggio pessimo alle vendite in fase recessiva. Non si vende quando si ha bisogno disperato di vendere. S’incasserebbe nemmeno il 50% del valore stimato.

Ma oltre ad incassare quanto dovuto, è chiaro che per aumentare le entrate servono nuovi contributi. Per aumentare i contributi servono più occupati. Una maggiore occupazione aiuterebbe non solo la rinascita del sistema-paese, ma incrementerebbe il consumo interno, volano straordinario per la ripresa economica. Incentivi per chi assume e blocco degli aiuti di Stato per chi licenzia sarebbero i primi due passi sul cammino della ripresa. Ma nella guerra del governo contro il lavoro (quello di escort escluso) non c’è spazio per l’economia e la società italiana, né per riportare l’impresa alla sua responsabilità sociale.

L’obiettivo è invece cogliere la vendetta storica contro l’emancipazione sociale e i lavoratori e la consapevolezza che ci trovi alla vigilia della caduta dell’impero e dunque ad una delle ultime possibilità di promulgare norme e leggi, ne aumenta l’urgenza. Il tentativo è quello di trascinare nella sua rovinosa caduta l’intero paese. E allora, in attesa dei vagiti di un’opposizione che dorme o raglia, si deve sostenere la CGIL e i sindacati di base, ultima frontiera della civiltà del lavoro. Che è, in ultima analisi, la cifra della civiltà complessiva della nostra società.

di Mariavittoria Orsolato

Non meno di qualche giorno fa il neosegretario del PDL Angelino Alfano confermava la leadership e la guideline berlusconiana, annunciando trionfante che l’attuale premier sarebbe corso come capolista anche alle politiche del 2013. Che questa mossa sia del tutto autolesionista per il centrodestra l’hanno confermato i dati resi pubblici ieri dalla Demos - l’agenzia di ricerca politica e sociale fondata da Ilvo Diamanti - e riportati con solerzia da Repubblica. Stando ai numeri, infatti, il consenso nei confronti del governo rispetto alle rilevazioni dello scorso 27 giugno è in caduta libera e registra un calo di ben 5 punti percentuali (dal 27% al 22%), così come lo è il gradimento per i due lìder maximi della coalizione.

Sia Berlusconi che Bossi, infatti, scontano il malcontento del popolo italiano che, sempre più vessato e ormai sordo ai richiami all’ottimismo, fa precipitare il consenso dei due a quelli che possono essere tranquillamente considerati minimi storici. Per il premier la flessione rispetto al giugno è del 3% (dal 25.6% di giugno al 22.7% odierno), mentre per il leader leghista i punti in meno sono ben 5, 9 se si considerano i dati del febbraio 2011 che lo vedevano al 31.6%.

Se si dovesse andare alle urne oggi, insomma, il quadro sarebbe ben diverso da quello del 2008. Secondo le stime di Demos, la somma del gradimento dei due partiti di maggioranza raggiungerebbe poco più del 35% - meno di quanto fece da solo il Popolo delle Libertà alle scorse politiche - e rimarrebbe comunque sotto di 9 punti rispetto all’asse formata da Pd, Idv e Sel che registra un 44% di consensi. Certo questi dati non sono lo specchio di un miglioramento interno all’opposizione, di una concreta fede degli italiani nelle soluzioni proposte da quelli che sono in ogni caso i partiti di minoranza (troppo spesso silenziosa).

I numeri impietosi snocciolati sulle pagine di Repubblica non dicono nulla di nuovo: il popolo italiano storicamente ama cambiare bandiera non appena le cose si mettono male - l’8 settembre 1943 è solo uno dei molti esempi - ma, a differenza dei topi, che grazie al loro istinto animale presagiscono l’affondare della barca e si spostano in massa prima dell’inevitabile, gli italiani aspettano pazientemente che tutto vada a rotoli. Fu così nel 1992, al crepuscolo della Prima Repubblica, ed è così ora, nel 2011, momento in cui il tessuto sociale è sempre più lacerato dalle conseguenze della crisi economica del primo mondo.

La pseudo-manovra finanziaria che il governo ha messo a punto per fronteggiare un crack economico ormai assolutamente futuribile, tocca direttamente la maggior parte del Paese ed ora che la classe media è ufficialmente una categoria in via d’estinzione, il bacino d’utenza di Lega Nord e Pdl si svuota di conseguenza. Probabilmente esacerbati dai continui scandali sessuali e dall’impietosa smania di mettere le mani in tasca ai piccoli imprenditori quelli del Pdl, sicuramente seccati dal manifesto servilismo dei loro leader quelli della Lega.

