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di Fabrizio Casari
Chi vuole pensare che l’opposizione della CGIL alla manovra sia dettata dalla necessità di difendere il suo ruolo nelle relazioni industriali lo faccia pure; pensare idiozie non é reato. Ma se si vuole invece valutare la qualità della manovra, anche dal punto di vista degli investitori (non certo sindacalisti...) basta vedere come la risposta sia stata negativa oltre ogni previsione. Ieri, a testo diffuso, appena aperte le contrattazioni borsistiche, lo spread sui titoli quasi riproponeva un nuovo record negativo. Atteso che la BCE non potrà acquistare titoli di Stato italiani all’infinito, era invece dall’entità e dalla valenza riformatrice strutturale che i mercati si attendevano risposte. Appena letta la manovra, è arrivata la sentenza. Europa o no, dell’Italia e del suo governo non c’è da fidarsi.
La manovra stabilita da Berlusconi e dai suoi ascari non sarà, con ogni probabilità, quella definitiva. Il Parlamento, a meno che non venga posta la fiducia, produrrà certamente modifiche al testo licenziato dal governo. Ma c’è un elemento, nella manovra proposta, che balza agli occhi: l’odio sociale verso lavoratori e pensionati e l’amnistia generalizzata verso il padronato e gli evasori. Una manovra di classe, frutto dell’impostazione darwiniana di Palazzo Chigi e che non risponde affatto, peraltro, a quanto internazionalmente richiesto.
Perché con il riordino dei conti non c’entra niente la libertà di licenziamento e con le riforme economiche non c’entra nulla la sostanziale abolizione della vigenza giuridica del contratto collettivo nazionale di lavoro. L’affidamento alla contrattazione territoriale ha solo lo scopo di alzare l’asticella del ricatto padronale verso i lavoratori. Bersani l’ha definita “micragneria frutto di un puntiglio ideologico” e ha ragione. Non solo non aggiusterà nemmeno di un euro i conti pubblici, ma offrirà un aumento della disoccupazione e del precariato, tramite la definitiva consegna del diritto del lavoro al ricatto degli imprenditori, alle unghie del darwinismo sociale e della giungla produttiva. L’aumento del capitale umano di riserva è utile solo a deprezzare ulteriormente il lavoro e ad annullarne i diritti, portando la contrattazione sullo stesso a livello di elemosina. Siamo, appunto, all’odio di classe: la manovra di riallineamento dei conti (che la BCE chiede sia completata entro il 2013, una follia…) non ha nulla a che vedere con quanto disposto dai sodali di Arcore.
Tanto i famosi “mercati”, come gli organismi finanziari internazionali, ci chiedono il riequilibrio dei conti, cioè riportare nei parametri il rapporto deficit/Pil. Per farlo, ci sono due possibili ricette: ridurre draconianamente la già carente spesa pubblica, riducendo così il debito ma uccidendo gli indebitati, o aumentare le entrate della fiscalità generale. La riduzione della spesa ha due strade possibili: i tagli orizzontali, violenti quanto inutili, o la sua razionalizzazione. Questo secondo aspetto può essere affrontato con una decisa sterzata politica nell’indirizzo dei flussi di spesa, a partire dalla riduzione di quella militare.
Può trovare sana applicazione nella fine degli sperperi di denaro pubblico (vedi grandi opere, peraltro mai cominciate perché, fortunatamente, la Ue in alcuni casi ha bloccato i fondi), nell’abolizione degli Enti inutili, nella riduzione dei costi della politica (compreso l’introduzione dell’election day, l’azzeramento delle scorte ai vippetti della casta, la fine dei privilegi a categorie che davvero non ne hanno né bisogno, né diritto). Ancora, cancellare 4 miliardi di euro all’anno di consulenze per la Pubblica Amministrazione è un’operazione d’igiene della politica e dei conti. Ma forse, come sostiene il Segretario Generale della CGIL, Susanna Camusso, "siamo di fronte ad un Governo che, basando il suo potere sui privilegi, non è in grado di affrontare i veri nodi dei tagli al costo della politica". E, last but non least, alla fine dei finanziamenti a pioggia verso le imprese che, ricevuto il denaro per ristrutturare, lo portano all’estero per speculare.
