di Sara Seganti 

La partecipazione riparte dal basso. Dopo la vittoria di Pisapia a sindaco di Milano e l’importante passaggio dei referendum di giugno, anche Zingaretti, l’attuale presidente della Provincia di Roma, ha intensificato i rapporti con la società civile in vista della sua prossima candidatura a sindaco della Capitale. Zingaretti ha, infatti, preso parte all’incontro “Per il bene di Roma” organizzato nel cuore di Testaccio dalla rete "La città di tutti" che riunisce 130 associazioni di cittadini romani interessati a partecipare attivamente alla politica della capitale e che ha, in pratica, conferito a Zingaretti l’investitura “dal basso” per le prossime elezioni, in stile Pisapia.

Il fenomeno, che vede la società civile riassumere su di sé quella delega che ha smesso di concedere in bianco alla politica e ai partiti, presentandosi come interlocutore attivo e competente, in grado di orientare l’azione per il bene pubblico nelle direzioni giuste, è in totale antitesi con il clima d’intrigo che regna incontrastato nei palazzi del potere.

In questi giorni, infatti, per la prima volta in 27 anni il parlamento italiano ha consentito un’autorizzazione a procedere per un deputato, minando così il principio di totale immunità che de facto era sempre stato garantito dall’occupare uno scranno alla Camera. Ciò che è avvenuto al deputato Pdl, Alfonso Papa, indagato per concussione e al centro dell’inchiesta sulla P4 avrebbe potuto rappresentare un momento di buon costume parlamentare: una risposta fattiva all’ondata di anti-politica che serpeggia nel paese.

Purtroppo così non è stato: la nostra classe politica non riesce più ad uscire dalla bagarre e dalla contrapposizione formale, incurante di cosa pensano coloro che stanno fuori dal palazzo. Complice anche una legge elettorale figlia del suo tempo, definita porcellum dal suo stesso creatore, che non permette più di esprimere preferenze dirette e finisce per mandare in parlamento solo gli unti dal leader. Cosa ne è di una democrazia parlamentare se la delega tra gli eletti e gli elettori non funziona più?

Il coinvolgimento attivo della società civile - secondo l’idea che unicamente coloro che conoscono direttamente il territorio e i suoi problemi possano mediare tre le diverse esigenze e, contemporaneamente, essere più indipendenti rispetto a chi è sempre concentrato sulla raccolta di voti - è una risposta sufficiente alla crisi della rappresentanza, rappresenta un futuro per le democrazie?

Senza voler citare, ancora una volta, l’anomalia italiana del berlusconismo che, pure, costituisce buona parte del problema, e cercando di capire le profonde motivazioni della crisi della rappresentanza occorre guardare, oltre la nostra storia nazionale, anche ai recenti cambiamenti globali. Perché il mondo ampliato e interconnesso, la nuova società tecnologica e la crescente interdipendenza delle economie nazionali sono fenomeni che hanno modificato radicalmente l’universo all’interno del quale agisce la politica.

L’idea sostenuta da molti è che, in uno scenario globalizzato, la politica non abbia più le competenze necessarie per regolamentare settori complessi e interconnessi all’interno di un quadro di legge coerente. In questo contesto, l’entusiasmo per il ruolo svolto dalle associazioni, dalle fondazioni e dai comitati, è legato (e non solo in Italia) all’idea di governance, termine mutuato dalla gestione del privato, che sembra aver conquistato i pensatori politici al punto da decretare la fine della politica, così come l’abbiamo conosciuta, per far posto agli esperti, alla società civile e ai tavoli di negoziazione divisi per settori.

L’Unione Europea regola già molti settori usando questa nuova modalità di coinvolgimento dei diversi interlocutori, riattualizzando in parte il funzionamento dei tavoli sindacali. Le nuove parole chiave sono partecipazione dal basso, mediazione, trasparenza, e internet.