Questi ultimi non hanno accettato di buon grado il protrarsi del matrimonio d’interesse con i berlusconiani, ed ora che i tagli alle amministrazioni locali sono diventati (di default) la panacea di tutti i mali, l’eterna promessa del federalismo fiscale ha perso di credibilità e attrattiva agli occhi dei celoduristi. Oggi, d'altronde, quasi otto italiani su dieci affermano che il governo non ha mantenuto affatto le promesse propugnate in campagna elettorale: lo pensa la maggioranza dei leghisti e quasi la metà dei fedelissimi elettori del Pdl. Sette elettori su dieci giudicano poi la manovra finanziaria in modo negativo: iniqua, a spese soprattutto dei pensionati, dei dipendenti pubblici e dei giovani.

Il perché di tanta disaffezione alla politica e alle personalità che hanno fatto gli ultimi vent’anni di storia italiana sembra dunque rintracciabile nell’assoluta mancanza di rappresentanza popolare. Al di là del qualunquismo grillino, oggi nessuno sembra in grado di ricoprire il ruolo salvifico che a suo tempo ebbe il primo Berlusconi, quello di Forza Italia e del millantato milione di posti di lavoro. La casta, intesa come intera classe politica, è diventata il bersaglio delle frustrazioni degli italiani che, sempre più rabbiosi, chiedono a gran voce che i primi a sacrificare qualcosa in vista del bene comune siano proprio i tanti onorevoli che affollano gli scanni delle due camere.

L’unico che potrebbe ambire alla posizione di redentore - sicuramente per il retaggio storico di Tangentopoli, invero assolutamente simile per toni e modi alla situazione odierna - sembra essere proprio Antonio Di Pietro. Stando sempre ai dati proposti da Demos, a lui spetta la palma di “più amato dagli italiani”: un po’ perché protagonista dei successi del centrosinistra alle urne di maggio e giugno, un po’ perché imperitura figura simbolo di una giustizia che se la prende con i corrotti.

Dai tempi dei nostri padri romani, il popolo italiano ha sempre avuto il bisogno quasi fisico di avere un redentore, un mentore in grado di prenderlo per mano e guidarlo dinanzi agli ostacoli che la storia ha mano a mano posto sul cammino. Ora che l’uomo forte della Seconda Repubblica annaspa nelle sabbie mobili della crisi, il popolino chiama a gran voce un nuovo nume tutelare ma, allo stato attuale delle cose, nemmeno il semidio Ercole sarebbe in grado di reggere.

 

di Carlo Musilli

Mentre la bagarre sulla manovra bis continua, l'Europa tenta l'ennesima strigliata alla politica italiana. E' "essenziale" che entro due anni e mezzo il nostro Paese raggiunga il pareggio di bilancio. Questo il messaggio che Jean Claude Trichet ha lanciato oggi dal Forum annuale di Cernobbio. Il presidente della Bce è evidentemente preoccupato dal teatrino che Pdl e Lega hanno messo in scena nelle ultime settimane sul decretone di Ferragosto. A fargli eco è arrivato perfino un videomessaggio del presidente Napolitano, che ha chiesto "chiarezza e certezza d'intenti" per approvare la nuova legge "presto e bene".

Ma il banchiere francese è andato ancora oltre, tornando a invocare per l'Italia "riforme strutturali forti". Forse non si è accorto che nel Parlamento romano sono ben lontani dal porsi problemi del genere. Al momento, non solo con la nuova manovra l'Italia spreca la terza occasione in due mesi per favorire la crescita: anche l'obiettivo di far quadrare i conti rimane una chimera.

A turno pidiellini e camicie verdi ripetono che "i saldi restano invariati" nonostante gli ultimi emendamenti, ma la verità è che non possono esserne certi. Nell'ultimo vertice di Arcore hanno rimpiazzato il contributo di solidarietà con un nuovo pacchetto di misure anti evasione. Questo significa che a un gettito sicuro di 3,8 miliardi si sostituiscono entrate impossibili da quantificare con precisione. Un'incertezza che venerdì ha spinto Olli Rehn, commissario economico dell'Ue, a dichiararsi "preoccupato" per la tenuta dei conti italiani.

Insomma, un pasticcio. Eppure i patti erano chiari. In cambio del provvedimento da 45,5 miliardi che ci dovrebbe consentire di azzerare il deficit nel 2013, l'Eurotower si è esposta a nostro favore acquistando a piene mani titoli di Stato italiani. Un intervento che non rientrerebbe nemmeno nei compiti di Francoforte, ma che ci ha consentito di frenare la corsa dello spread e di arginare la speculazione a Piazza Affari. Purtroppo la pacchia non può durare ancora a lungo.

A rassicurare i mercati dovrebbe pensarci la politica economica del governo. Tanto più che su Trichet si fanno sentire sempre più forti le pressioni della Germania. La prima economia europea non ci sta a pagare più del dovuto per i nostri errori. In ogni caso, se alla fine l'Europa si risolverà a portare pazienza, c'è da giurare che i mercati non faranno lo stesso.

 


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