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di Carlo Musilli
Da venerdì la manovra è legge. E da domani inizieremo a pagare, senza nemmeno la speranza di nuove prospettive. La legge approvata dal Parlamento non risolverà nessuno dei nostri problemi per due ragioni: non contiene alcuna misura che favorisca la crescita delle imprese e non fa nulla per ridare fiato all'occupazione. Invece di stimolare la domanda, le assesta il colpo di grazia, accanendosi sui ceti medio-bassi ed evitando accuratamente di toccare i grandi patrimoni.
Come da copione, il ragioniere armato di machete che guida la nostra economia ha previsto solo un'accozzaglia di tagli orizzontali e nuove imposte. Non ha alcun interesse per le politiche industriali e sociali, il suo unico è obiettivo è battere cassa per far tornare i conti nel breve periodo. Eppure il via libera alla manovra è arrivato a tempi di record: appena quattro giorni per tutti i passaggi parlamentari. Un "miracolo" - come l'ha definito Napolitano - che si spiega solo guardando al quadro d'insieme. Tutte le forze politiche, anche quelle d'opposizione, hanno scelto la filosofia del male minore per tirare fuori l'Italia dal pantano in cui si è trovata nelle ultime settimane.
In sostanza, si trattava di rassicurare i mercati per allontanare gli avvoltoi della speculazione. L'attacco che la settimana scorsa ha colpito la finanza italiana non ha affossato solo le azioni di Piazza Affari, ma anche le obbligazioni sul nostro debito pubblico. Lo spread fra Btp e Bund è schizzato oltre ogni soglia immaginabile. Questo significa che adesso lo Stato deve pagare un interesse altissimo (il 5,90%) per convincere gli investitori a comprare i titoli italiani invece di quelli tedeschi, i più solidi al mondo.
C'è poi la questione delle mefistofeliche agenzie di rating americane. Il Governo aveva urgenza di scongiurare il declassamento minacciato per il prossimo autunno. Bisognava dimostrare che l'Italia non è la Grecia ed avrebbe la forza per resistere al contagio della crisi debitoria che potrebbe diffondersi fra i Paesi periferici dell'eurozona. Per queste ragioni la manovra punta all'azzeramento del deficit nel 2014. Una volta raggiunto quest’obiettivo, "scatterà anche la riduzione automatica del debito", assicura Tremonti. Peccato che al momento il debito sia ancora fuori controllo. Proprio ieri ha segnato il nuovo record storico a quota 1.897 miliardi.
Ora, tanto per sottolineare la competenza dei nostri amministratori, vale la pena ricordare che i saldi previsti dalle prime bozze di manovra non erano assolutamente sufficienti per arrivare al pareggio di bilancio in tre anni e mezzo. Il primo ad accorgersene è stato il Quirinale. Risultato: in zona Cesarini il Governo ha rivoluzionato l'importo complessivo della legge (portandolo da 47 a circa 87 miliardi, di cui 70 solo nel biennio 2013-2014, in modo da scaricare il barile sul prossimo Esecutivo). Ed ecco spuntare una serie di nuove misure assassine.
La più pesante è quella che prevede tagli lineari ai bonus fiscali. Le detrazioni vengono sforbiciate del 5% nel 2013 e del 20% nel 2014, per un aumento della pressione fiscale pari all'1,2%. Una vera stangata per le famiglie, che vedranno aumentare le spese mediche, quelle per l'istruzione, gli asili nido e le ristrutturazioni edilizie. La bastonata colpirà soprattutto gli italiani con redditi medio bassi, che pagheranno quasi il doppio di quelli abbienti (620 euro contro 364). Questo per un principio elementare: più si è ricchi, meno sono le detrazioni a cui si ha diritto.
La stretta non verrà applicata soltanto se entro il 30 settembre 2013 sarà esercitata la delega per la riforma fiscale e assistenziale, che tuttavia scaricherebbe i tagli sulle prestazioni sociali. Niente male, considerando che da 17 anni Berlusconi usa lo slogan "Abbasseremo le tasse!" come urlo di battaglia.