Non può passare inosservata, tra gli esempi recenti di una nuova via alla cittadinanza, la recente esperienza dell’Islanda che oggi sta riscrivendo la sua costituzione, con un sistema di consultazione dal basso, via internet. L’Islanda è un piccolo paese con 300.000 abitanti che non permette paragoni con la nostra realtà, ma la sua recente parabola può essere uno spunto di riflessione.

L’Islanda entra in crisi nel 2008, prima del fallimento di Lehman Brothers, passando in pochi mesi da uno dei tenori di vita più alti del mondo all’insolvibilità, conseguenza di una deregulation finanziaria sfrenata. La cosa interessante è che gli islandesi sono riusciti a far cadere il governo e a rifiutarsi di ripagare il debito contratto principalmente con Inghilterra e Olanda, vincendo pochi mesi fa un referendum con il 90% dei voti.

Nel momento in cui hanno dichiarato fallimento, gli islandesi hanno iniziato un processo di democrazia dal basso per riscrivere, o meglio per migliorare, la carta costituzionale e rifondare un patto sociale, ripensando il rapporto tra politica e mercato. Questo esperimento è condotto in crowdsourcing, partendo dalla rappresentanza diretta e dalle piattaforme di discussione delle proposte sul web.

L’Islanda sta facendo un esperimento nuovo, in un contesto molto particolare: oggi il paese ha ricominciato a crescere, ma è ancora isolato economicamente dall’esterno e ha dimensioni talmente piccole da poter essere paragonato a un comune. Ciò nonostante, l’idea che sia possibile riprendersi la delega e usarla per riscrivere collettivamente le regole della vita pubblica è un’idea forte di cui la politica oggi ha più che mai bisogno.

Queste nuove e varie forme di partecipazione attiva della cittadinanza sono sicuramente una risposta positiva alla ridefinizione degli equilibri, interni e globali, che siamo costretti ad affrontare. Occorre scongiurare il rischio, però, che questa partecipazione diretta si identifichi con l’ideale di una governance incolore, correndo il rischio di decretare, insieme alla fine della politica, anche la fine delle idee.

di Fabrizio Casari

La nuova manovra finanziaria ha ricevuto il nyet dei mercati. Che abbia superato lo stress-test per gli istituti di credito di venerdì scorso è servito a poco. E’ lecito allora ipotizzare che lo stress-test sulle banche sia stato superato sia per la valutazione sulla tenuta degli Istituti di credito che in virtù delle condizioni politiche straordinarie che avevano segnato il passaggio della manovra al Senato: regia del Colle e opposizione responsabile (anche troppo). Ma, finita la sperimentazione dell’emergenza, è tornata la sostanza della manovra e del suo contesto politico e, con esse, anche i rischi per le banche italiane. La speculazione internazionale, certo, ma non solo. I mercati finanziari non si fidano della nuova finanziaria perché, fondamentalmente, non si fidano del governo.

Il motivo è fin troppo evidente: da un lato la manovra si fonda su un solo precetto: non contiene accenni alla crescita e, dunque, è puramente indirizzata sulla riduzione della spesa pubblica senza che questa possa essere, da sola, determinante per il risanamento dei conti. La manovra, infatti, così com’è stata concepita, ha respiro breve ed affannoso, è pura contabilità destinata solo a fare cassa. Una macelleria sociale che non da alcuna indicazione circa la possibilità di far ripartire l’economia; semmai, contiene in sé tutti gli indicatori possibili per un ulteriore depauperamento del tessuto sociale ed economico del Paese.

Ma, più ancora che il merito dei conti, l’elemento di fondo che incide nella valutazione negativa che la Borsa ha voluto esprimere ieri è il giudizio severissimo sul governo, sulla sua capacità di tenuta sia come compagine politica che, ancor più, sulla capacità di gestire la fiducia degli italiani. C’è infatti un elemento indiscutibilmente necessario per una politica economica che preveda rigore dei conti e rilancio dello sviluppo: un governo forte ed autorevole che la ispira. E qualunque manovra che, addirittura, cancelli il rilancio e preveda solo (e male) il rigore, a maggior ragione dev’essere gestita da un Esecutivo e da un establishment forte e in grado di raccogliere il consenso popolare.