Sono tantissime le voci sulle quali la razionalizzazione della spesa pubblica potrebbe esercitarsi. Ma la furberia di questi anni che ha visto ridurre del 40% il versamento dallo Stato centrale agli Enti Locali con una mano, mentre per esigenze elettorali del cavaliere si toglieva l’ICI dall’altra, produce solo un aumento del prelievo a livello locale. Le mani nelle tasche degli italiani, dunque, sono state messe, e a una mancata riduzione delle aliquote nazionali si è sommato l’innalzamento delle imposte locali, inevitabile per far sopravvivere i Comuni. E, come rileva l’Upi, se si
togliessero dal bilancio dello Stato le risorse per le grandi opere che non possono essere fatte nel 2012 e si liberassero in proporzione i residui e gli avanzi di Province e Comuni, si potrebbero, subito, immettere sul mercato almeno 5 miliardi.
Idem dicasi per l’altro aspetto, quello relativo all’incremento delle entrate per la fiscalità generale. Che il 93% del versamento nazionale all’erario venga dal lavoro dipendente è un abuso che discrimina i furbi da chi non può esserlo e inoltre, con la riduzione dell’occupazione, il grafico relativo va a picco. Una riforma del sistema fiscale sarebbe invece necessaria e non più rinviabile per un paese nel quale l’evasione fiscale e quella contributiva ammonta a più del doppio della rata annuale del debito comprensiva di quota capitale ed interessi. In attesa di un modello fiscale che imponga il conflitto d’interessi tra chi paga e chi è pagato, azzerando così una parte importante dell’evasione, ci sarebbero diversi strumenti da adoperare per la leva fiscale.
A cominciare dalla fine dei privilegi erogati a Enti d’ogni tipo (Vaticano in testa, ma non solo) per arrivare alla repressione decisa verso l’evasione fiscale e contributiva, aggiungendo provvedimenti irrinunciabili come la patrimoniale. E’ una parola che getta nel panico anche le cosiddette opposizioni, ma che invece corrisponde sia alla logica elementare, per la quale si può prelevare dove c’è da prelevare e non dove non c’è, sia al principio costituzionale dell’apporto progressivo alla fiscalità generale.
La tassazione straordinaria dei capitali scudati, l’innalzamento dell’imposta sui movimenti speculativi e la vendita all’asta delle frequenze televisive sarebbero alcuni tra i primi movimenti da compiere. La tracciabilità dei pagamenti e obbligo di presentazione del proprio conto corrente, il redditometro, sono strumenti atti a combattere l’evasione, quindi ci sarebbe poco da scandalizzarsi, mentre l’invito alla delazione è una cialtronata etica e una nullità in termini di efficacia.
E non servirebbe a molto la dismissione del patrimonio pubblico (valutato diverse migliaia di miliardi di euro), giacché anche un pensiero limitato assegna un punteggio pessimo alle vendite in fase recessiva. Non si vende quando si ha bisogno disperato di vendere. S’incasserebbe nemmeno il 50% del valore stimato.
Ma oltre ad incassare quanto dovuto, è chiaro che per aumentare le entrate servono nuovi contributi. Per aumentare i contributi servono più occupati. Una maggiore occupazione aiuterebbe non solo la rinascita del sistema-paese, ma incrementerebbe il consumo interno, volano straordinario per la ripresa economica. Incentivi per chi assume e blocco degli aiuti di Stato per chi licenzia sarebbero i primi due passi sul cammino della ripresa. Ma nella guerra del governo contro il lavoro (quello di escort escluso) non c’è spazio per l’economia e la società italiana, né per riportare l’impresa alla sua responsabilità sociale.
L’obiettivo è invece cogliere la vendetta storica contro l’emancipazione sociale e i lavoratori e la consapevolezza che ci trovi alla vigilia della caduta dell’impero e dunque ad una delle ultime possibilità di promulgare norme e leggi, ne aumenta l’urgenza. Il tentativo è quello di trascinare nella sua rovinosa caduta l’intero paese. E allora, in attesa dei vagiti di un’opposizione che dorme o raglia, si deve sostenere la CGIL e i sindacati di base, ultima frontiera della civiltà del lavoro. Che è, in ultima analisi, la cifra della civiltà complessiva della nostra società.