Di fronte a tanto, perfino Bankitalia ha indossato i panni di Robin Hood: "Occorre limitare il ricorso a aumenti del prelievo", si legge nell'ultimo rapporto economico dell'istituto. Tutelare la domanda è fondamentale soprattutto in questa fase, perché il Paese cresce a un ritmo decisamente troppo lento. Secondo le previsioni della Banca Centrale, il Pil aumenterà solo dell'1% quest'anno e dell'1,1% nel 2012.
Ironia del destino, tutte queste belle notizie sono arrivate in concomitanza con la pubblicazione del nuovo rapporto Istat sulla povertà. Dallo studio emerge che gli italiani poveri (quelli che vivono con meno di mille euro al mese per due persone) sono il 13,8% del totale, più di otto milioni di persone. I poveri "assoluti" invece (quelli che non mettono insieme il pranzo con la cena) sono altri tre milioni.
Fin qui l'Italia, ora veniamo al Parlamento. Come per magia, nelle ultime ore di taglia e cuci, dalla manovra sono praticamente scomparsi i tagli alla politica. Addio alla riduzione da 82 milioni sugli stipendi agli onorevoli, si salvano invece vitalizi e indennità. I rimborsi elettorali diminuiranno, ma solo dalla prossima legislatura, mentre i finanziamenti ai partiti sono calati di un ridicolo 10%.
Difficile consolarsi col taglio alla cilindrata delle auto blu. Che la casta abbia deciso di autoassolversi non stupisce nessuno. E' invece sorprendente che a chiedere con maggior forza il taglio ai costi del Palazzo sia stata Confindustria. Pura demagogia, naturalmente, ma il fatto in sé la dice lunga sullo stato catatonico che perseguita l'opposizione.
A ben vedere, dalle cronache degli ultimi giorni si ricava una rappresentazione efficace del modo in cui è governato il nostro Paese. Un caso esemplare è quello che riguarda la liberalizzazione degli ordini professionali. La norma doveva essere inclusa nella manovra, ma fra i corridoi del Senato è sopravvissuta appena cinque ore. Avvocati e notai del Pdl si sono prodotti in un ammutinamento che avrebbe fatto impallidire l'equipaggio del Bounty. Pur di respingere l'attacco alla loro corporazione, non ci hanno pensato due volte a minacciare i loro compagni di partito: "O ritirate la norma, oppure non voteremo la fiducia sulla manovra". Erano disposti a sacrificare il provvedimento che dovrebbe salvare l'Italia sull'altare dei loro privilegi. Veri uomini di Stato.
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di Rosa Ana De Santis
Il testo approvato ieri alla Camera dei Deputati ha spazzato via ogni ipotesi ulteriore di lavoro trasversale tra gli schieramenti e due anni di lavoro di commissione sul testo originario licenziato al Senato nel marzo del 2009. Pesantissime le restrizioni sulla Dichiarazione Anticipata di Trattamento: sostanziale fulcro di tutto il dibattito politico di questi anni che il testo Calabrò è riuscito a svuotare di ogni contenuto e di ogni indicazione vincolante da parte del malato.
Nel testamento sarà possibile indicare il nome, il cognome e il divieto ad ogni accanimento terapeutico (peraltro sempre condannato) ma non ci si potrà rifiutare di essere tenuti in vita contro la propria volontà. In una parola il testamento biologico diventa una scatola vuota, una cornice giuridica a una sostanza tutta pietistica di accondiscendenza verso il dolore e la malattia, con in appendice un’alleanza densa di paternalismo tra medici e familiari che trasforma la volontà della persona in un orpello inutile, comprensibile, ma privo di valore legale e di carattere puramente orientativo.