Ebbene, nulla di tutto ciò è ascrivibile all’Italia di oggi. Quella che i mercati leggono in profondità, infatti, è la definitiva crisi di credibilità, autorevolezza e consenso del governo, premier in testa. Non si tratta solo e soltanto dell’accavallarsi di ogni tipo di scandali - pure ormai irrefrenabili, come sempre quando si scoperchia la pentola di un regime - quanto della percezione evidente del “rompete le righe” politico che risulta evidente dalle spinte centrifughe che vengono da ogni piega della maggioranza. E’ ormai il tutti contro tutti, il free for all della rissa di governo.

E del resto, azionisti e risparmiatori, hanno un convincimento comune: l’Italia rischia d’affondare se non trova le energie e le idee per ripartire. Energie e idee di cui però, nella finanziaria, non c’è traccia. Si prosegue invece con la logica fin qui seguita e fin qui dimostratasi fallimentare. Qui sta il giudizio negativo sulla manovra e sullo stesso governo. Nessuna manovra economica che aspiri ad avere successo può limitarsi a proseguire con ulteriore e maggiore ferocia sociale le fallimentari politiche economiche del governo Berlusconi. Nessun investitore può scommettere su un paese che appare piegato e piagato, con una classe imprenditoriale inetta ed un governo alla deriva.

La mancanza totale di fiducia degli italiani nel governo, giunta puntualmente con l’apertura delle urne nelle recenti consultazioni amministrative e referendarie, racconta meglio di ogni altro report la fine dell’illusionismo collettivo e si erge invece a sentenza inappellabile circa il bisogno di una nuova fase politica e di governo.

C’è, più in generale, la consapevolezza della fine del regime berlusconiano, dello scollamento evidente tra il blocco sociale che ha consentito negli ultimi diciassette anni d’imbrigliare e imbrogliare il Paese con la favola del buon governo. La metafora poco felice del Titanic con la quale Tremonti ha affrescato alla sua maniera la situazione economica (ci vuole coraggio a chiedere d’investire su una nave che s’inabisserà…) è stata invece ribaltata proprio sul governo, che vede le sue componenti scannarsi per un posto sulle scialuppe di salvataggio. Ma fanno acqua persino quelle. Meglio sbrigarsi a trovare una nave più affidabile, dicono in Borsa; meglio trovarne una decisamente alternativa, dicono le vittime del governo e delle borse.

 

di Carlo Musilli

Da venerdì la manovra è legge. E da domani inizieremo a pagare, senza nemmeno la speranza di nuove prospettive. La legge approvata dal Parlamento non risolverà nessuno dei nostri problemi per due ragioni: non contiene alcuna misura che favorisca la crescita delle imprese e non fa nulla per ridare fiato all'occupazione. Invece di stimolare la domanda, le assesta il colpo di grazia, accanendosi sui ceti medio-bassi ed evitando accuratamente di toccare i grandi patrimoni.

Come da copione, il ragioniere armato di machete che guida la nostra economia ha previsto solo un'accozzaglia di tagli orizzontali e nuove imposte. Non ha alcun interesse per le politiche industriali e sociali, il suo unico è obiettivo è battere cassa per far tornare i conti nel breve periodo. Eppure il via libera alla manovra è arrivato a tempi di record: appena quattro giorni per tutti i passaggi parlamentari. Un "miracolo" - come l'ha definito Napolitano - che si spiega solo guardando al quadro d'insieme. Tutte le forze politiche, anche quelle d'opposizione, hanno scelto la filosofia del male minore per tirare fuori l'Italia dal pantano in cui si è trovata nelle ultime settimane.

In sostanza, si trattava di rassicurare i mercati per allontanare gli avvoltoi della speculazione. L'attacco che la settimana scorsa ha colpito la finanza italiana non ha affossato solo le azioni di Piazza Affari, ma anche le obbligazioni sul nostro debito pubblico. Lo spread fra Btp e Bund è schizzato oltre ogni soglia immaginabile. Questo significa che adesso lo Stato deve pagare un interesse altissimo (il 5,90%) per convincere gli investitori a comprare i titoli italiani invece di quelli tedeschi, i più solidi al mondo.

