di Mariavittoria Orsolato

Non meno di qualche giorno fa il neosegretario del PDL Angelino Alfano confermava la leadership e la guideline berlusconiana, annunciando trionfante che l’attuale premier sarebbe corso come capolista anche alle politiche del 2013. Che questa mossa sia del tutto autolesionista per il centrodestra l’hanno confermato i dati resi pubblici ieri dalla Demos - l’agenzia di ricerca politica e sociale fondata da Ilvo Diamanti - e riportati con solerzia da Repubblica. Stando ai numeri, infatti, il consenso nei confronti del governo rispetto alle rilevazioni dello scorso 27 giugno è in caduta libera e registra un calo di ben 5 punti percentuali (dal 27% al 22%), così come lo è il gradimento per i due lìder maximi della coalizione.

Sia Berlusconi che Bossi, infatti, scontano il malcontento del popolo italiano che, sempre più vessato e ormai sordo ai richiami all’ottimismo, fa precipitare il consenso dei due a quelli che possono essere tranquillamente considerati minimi storici. Per il premier la flessione rispetto al giugno è del 3% (dal 25.6% di giugno al 22.7% odierno), mentre per il leader leghista i punti in meno sono ben 5, 9 se si considerano i dati del febbraio 2011 che lo vedevano al 31.6%.

Se si dovesse andare alle urne oggi, insomma, il quadro sarebbe ben diverso da quello del 2008. Secondo le stime di Demos, la somma del gradimento dei due partiti di maggioranza raggiungerebbe poco più del 35% - meno di quanto fece da solo il Popolo delle Libertà alle scorse politiche - e rimarrebbe comunque sotto di 9 punti rispetto all’asse formata da Pd, Idv e Sel che registra un 44% di consensi. Certo questi dati non sono lo specchio di un miglioramento interno all’opposizione, di una concreta fede degli italiani nelle soluzioni proposte da quelli che sono in ogni caso i partiti di minoranza (troppo spesso silenziosa).

I numeri impietosi snocciolati sulle pagine di Repubblica non dicono nulla di nuovo: il popolo italiano storicamente ama cambiare bandiera non appena le cose si mettono male - l’8 settembre 1943 è solo uno dei molti esempi - ma, a differenza dei topi, che grazie al loro istinto animale presagiscono l’affondare della barca e si spostano in massa prima dell’inevitabile, gli italiani aspettano pazientemente che tutto vada a rotoli. Fu così nel 1992, al crepuscolo della Prima Repubblica, ed è così ora, nel 2011, momento in cui il tessuto sociale è sempre più lacerato dalle conseguenze della crisi economica del primo mondo.

La pseudo-manovra finanziaria che il governo ha messo a punto per fronteggiare un crack economico ormai assolutamente futuribile, tocca direttamente la maggior parte del Paese ed ora che la classe media è ufficialmente una categoria in via d’estinzione, il bacino d’utenza di Lega Nord e Pdl si svuota di conseguenza. Probabilmente esacerbati dai continui scandali sessuali e dall’impietosa smania di mettere le mani in tasca ai piccoli imprenditori quelli del Pdl, sicuramente seccati dal manifesto servilismo dei loro leader quelli della Lega.

Questi ultimi non hanno accettato di buon grado il protrarsi del matrimonio d’interesse con i berlusconiani, ed ora che i tagli alle amministrazioni locali sono diventati (di default) la panacea di tutti i mali, l’eterna promessa del federalismo fiscale ha perso di credibilità e attrattiva agli occhi dei celoduristi. Oggi, d'altronde, quasi otto italiani su dieci affermano che il governo non ha mantenuto affatto le promesse propugnate in campagna elettorale: lo pensa la maggioranza dei leghisti e quasi la metà dei fedelissimi elettori del Pdl. Sette elettori su dieci giudicano poi la manovra finanziaria in modo negativo: iniqua, a spese soprattutto dei pensionati, dei dipendenti pubblici e dei giovani.

Il perché di tanta disaffezione alla politica e alle personalità che hanno fatto gli ultimi vent’anni di storia italiana sembra dunque rintracciabile nell’assoluta mancanza di rappresentanza popolare. Al di là del qualunquismo grillino, oggi nessuno sembra in grado di ricoprire il ruolo salvifico che a suo tempo ebbe il primo Berlusconi, quello di Forza Italia e del millantato milione di posti di lavoro. La casta, intesa come intera classe politica, è diventata il bersaglio delle frustrazioni degli italiani che, sempre più rabbiosi, chiedono a gran voce che i primi a sacrificare qualcosa in vista del bene comune siano proprio i tanti onorevoli che affollano gli scanni delle due camere.

L’unico che potrebbe ambire alla posizione di redentore - sicuramente per il retaggio storico di Tangentopoli, invero assolutamente simile per toni e modi alla situazione odierna - sembra essere proprio Antonio Di Pietro. Stando sempre ai dati proposti da Demos, a lui spetta la palma di “più amato dagli italiani”: un po’ perché protagonista dei successi del centrosinistra alle urne di maggio e giugno, un po’ perché imperitura figura simbolo di una giustizia che se la prende con i corrotti.

Dai tempi dei nostri padri romani, il popolo italiano ha sempre avuto il bisogno quasi fisico di avere un redentore, un mentore in grado di prenderlo per mano e guidarlo dinanzi agli ostacoli che la storia ha mano a mano posto sul cammino. Ora che l’uomo forte della Seconda Repubblica annaspa nelle sabbie mobili della crisi, il popolino chiama a gran voce un nuovo nume tutelare ma, allo stato attuale delle cose, nemmeno il semidio Ercole sarebbe in grado di reggere.

 

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