La legge, così come è, non aggiunge nulla a quanto accadeva prima del caso Englaro e, anzi, mette nero su bianco l’impossibilità che alcuno dia indicazioni vincolanti su come finire la propria esistenza in accertate condizioni di sopravvivenza quali erano quelle, ad esempio, della giovane Eluana. La legge è una sintesi perfetta della “piccineria italiota”: non si avalla alcuna evoluzione della morale e dell’autodeterminazione in nome della vocazione dogmatica e confessionale di alcuni, mai estirpata del tutto dal Parlamento. Si legifera per tornare indietro, così indietro da dimenticare persino le sentenze di Tribunale che in nome della Costituzione hanno legittimato quanto Eluana chiedeva per la propria vita.
Plausi alla legge dal Sottosegretario Roccella, dall’ala binettiana, dai cattolici sparsi, ma non da tutti, come ad esempio osserva Rosy Bindi rimproverando alla legge proprio la sua parzialità etica e la sua intrinseca antidemocraticità.
Sono 15 i deputati del PD astenuti e qualche dissenso s’è registrato anche all’interno della maggioranza: Capezzone per fare un nome. Ora la legge torna al Senato per la terza lettura dove la votazione andrà liscia e a quel punto la partita politica andrà riconsegnata agli italiani, come assicura Ignazio Marino, per la raccolta delle firme e il conseguente referendum.
Sarà a quel punto che la campagna mediatica tornerà con violenza a diffondere il terrorismo dell’eutanasia, della selezione dei pazienti e di ogni peggiore abuso. Il dibattito riprenderà quei toni da mercato e quegli anatemi dei giorni in cui Beppino Englaro cercava solo di difendere la volontà di sua figlia.
Abbiamo già qualche simpatica anticipazione. Proprio nel bel mezzo del dibattito parlamentare la Binetti si è lanciata in un monito e in una denuncia per impedire la vendita ai minori di un videogame violento dal nome “Euthanasia” presto distribuito in tutti i punti vendita. Insomma sarà utilizzato tutto, ma proprio tutto per confondere e spaventare, per non far comprendere, per utilizzare termini e facoltà in modo strumentale e non veritiero.
Questa non doveva essere una legge per istituire l’eutanasia (come se questa non fosse un atto di civiltà e di puro liberalismo), doveva essere molto meno. Doveva essere una legge di rispetto e di difesa dell’integrità fisica e morale di ognuno di noi. Di tutti coloro che non vogliono un tubo nella pancia e 17 anni di piaghe senza possibilità di tornare indietro.
Rispetto di tutti coloro che non credono nei miracoli e che quando la morte li sorprende, ma non li porta via del tutto hanno dei valori e delle idee sulla vita da far rispettare, da lasciare in eredità. Una legge anche per tutti coloro che vogliono il contrario. Un testamento, ecco tutto quello che questa legge doveva dare ed ecco quello che sarà vietato. Quell’ultima parola di chi non può più parlare.
Ieri, davanti a Montecitorio, sotto il fuoco del sole che sembrava volesse sciogliere l’asfalto del piazzale, si sentivano le voci del Parlamento. Si udivano gli interventi, risuonavano nella piazza vuota dove timidamente resisteva il sit-in che ricordava Eluana, Welby e tutti quei testamenti che questo governo, zeppo di immoralità e corrotto, ha buttato via, ha ignorato e non ha compreso. Per difendere il nulla e il tutto. Il nulla del divieto e il tutto di un’ortodossia confessionale.
Il governo che ha calpestato tutti i comandamenti in nome della libertà più abusata e più vuota e non riesce a dare valore all’unica e fondamentale libertà che ogni persona possiede: come vivere e come non vivere. La più innocua e la più potente. Quella che abolisce l’architettura del dolore e della consolazione. Quella che toglie il velo e l’edulcorata glassa della compassione. Quella che in tanti stanno aspettando per quando qualcuno avrà pietà.