C'è poi la questione delle mefistofeliche agenzie di rating americane. Il Governo aveva urgenza di scongiurare il declassamento minacciato per il prossimo autunno. Bisognava dimostrare che l'Italia non è la Grecia ed avrebbe la forza per resistere al contagio della crisi debitoria che potrebbe diffondersi fra i Paesi periferici dell'eurozona. Per queste ragioni la manovra punta all'azzeramento del deficit nel 2014. Una volta raggiunto quest’obiettivo, "scatterà anche la riduzione automatica del debito", assicura Tremonti. Peccato che al momento il debito sia ancora fuori controllo. Proprio ieri ha segnato il nuovo record storico a quota 1.897 miliardi.

Ora, tanto per sottolineare la competenza dei nostri amministratori, vale la pena ricordare che i saldi previsti dalle prime bozze di manovra non erano assolutamente sufficienti per arrivare al pareggio di bilancio in tre anni e mezzo. Il primo ad accorgersene è stato il Quirinale. Risultato: in zona Cesarini il Governo ha rivoluzionato l'importo complessivo della legge (portandolo da 47 a circa 87 miliardi, di cui 70 solo nel biennio 2013-2014, in modo da scaricare il barile sul prossimo Esecutivo). Ed ecco spuntare una serie di nuove misure assassine.

La più pesante è quella che prevede tagli lineari ai bonus fiscali. Le detrazioni vengono sforbiciate del 5% nel 2013 e del 20% nel 2014, per un aumento della pressione fiscale pari all'1,2%. Una vera stangata per le famiglie, che vedranno aumentare le spese mediche, quelle per l'istruzione, gli asili nido e le ristrutturazioni edilizie. La bastonata colpirà soprattutto gli italiani con redditi medio bassi, che pagheranno quasi il doppio di quelli abbienti (620 euro contro 364). Questo per un principio elementare: più si è ricchi, meno sono le detrazioni a cui si ha diritto.

La stretta non verrà applicata soltanto se entro il 30 settembre 2013 sarà esercitata la delega per la riforma fiscale e assistenziale, che tuttavia scaricherebbe i tagli sulle prestazioni sociali. Niente male, considerando che da 17 anni Berlusconi usa lo slogan "Abbasseremo le tasse!" come urlo di battaglia.

Di fronte a tanto, perfino Bankitalia ha indossato i panni di Robin Hood: "Occorre limitare il ricorso a aumenti del prelievo", si legge nell'ultimo rapporto economico dell'istituto. Tutelare la domanda è fondamentale soprattutto in questa fase, perché il Paese cresce a un ritmo decisamente troppo lento. Secondo le previsioni della Banca Centrale, il Pil aumenterà solo dell'1% quest'anno e dell'1,1% nel 2012.

Ironia del destino, tutte queste belle notizie sono arrivate in concomitanza con la pubblicazione del nuovo rapporto Istat sulla povertà. Dallo studio emerge che gli italiani poveri (quelli che vivono con meno di mille euro al mese per due persone) sono il 13,8% del totale, più di otto milioni di persone. I poveri "assoluti" invece (quelli che non mettono insieme il pranzo con la cena) sono altri tre milioni.

Fin qui l'Italia, ora veniamo al Parlamento. Come per magia, nelle ultime ore di taglia e cuci, dalla manovra sono praticamente scomparsi i tagli alla politica. Addio alla riduzione da 82 milioni sugli stipendi agli onorevoli, si salvano invece vitalizi e indennità. I rimborsi elettorali diminuiranno, ma solo dalla prossima legislatura, mentre i finanziamenti ai partiti sono calati di un ridicolo 10%.