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di Mariavittoria Orsolato
Non meno di qualche giorno fa il neosegretario del PDL Angelino Alfano confermava la leadership e la guideline berlusconiana, annunciando trionfante che l’attuale premier sarebbe corso come capolista anche alle politiche del 2013. Che questa mossa sia del tutto autolesionista per il centrodestra l’hanno confermato i dati resi pubblici ieri dalla Demos - l’agenzia di ricerca politica e sociale fondata da Ilvo Diamanti - e riportati con solerzia da Repubblica. Stando ai numeri, infatti, il consenso nei confronti del governo rispetto alle rilevazioni dello scorso 27 giugno è in caduta libera e registra un calo di ben 5 punti percentuali (dal 27% al 22%), così come lo è il gradimento per i due lìder maximi della coalizione.
Sia Berlusconi che Bossi, infatti, scontano il malcontento del popolo italiano che, sempre più vessato e ormai sordo ai richiami all’ottimismo, fa precipitare il consenso dei due a quelli che possono essere tranquillamente considerati minimi storici. Per il premier la flessione rispetto al giugno è del 3% (dal 25.6% di giugno al 22.7% odierno), mentre per il leader leghista i punti in meno sono ben 5, 9 se si considerano i dati del febbraio 2011 che lo vedevano al 31.6%.
Se si dovesse andare alle urne oggi, insomma, il quadro sarebbe ben diverso da quello del 2008. Secondo le stime di Demos, la somma del gradimento dei due partiti di maggioranza raggiungerebbe poco più del 35% - meno di quanto fece da solo il Popolo delle Libertà alle scorse politiche - e rimarrebbe comunque sotto di 9 punti rispetto all’asse formata da Pd, Idv e Sel che registra un 44% di consensi. Certo questi dati non sono lo specchio di un miglioramento interno all’opposizione, di una concreta fede degli italiani nelle soluzioni proposte da quelli che sono in ogni caso i partiti di minoranza (troppo spesso silenziosa).
I numeri impietosi snocciolati sulle pagine di Repubblica non dicono nulla di nuovo: il popolo italiano storicamente ama cambiare bandiera non appena le cose si mettono male - l’8 settembre 1943 è solo uno dei molti esempi - ma, a differenza dei topi, che grazie al loro istinto animale presagiscono l’affondare della barca e si spostano in massa prima dell’inevitabile, gli italiani aspettano pazientemente che tutto vada a rotoli. Fu così nel 1992, al crepuscolo della Prima Repubblica, ed è così ora, nel 2011, momento in cui il tessuto sociale è sempre più lacerato dalle conseguenze della crisi economica del primo mondo.
La pseudo-manovra finanziaria che il governo ha messo a punto per fronteggiare un crack economico ormai assolutamente futuribile, tocca direttamente la maggior parte del Paese ed ora che la classe media è ufficialmente una categoria in via d’estinzione, il bacino d’utenza di Lega Nord e Pdl si svuota di conseguenza. Probabilmente esacerbati dai continui scandali sessuali e dall’impietosa smania di mettere le mani in tasca ai piccoli imprenditori quelli del Pdl, sicuramente seccati dal manifesto servilismo dei loro leader quelli della Lega.
Questi ultimi non hanno accettato di buon grado il protrarsi del matrimonio d’interesse con i berlusconiani, ed ora che i tagli alle amministrazioni locali sono diventati (di default) la panacea di tutti i mali, l’eterna promessa del federalismo fiscale ha perso di credibilità e attrattiva agli occhi dei celoduristi. Oggi, d'altronde, quasi otto italiani su dieci affermano che il governo non ha mantenuto affatto le promesse propugnate in campagna elettorale: lo pensa la maggioranza dei leghisti e quasi la metà dei fedelissimi elettori del Pdl. Sette elettori su dieci giudicano poi la manovra finanziaria in modo negativo: iniqua, a spese soprattutto dei pensionati, dei dipendenti pubblici e dei giovani.