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di Fabrizio Casari
Per farsi un’idea dello stato di coma in cui versa l’etica pubblica nel nostro Paese, è sufficiente vedere la trattazione generale della sentenza della Corte D’Appello che ha condannato la Fininvest a pagare oltre 560 milioni alla Cir di Carlo De Benedetti. Lo schieramento berlusconiano, come pure una parte di quello del centrosinistra, hanno incrociato le lame solo circa l’obbligatorietà o meno del pagamento immediato e delle eventuali conseguenze che potrebbero derivarne.
E quindi via alle danze: deve pagare subito, dice qualcuno; no, solo dopo il pronunciamento della Cassazione a seguito del ricorso Fininvest, dicono altri. Che i giudici potessero già da ora sospendere l'esecutività del provvedimento ma che hanno scelto di non farlo pare essere un dettaglio, come pure la distinzione tra reo e vittima.
In qualche modo accumunati dal fatto di essere due uomini d'indubbia ricchezza - al punto che pagare o incassare la cifra sembrerebbe essere un esclusivo elemento di princicipio - entrambi si trovano al centro di rocambolesche quanto indecenti ricostruzioni della vicenda che invece é limpida. Non pare destare peraltro interesse per nessuno il fatto che l’Ingegner De Benedetti sia la vittima dello scippo perpetrato grazie alla corruzione e che attende da molti anni vedersi riconosciuti i propri diritti e rimborsato quanto illecitamente sottratto.
Ma sfugge ai più il dato eclatante della vicenda: e cioè che la Corte D’Appello, come già quella d’Assise, hanno affermato che l’attuale Presidente del Consiglio ha ordinato ad un suo avvocato (poi da lui nominato ministro della Giustizia!) di corrompere un giudice (utilizzando fondi neri) per assicurarsi un verdetto favorevole in un processo.
Il fatto che Berlusconi, diversamente da Previti e dal giudice Metta, non sia stato condannato, dipende solo dal fatto che gli vennero riconosciute le attenuanti generiche nella condanna e che queste, riducendo l’ammontare della pena, l’abbiano fatta rientrare nella prescrizione successivamente intervenuta. E la domanda del giorno è dunque questa: in quale Paese al mondo un Premier potrebbe rimanere al governo?
Ma non è tutto. La sentenza sul Lodo Mondadori racconta con chiarezza anche come e attraverso quali mezzi l’imprenditore Silvio Berlusconi abbia trasformato le sue aziende in un impero mediatico. E, ciò che a tutti é noto, é come poi, grazie anche al suddetto impero mediatico, abbia costruito la sua fortuna politica.
La pretesa di trovare ora l’ennesima norma “ad personam” (magari infilandola di soppiatto nella manovra finanziare da sottoporre alla fiducia delle Camere), che dovrebbe obbligare i giudici a bloccare il risarcimento alla Cir di De Benedetti, indica come nessun segnale di giustizia e, prima ancora, d’opportunità politica, possa increspare il gigantesco conflitto d’interessi del premier.
L’Italia, dal suo punto di vista, è nulla se messa in contrasto con le sue aziende. Del resto, per questo era entrato in politica, per salvare le sue aziende che affogavano nei debiti e rilanciarle con le buone o con le cattive, per trasformare la sua “roba” in interesse nazionale e portare l’interesse nazionale a divenire una variabile dei suoi conti privati.
Ma, come si diceva, l’importanza assoluta che la sentenza sul Lodo Mondadori offre all’attenzione dei meno acuti sta proprio nell’indicare il percorso imprenditoriale e politico attraverso il quale Berlusconi è passato da imprenditore relativamente ricco a padrone assoluto dell’Italia. Il consenso di cui gode Silvio Berlusconi, infatti, è dato anche dal controllo dei mezzi di comunicazione di massa.
Non solo le televisioni, ormai tutte sotto il suo controllo, alcune attraverso la diretta proprietà, altre con la direzione delle reti, altre ancora tramite la raccolta pubblicitaria. Lo stesso vale per i giornali quotidiani e per le riviste settimanali a larga diffusione, per le case editrici e per le stesse radio, alcune di sua proprietà e altre controllate tramite la pubblicità.