Difficile consolarsi col taglio alla cilindrata delle auto blu. Che la casta abbia deciso di autoassolversi non stupisce nessuno. E' invece sorprendente che a chiedere con maggior forza il taglio ai costi del Palazzo sia stata Confindustria. Pura demagogia, naturalmente, ma il fatto in sé la dice lunga sullo stato catatonico che perseguita l'opposizione.

A ben vedere, dalle cronache degli ultimi giorni si ricava una rappresentazione efficace del modo in cui è governato il nostro Paese. Un caso esemplare è quello che riguarda la liberalizzazione degli ordini professionali. La norma doveva essere inclusa nella manovra, ma fra i corridoi del Senato è sopravvissuta appena cinque ore. Avvocati e notai del Pdl si sono prodotti in un ammutinamento che avrebbe fatto impallidire l'equipaggio del Bounty. Pur di respingere l'attacco alla loro corporazione, non ci hanno pensato due volte a minacciare i loro compagni di partito: "O ritirate la norma, oppure non voteremo la fiducia sulla manovra". Erano disposti a sacrificare il provvedimento che dovrebbe salvare l'Italia sull'altare dei loro privilegi. Veri uomini di Stato.

di Rosa Ana De Santis

Il testo approvato ieri alla Camera dei Deputati ha spazzato via ogni ipotesi ulteriore di lavoro trasversale tra gli schieramenti e due anni di lavoro di commissione sul testo originario licenziato al Senato nel marzo del 2009. Pesantissime le restrizioni sulla Dichiarazione Anticipata di Trattamento: sostanziale fulcro di tutto il dibattito politico di questi anni che il testo Calabrò è riuscito a svuotare di ogni contenuto e di ogni indicazione vincolante da parte del malato.

Nel testamento sarà possibile indicare il nome, il cognome e il divieto ad ogni accanimento terapeutico (peraltro sempre condannato) ma non ci si potrà rifiutare di essere tenuti in vita contro la propria volontà. In una parola il testamento biologico diventa una scatola vuota, una cornice giuridica a una sostanza tutta pietistica di accondiscendenza verso il dolore e la malattia, con in appendice un’alleanza densa di paternalismo tra medici e familiari che trasforma la volontà della persona in un orpello inutile, comprensibile, ma privo di valore legale e di carattere puramente orientativo.

La legge, così come è, non aggiunge nulla a quanto accadeva prima del caso Englaro e, anzi, mette nero su bianco l’impossibilità che alcuno dia indicazioni vincolanti su come finire la propria esistenza in accertate condizioni di sopravvivenza quali erano quelle, ad esempio, della giovane Eluana. La legge è una sintesi perfetta della “piccineria italiota”: non si avalla alcuna evoluzione della morale e dell’autodeterminazione in nome della vocazione dogmatica e confessionale di alcuni, mai estirpata del tutto dal Parlamento. Si legifera per tornare indietro, così indietro da dimenticare persino le sentenze di Tribunale che in nome della Costituzione hanno legittimato quanto Eluana chiedeva per la propria vita.

Plausi alla legge dal Sottosegretario Roccella, dall’ala binettiana, dai cattolici sparsi, ma non da tutti, come ad esempio osserva Rosy Bindi rimproverando alla legge proprio la sua parzialità etica e la sua intrinseca antidemocraticità.

Sono 15 i deputati del PD astenuti e qualche dissenso s’è registrato anche all’interno della maggioranza: Capezzone per fare un nome. Ora la legge torna al Senato per la terza lettura dove la votazione andrà liscia e a quel punto la partita politica andrà riconsegnata agli italiani, come assicura Ignazio Marino, per la raccolta delle firme e il conseguente referendum.

Sarà a quel punto che la campagna mediatica tornerà con violenza a diffondere il terrorismo dell’eutanasia, della selezione dei pazienti e di ogni peggiore abuso. Il dibattito riprenderà quei toni da mercato e quegli anatemi dei giorni in cui Beppino Englaro cercava solo di difendere la volontà di sua figlia.