Il perché di tanta disaffezione alla politica e alle personalità che hanno fatto gli ultimi vent’anni di storia italiana sembra dunque rintracciabile nell’assoluta mancanza di rappresentanza popolare. Al di là del qualunquismo grillino, oggi nessuno sembra in grado di ricoprire il ruolo salvifico che a suo tempo ebbe il primo Berlusconi, quello di Forza Italia e del millantato milione di posti di lavoro. La casta, intesa come intera classe politica, è diventata il bersaglio delle frustrazioni degli italiani che, sempre più rabbiosi, chiedono a gran voce che i primi a sacrificare qualcosa in vista del bene comune siano proprio i tanti onorevoli che affollano gli scanni delle due camere.
L’unico che potrebbe ambire alla posizione di redentore - sicuramente per il retaggio storico di Tangentopoli, invero assolutamente simile per toni e modi alla situazione odierna - sembra essere proprio Antonio Di Pietro. Stando sempre ai dati proposti da Demos, a lui spetta la palma di “più amato dagli italiani”: un po’ perché protagonista dei successi del centrosinistra alle urne di maggio e giugno, un po’ perché imperitura figura simbolo di una giustizia che se la prende con i corrotti.
Dai tempi dei nostri padri romani, il popolo italiano ha sempre avuto il bisogno quasi fisico di avere un redentore, un mentore in grado di prenderlo per mano e guidarlo dinanzi agli ostacoli che la storia ha mano a mano posto sul cammino. Ora che l’uomo forte della Seconda Repubblica annaspa nelle sabbie mobili della crisi, il popolino chiama a gran voce un nuovo nume tutelare ma, allo stato attuale delle cose, nemmeno il semidio Ercole sarebbe in grado di reggere.
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di Carlo Musilli
Mentre la bagarre sulla manovra bis continua, l'Europa tenta l'ennesima strigliata alla politica italiana. E' "essenziale" che entro due anni e mezzo il nostro Paese raggiunga il pareggio di bilancio. Questo il messaggio che Jean Claude Trichet ha lanciato oggi dal Forum annuale di Cernobbio. Il presidente della Bce è evidentemente preoccupato dal teatrino che Pdl e Lega hanno messo in scena nelle ultime settimane sul decretone di Ferragosto. A fargli eco è arrivato perfino un videomessaggio del presidente Napolitano, che ha chiesto "chiarezza e certezza d'intenti" per approvare la nuova legge "presto e bene".
Ma il banchiere francese è andato ancora oltre, tornando a invocare per l'Italia "riforme strutturali forti". Forse non si è accorto che nel Parlamento romano sono ben lontani dal porsi problemi del genere. Al momento, non solo con la nuova manovra l'Italia spreca la terza occasione in due mesi per favorire la crescita: anche l'obiettivo di far quadrare i conti rimane una chimera.
A turno pidiellini e camicie verdi ripetono che "i saldi restano invariati" nonostante gli ultimi emendamenti, ma la verità è che non possono esserne certi. Nell'ultimo vertice di Arcore hanno rimpiazzato il contributo di solidarietà con un nuovo pacchetto di misure anti evasione. Questo significa che a un gettito sicuro di 3,8 miliardi si sostituiscono entrate impossibili da quantificare con precisione. Un'incertezza che venerdì ha spinto Olli Rehn, commissario economico dell'Ue, a dichiararsi "preoccupato" per la tenuta dei conti italiani.
Insomma, un pasticcio. Eppure i patti erano chiari. In cambio del provvedimento da 45,5 miliardi che ci dovrebbe consentire di azzerare il deficit nel 2013, l'Eurotower si è esposta a nostro favore acquistando a piene mani titoli di Stato italiani. Un intervento che non rientrerebbe nemmeno nei compiti di Francoforte, ma che ci ha consentito di frenare la corsa dello spread e di arginare la speculazione a Piazza Affari. Purtroppo la pacchia non può durare ancora a lungo.
A rassicurare i mercati dovrebbe pensarci la politica economica del governo. Tanto più che su Trichet si fanno sentire sempre più forti le pressioni della Germania. La prima economia europea non ci sta a pagare più del dovuto per i nostri errori. In ogni caso, se alla fine l'Europa si risolverà a portare pazienza, c'è da giurare che i mercati non faranno lo stesso.