In sostanza, Berlusconi controlla a suo piacimento il mercato della circolazione delle idee ed esalta o minimizza, secondo le sue convenienze, i fatti che lo riguardano. Insomma, quasi tutto ciò che si vede, si sente e si legge è sotto il suo controllo: quindi, tutto ciò che serve a intrattenere, a informare e a formare, risponde alla voce e agli interessi del padrone. E per i giornalisti che volessero tenere la testa alta, almeno quelli che non lavorano in realtà circoscritte, quali sarebbero gli spazi editoriali a disposizione dove poter lavorare se non quelli che le spire del Biscione offrono?
La sentenza del lodo Mondadori ha ora messo nero su bianco quanto già tutti sapevano: la vicenda personale di Berlusconi è una delle pagine più torbide della storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Ad eccezione della legalità, nulla è stato risparmiato. Nessuna sua iniziativa, imprenditoriale, politica e personale, ha saputo dipanarsi senza violare ogni tipo di legge. E la sintesi della sua stagione politica é risultata essere, in sostanza, la difesa di quanto fatto da imprenditore prima e da politico poi, la crescita delle sue aziende, la pretesa d'immunità totale.
Ma il paese non può più essere tenuto in pugno da un aspirante sultano che tutto compra e tutto vende nelle forme e nei modi che sappiamo. Perché questa è la sua vera quintessenza che emerge tratteggiata dalla sentenza sul Lodo Mondadori: la sua “roba” e il suo denaro sono la ragione della sua vita. Incapace di sedurre, acquista. Incapace di essere, si dispera per avere. L’uomo qualunque ha il terrore di diventare uno qualunque.
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di Fabrizio Casari
La manovra annunciata dal governo è stata variamente commentata, ma di giudizi lusinghieri non se ne sono ascoltati, se non da parte di Tremonti stesso, cui piace auto elogiarsi in ogni occasione. Le critiche, invece, arrivano da più fronti, alcuni decisamente lontani dagli altri. Non va bene infatti per il PD, i sindacati e le opposizioni tutte e, da tutt’altro pulpito, non va bene nemmeno per le agenzie di rating come Standard & Poor’s, che hanno tra l’altro commentato negativamente le misure a Borsa aperta, incidendo così sul differenziale tra i titoli di Stato italiani e tedeschi. La Consob ha ritenuto - giustamente - di dover convocare gli istituti che si erano espressi a contrattazioni ancora aperte, ma il giudizio negativo anche se ritardato di qualche ora, non cambierà quello successivo dei mercati.
Ora, se il giudizio negativo di opposizione e sindacati potrebbe risultare scontato, visto che proviene da chi ritiene che ben altra dovrebbe essere stata la manovra, per tempi, importi e contenuti, quello delle agenzie di rating appare decisamente più pesante. Non solo perché più direttamente in grado d’ìnfluenzare i mercati, ma proprio perché la manovra è stata decisa (dopo che per mesi il governo aveva negato ce ne fosse la necessità) in vista del giudizio di declassamento del debito che si sapeva sarebbe giunto come una condanna all’inizio dell’autunno. Cercare di evitare il giudizio anticipando la manovra è divenuto un rimedio che ha esacerbato il male. Doppio fallimento, quindi, per Tremonti e i suoi (sempre meno, va detto) laudatores.
La manovra contiene, nel suo complesso, un disegno politico ed economico che è da rifiutare in toto. In primo luogo spalma su tre anni i suoi interventi, con la scusa che il pareggio viene richiesto dalla Ue per il 2014. Il giochino è quindi quello di allocare la parte a minor impatto sociale sull’esercizio corrente 2011, per scatenare invece la quota maggiore delle misure antipopolari sui prossimi due anni, quando cioè Berlusconi e il suo governo saranno solo un triste ricordo.