Abbiamo già qualche simpatica anticipazione. Proprio nel bel mezzo del dibattito parlamentare la Binetti si è lanciata in un monito e in una denuncia per impedire la vendita ai minori di un videogame violento dal nome “Euthanasia” presto distribuito in tutti i punti vendita. Insomma sarà utilizzato tutto, ma proprio tutto per confondere e spaventare, per non far comprendere, per utilizzare termini e facoltà in modo strumentale e non veritiero.

Questa non doveva essere una legge per istituire l’eutanasia (come se questa non fosse un atto di civiltà e di puro liberalismo), doveva essere molto meno. Doveva essere una legge di rispetto e di difesa dell’integrità fisica e morale di ognuno di noi. Di tutti coloro che non vogliono un tubo nella pancia e 17 anni di piaghe senza possibilità di tornare indietro.

Rispetto di tutti coloro che non credono nei miracoli e che quando la morte li sorprende, ma non li porta via del tutto hanno dei valori e delle idee sulla vita da far rispettare, da lasciare in eredità. Una legge anche per tutti coloro che vogliono il contrario. Un testamento, ecco tutto quello che questa legge doveva dare ed ecco quello che sarà vietato. Quell’ultima parola di chi non può più parlare.

Ieri, davanti a Montecitorio, sotto il fuoco del sole che sembrava volesse sciogliere l’asfalto del piazzale, si sentivano le voci del Parlamento. Si udivano gli interventi, risuonavano nella piazza vuota dove timidamente resisteva il sit-in che ricordava Eluana, Welby e tutti quei testamenti che questo governo, zeppo di immoralità e corrotto, ha buttato via, ha ignorato e non ha compreso. Per difendere il nulla e il tutto. Il nulla del divieto e il tutto di un’ortodossia confessionale.

Il governo che ha calpestato tutti i comandamenti in nome della libertà più abusata e più vuota e non riesce a dare valore all’unica e fondamentale libertà che ogni persona possiede: come vivere e come non vivere. La più innocua e la più potente. Quella che abolisce l’architettura del dolore e della consolazione. Quella che toglie il velo e l’edulcorata glassa della compassione. Quella che in tanti stanno aspettando per quando qualcuno avrà pietà.

di Fabrizio Casari

Per farsi un’idea dello stato di coma in cui versa l’etica pubblica nel nostro Paese, è sufficiente vedere la trattazione generale della sentenza della Corte D’Appello che ha condannato la Fininvest a pagare oltre 560 milioni alla Cir di Carlo De Benedetti. Lo schieramento berlusconiano, come pure una parte di quello del centrosinistra, hanno incrociato le lame solo circa l’obbligatorietà o meno del pagamento immediato e delle eventuali conseguenze che potrebbero derivarne.

E quindi via alle danze: deve pagare subito, dice qualcuno; no, solo dopo il pronunciamento della Cassazione a seguito del ricorso Fininvest, dicono altri. Che i giudici potessero già da ora sospendere l'esecutività del provvedimento ma che hanno scelto di non farlo pare essere un dettaglio, come pure la distinzione tra reo e vittima.

In qualche modo accumunati dal fatto di essere due uomini d'indubbia ricchezza - al punto che pagare o incassare la cifra sembrerebbe essere un esclusivo elemento di princicipio - entrambi si trovano al centro di rocambolesche quanto indecenti ricostruzioni della vicenda che invece é limpida. Non pare destare peraltro interesse per nessuno il fatto che l’Ingegner De Benedetti sia la vittima dello scippo perpetrato grazie alla corruzione e che attende da molti anni vedersi riconosciuti i propri diritti e rimborsato quanto illecitamente sottratto.

Ma sfugge ai più il dato eclatante della vicenda: e cioè che la Corte D’Appello, come già quella d’Assise, hanno affermato che l’attuale Presidente del Consiglio ha ordinato ad un suo avvocato (poi da lui nominato ministro della Giustizia!) di corrompere un giudice (utilizzando fondi neri) per assicurarsi un verdetto favorevole in un processo.