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di Monica Capo
Sono giorni che si cerca “la quadra”, giorni che improvvisati avventurieri cercano di votare, “con il cuore che gronda sangue”, una manovra finanziaria equa, giorni che si studiano norme che poi il giorno seguente puntualmente saltano, che si fa tutto e il contrario di tutto. Sembra proprio che il Governo non abbia capito ancora che l'Italia è sotto osservazione, che i mercati finanziari stanno affilando le armi e che, quando la BCE smetterà di comprare i titoli del debito pubblico, (e finirà perché non potrà certo sostenerci in eterno) allora sì che ne vedremo delle belle.
Intanto, gli italiani, in un impeto ormai sempre più forcaiolo (e talvolta anche qualunquista), ma, paradossalmente, non ancora abbastanza “indignados”, puntano il dito a intervalli regolari, contro la casta della politica, contro gli sprechi della Chiesa, contro gli evasori, contro i calciatori, contro i compensi dei sindacalisti e via discorrendo. In verità, è assolutamente sacrosanto che, in questo momento, non ci debba essere un solo capitolo del bilancio dello stato, che passi indenne da una seria revisione pubblica.
Bisognerebbe ricordare, ad esempio, anche i compensi dorati dei proprietari e manager (di Sky, Mediaset, Telecom, Gruppo Marcegaglia, Fiat, De Benedetti, etc); delle nostre famiglie di industriali, per intenderci, che, in gran parte, vivono di monopolio o commesse pubbliche e non di vero libero mercato. Ma, su questo, avete letto, di recente, qualcosa sulla stampa italiana? Sicuramente no, perché, a rigor di logica, nessun giornale denuncerebbe mai lo stesso sistema che lo finanzia.
E bisognerebbe, soprattutto, dire che è venuto il tempo di tagliare e rivedere completamente la nostra spesa militare: è assurdo continuare a spendere, in questo modo, almeno 24 miliardi di euro all'anno. Tanto più che, come ha affermato Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della pace, “si continua a chiedere agli italiani di stringere la cinghia e la discussione sui tagli assomiglia a una guerra balcanica”.
Dello stesso avviso è anche Padre Alex Zanotelli , che ha ricordato, nel suo nuovo appello "Manovra e armi, il male oscuro", per tagliare le spese militari, “che in Italia spendiamo oltre 50mila euro al minuto per la Difesa, cioè 3 milioni di euro all’ora e 76 milioni al giorno, neanche se fossimo invasi dagli UFO”. (l’appello è pubblicato sul sito (www.ildialogo.org). Ma, chiaramente, anche in questo caso i direttori dei principali quotidiani si guardano bene dallo spiegare ai lettori che vi è un’altra Casta - quella militare - che pesa sul debito pubblico; non spiegano i costi di Finmeccanica perché i loro editori fanno parte della stessa famiglia industriale.
Una cosa è certa: occorre da subito una mobilitazione ad oltranza, ma soprattutto coesione, perché tutte le lotte devono concretizzarsi in qualcosa, perché non possiamo continuare ognuno a far finta di fare la sua parte, in maniera ordinata, pensando soltanto a dove posizionarci politicamente, mentre i signori della finanza fanno governi e li disfano, e stracciano le nostre vite.
Basterebbe, semplicemente, fare tesoro dell’esperienza dei Referendum e magari procedere ad una seria riduzione delle spese militari perché, come afferma Padre Alex, “non è forse questa parola, bombardare, che caratterizza il modo della vita umana su questo pianeta nel Ventesimo secolo? Forse altri secoli sono stati altrettanto violenti come il nostro, ma noi che viviamo in questo siamo responsabili del suo presente e del suo futuro”.