In secondo luogo segue le orme delle manovre fin qui seguite nei diciassette anni di berlusconismo, che hanno portato la situazione economica e sociale dell’Italia al bordo dell’abisso. In questo senso, la manovra annunciata ha solo il pregio della coerenza con i disastri precedenti, visto che è in linea con le politiche economiche fin qui seguite dal governo Berlusconi.
Coerente quindi con una logica di tagli orizzontali, indiscriminati; nessun discernimento su dove e come tagliare, su quali settori considerare strategici e quali invece secondari e, soprattutto, sul dove sarebbe necessario tagliare e dove, invece, si dovrebbe mantenere o addirittura incrementare la spesa.
Le forbici così, in luogo d’essere impugnate come un bisturi, hanno assunto la forma di un machete. Tagliare per fare cassa, questo l’obiettivo; ma la cassa è subito, mentre le ripercussioni sociali dei tagli si scaricheranno sui prossimi governi. Tagli (peraltro già criticati anche dall’ex-governatore Draghi) che hanno già schiantato l’Italia e, soprattutto, le tasche degli italiani.
Se l’obiettivo dichiarato del governo era la riduzione della pressione fiscale, questa non è arrivata, anzi; e se la mannaia sui conti pubblici doveva servire alla riduzione del debito, è bene ricordare che la macelleria sociale di Tremonti non ha certo centrato l’obiettivo; anzi ha raggiunto l’infausto risultato di portare il debito al 120 per cento del Pil.
Nella manovra non c’è nessuna misura di sostegno allo sviluppo, nessuna risorsa per la crescita: solo tagli al welfare e ai diritti sociali acquisiti (come la rivalutazione delle pensioni). Riduzione del personale nell’istruzione e nella sanità, ma nessuna patrimoniale. E nessuna abolizione dei capitoli di spesa riguardanti le cosiddette “grandi opere” che, dal Ponte sullo Stretto a la Tav in Val di Susa, rappresentano una follia concettuale, un disastro imprenditoriale ed un massacro ambientale i cui costi continueranno a ricadere sui contribuenti tutti a vantaggio di qualche impresa o di qualche cricca.
Nella manovra di contenimento della spesa pubblica non c’è nessuna riduzione delle spese militari quali quelle determinate dalla presenza in Iraq e Afghanistan e dall’aggressione alla Libia, per non parlare dei fondi faraonici previsti per il nuovo cacciabombardiere; non c’è nessuna abolizione dei finanziamenti pubblici alla scuola privata, ma ulteriore taglio per gli insegnanti di sostegno e ulteriore dequalificazione per la scuola pubblica.
Nessuna misura per incentivare all’assunzione di personale le aziende né, tantomeno, nessun passo verso il superamento della famigerata Legge 30, che sta finendo di distruggere l’idea stessa del lavoro nel nostro paese. L’aumento ulteriore dei disoccupati (che pure viene conteggiato decisamente per difetto) denuncia quello che tutti vedono: la cosiddettà flessibilità è solo in uscita e la precarietà assoluta è la nuova cifra del lavoro, la prospettiva più concreta per le nuove generazioni.
Gli Enti Locali, già penalizzati dalla contrazione violenta dei versamenti dallo Stato centrale, hanno dovuto prima sopportare la mazzata dell’abolizione dell’Ici - voluta dal cavaliere di Arcore per vincere le elezioni - ed ora, con il finto federalismo fiscale, si trovano ancor più con l’acqua alla gola e con la necessità d’inventare nuove forme di prelievo per tenere in vita le casse comunali. Il risultato di ciò è che l’Italia ha oggi servizi peggiori e più cari, imposte e debito locale più alto e disuguaglianze cresciute.