Il fatto che Berlusconi, diversamente da Previti e dal giudice Metta, non sia stato condannato, dipende solo dal fatto che gli vennero riconosciute le attenuanti generiche nella condanna e che queste, riducendo l’ammontare della pena, l’abbiano fatta rientrare nella prescrizione successivamente intervenuta. E la domanda del giorno è dunque questa: in quale Paese al mondo un Premier potrebbe rimanere al governo?

Ma non è tutto. La sentenza sul Lodo Mondadori racconta con chiarezza anche come e attraverso quali mezzi l’imprenditore Silvio Berlusconi abbia trasformato le sue aziende in un impero mediatico. E, ciò che a tutti é noto, é come poi, grazie anche al suddetto impero mediatico, abbia costruito la sua fortuna politica.

La pretesa di trovare ora l’ennesima norma “ad personam” (magari infilandola di soppiatto nella manovra finanziare da sottoporre alla fiducia delle Camere), che dovrebbe obbligare i giudici a bloccare il risarcimento alla Cir di De Benedetti, indica come nessun segnale di giustizia e, prima ancora, d’opportunità politica, possa increspare il gigantesco conflitto d’interessi del premier.

L’Italia, dal suo punto di vista, è nulla se messa in contrasto con le sue aziende. Del resto, per questo era entrato in politica, per salvare le sue aziende che affogavano nei debiti e rilanciarle con le buone o con le cattive, per trasformare la sua “roba” in interesse nazionale e portare l’interesse nazionale a divenire una variabile dei suoi conti privati.

Ma, come si diceva, l’importanza assoluta che la sentenza sul Lodo Mondadori offre all’attenzione dei meno acuti sta proprio nell’indicare il percorso imprenditoriale e politico attraverso il quale Berlusconi è passato da imprenditore relativamente ricco a padrone assoluto dell’Italia. Il consenso di cui gode Silvio Berlusconi, infatti, è dato anche dal controllo dei mezzi di comunicazione di massa.

Non solo le televisioni, ormai tutte sotto il suo controllo, alcune attraverso la diretta proprietà, altre con la direzione delle reti, altre ancora tramite la raccolta pubblicitaria. Lo stesso vale per i giornali quotidiani e per le riviste settimanali a larga diffusione, per le case editrici e per le stesse radio, alcune di sua proprietà e altre controllate tramite la pubblicità.

In sostanza, Berlusconi controlla a suo piacimento il mercato della circolazione delle idee ed esalta o minimizza, secondo le sue convenienze, i fatti che lo riguardano. Insomma, quasi tutto ciò che si vede, si sente e si legge è sotto il suo controllo: quindi, tutto ciò che serve a intrattenere, a informare e a formare, risponde alla voce e agli interessi del padrone. E per i giornalisti che volessero tenere la testa alta, almeno quelli che non lavorano in realtà circoscritte, quali sarebbero gli spazi editoriali a disposizione dove poter lavorare se non quelli che le spire del Biscione offrono?

La sentenza del lodo Mondadori ha ora messo nero su bianco quanto già tutti sapevano: la vicenda personale di Berlusconi è una delle pagine più torbide della storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Ad eccezione della legalità, nulla è stato risparmiato. Nessuna sua iniziativa, imprenditoriale, politica e personale, ha saputo dipanarsi senza violare ogni tipo di legge. E la sintesi della sua stagione politica é risultata essere, in sostanza, la difesa di quanto fatto da imprenditore prima e da politico poi, la crescita delle sue aziende, la pretesa d'immunità totale.

Ma il paese non può più essere tenuto in pugno da un aspirante sultano che tutto compra e tutto vende nelle forme e nei modi che sappiamo. Perché questa è la sua vera quintessenza che emerge tratteggiata dalla sentenza sul Lodo Mondadori: la sua “roba” e il suo denaro sono la ragione della sua vita. Incapace di sedurre, acquista. Incapace di essere, si dispera per avere. L’uomo qualunque ha il terrore di diventare uno qualunque.

 


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