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di Rosa Ana De Santis
Se abbiamo ancora l’idea di essere il paese dell’accoglienza ad oltranza, sommerso di clandestini che, una volta soccorsi nelle acque e ospitati in ostelli a vitto e alloggio gratis, come credono in tanti, diventano irreperibili, siamo lontani dai fatti reali. L’Italia, da tempo ormai, ha cambiato approccio e anima verso determinate questioni sociali nella propaganda politica e nella pratica. La solidarietà, anche quella annacquata dalla retorica del mandolino che ci da una fama di clemenza e allegria in giro per il mondo, anche quella quindi meno nobile e culturalmente meno elevata, si è estinta. Tanto nelle persone di estrazione più popolare, quanto nelle istituzioni che ci governano. Difficile stabilire chi abbia condizionato chi. Certo è che “all’italiana” facciamo tante cose, con benevolenza e con una patina di bontà genetica, ma non tutto. Com’è sempre stato, del resto.
Nella rotta tra Lampedusa e la Tunisia è da tempo che il Viminale autorizza, quasi alla chetichella, quello che nessuna carta di diritti umani e alcuna normativa ONU potrebbe tollerare. Per ogni barcone che vediamo arrivare sulle coste, le coperte termiche, l’assistenza sanitaria, e quelle montagne di persone condotte in quei centri che sono in realtà campi di detenzione, ce ne sono tanti altri che sono rimandati a casa. E’accaduto una settimana fa con 104 migranti fermati in mezzo al mare e rimandati a casa, ma il caso è tutt’altro che isolato. Numerose operazioni di soccorso, coordinate dalla Capitaneria di Porto e chiamate Sar “Save and Rescue”, spesso si sono trasformate in altro.
Il respingimento in mare avviene attraverso modalità fuori dal diritto e da ogni regolamentazione. Si parte con un approssimativo rilevamento della rotta (se è a ovest di Lampedusa) e con l’identikit somatico per stabilire la provenienza delle persone e approntare il respingimento, portando i naufraghi sulla nave italiana e organizzando il successivo trasbordo su una motovedetta tunisina. Impossibile, come richiederebbe la procedura, organizzare qualsiasi intelligente analisi dei casi individuali.
L’identificazione è collettiva e sommaria: non distingue i rifugiati, coloro che avrebbero diritto a richiedere asilo politico, dagli altri che pure, fuggono dalla guerra e dagli stenti, non certo per vacanza. Già nel 2009, allora in virtù degli accordi con l’amico Gheddafi, che in quei tempi era di casa, l’Italia si era resa responsabile di rimpatri fatti in questa maniera e a Strasburgo, oggi, il nostro paese è sotto processo per questi fatti.
Sono tantissimi i tunisini che avrebbero avuto diritto a chiedere asilo e che non sono mai arrivati sulle coste dell’Europa. In nome di respingimenti che non vengono dichiarati come tali e che avvengono nella più selvaggia discrezionalità, senza legge e senza regole. Il semplice pattugliamento viene prestato a operazioni politiche che il Viminale decide volta per volta e che poco hanno a che vedere con i rimpatri così come dovrebbero esser fatti: analizzando i casi e scongiurando il rischio, ad esempio, che un cittadino Saharawi, un potenziale richiedente asilo, come è accaduto per l’ultimo rimpatrio in mare, debba buttarsi nel Mediteranneo per evitare di tornare in patria.
L’ultimo soccorso trasformato in respingimento è stato appunto lo scorso 21 agosto, ci sono testimoni e fotografi a documentarlo. Il cambio di operazione è avvenuto nel giro di qualche telefonata e, tanto la Guardia di Finanza quanto la Capitaneria di Porto, non hanno molti argomenti con cui spiegare come abbiano fatto a identificare i singoli e soprattutto sono reticenti nel parlarne. Forse perché il diritto internazionale è scomparso dalle acque del Mare Nostrum. E se la volontà politica e la ragione del diritto non camminano insieme, l’insidia dell’ingiustizia è dietro l’angolo.
A margine, ma nemmeno troppo, la posizione del nostro Paese nella Comunità Europea sta diventando tutt’altro che semplice. Quando l’istituzione massima della sicurezza agisce esclusivamente sull’onda di una rotta di pensiero, scavalcando la legge, ogni azione di potere diventa repressione. Una medicina amara ma necessaria contro la solidarietà, sosterrebbero in tanti, che potrebbe però non risparmiare nessuno. Nemmeno al di qua del mare.