E’ insomma il darwinismo sociale la cifra ideologica della manovra, che è inutile, socialmente costosa e non in grado di produrre nemmeno una parte dei risultati attesi. E che si accanisce in particolare sui ceti medi, considerati il terreno buono per la spremitura delle ultime risorse. Lavoratori dipendenti e pensionati hanno infatti sopportato il maggior peso dei tagli del governo (circa 80 miliardi di euro negli ultimi anni).
Il blocco sociale berlusconiano vede la sega elettrica che taglia la zolla dove é poggiato e le conseguenze elettorali non tarderanno a evidenziare l’abbandono definitivo delle sirene della cosiddetta “rivoluzione liberale”. Ma il costo sociale, ripetiamo, è destinato a ricadere, per la quota maggiore, sui governi che verranno.
Da Bruxelles s’invoca rigore sui conti e rientro progressivo dell’esposizione debitoria, ma alcuni dei paesi più importanti della Ue hanno già varato misure per la ripresa economica, che hanno prodotto risultati più che positivi. In Italia, invece, la ripresa economica non pare essere tema all’ordine del giorno.
Per ora Tremonti si accontenta di prendere le forbici e trasformarle in politica finanziaria. Il suo problema è salvare il governo e la sua personale immagine, non il Paese. Si conferma così il rifiuto del governo di rilanciare politiche industriali a sostegno dell’occupazione che riaprano la strada alla contribuzione previdenziale da un lato e ai consumi dall’altro, fondamentali per una spirale virtuosa di ripresa economica.
Senza crescita e senza lavoro, peraltro, oltre a quelle delle famiglie si deprimono ulteriormente anche le casse dello Stato. E’ invece solo la crescita economica che, insieme alla buona amministrazione, può ridurre nel medio-lungo periodo il deficit pubblico, come la storia insegna.
Ma il dogma resta uno: tagliare, tagliare e ancora tagliare. Il rigore dei conti (apparente, perché la spesa corrente è cresciuta) prevale su qualunque ipotesi di crescita e sostegno alla ripresa economica. Ma anche un ragioniere di terza classe sa che il riequilibrio dei conti, la riduzione (per quanto progressiva) del debito e il risanamento più generale dei conti pubblici italiani ha dimensioni tali per le quali non è nemmeno ipotizzabile un riequilibrio solo riducendo le uscite.
Sono le entrate che non funzionano, a cominciare da quelle che dovrebbero essere ovvie, evasione ed elusione fiscale in primo luogo. Il recupero di dieci miliardi di evasione fiscale nel corrente anno è stato sbeffeggiato dall’aumento di trenta miliardi complessivi dell’evasione stessa. Non lo dice l’ultimo keynesiano, ma la Banca d’Italia e la Guardia di Finanza.
Ma chi ha riempito di gioia gli evasori, regalando condoni e finte scadenze di emersione, come può essere lo stesso che oggi li inchioda cominciando dalla patrimoniale e con una tassazione adeguata sulle rendite finanziarie di stampo europeo? Riportare i conti in ordine é possibile solo con il rilancio del sistema Italia: rilanciare l’occupazione ed investire sulla modernizzazione della produzione e della rete di servizi, insieme ad una nuova politica industriale e al rigore fiscale sono i passaggi inevitabili.
La premessa politica fondamentale di un progetto di risanamento è riportare l’economia al suo ruolo originario di amministrazione e di riporla nella sua collocazione naturale, cioè al servizio della crescita sociale e civile di una comunità. Serve quindi un altro progetto sociale e politico anche per costruire un altro modello economico.
Queste dovrebbero essere le ragioni per le primarie del centrosinistra: non uno scontro tra persone in cerca di leadership ma un confronto tra progetti che seppellisca definitivamente i becchini del monetarismo e, con essi, il lungo sonno della ragione che ha colto una sinistra ormai capace solo di ricordare ad ognuno ciò che non è più, ma incapace ancora di dire a tutti noi ciò che vuol’essere.
Il cammino verso questo nuovo corso, verso un vero e proprio Rinascimento delle idee e, con esse, della sinistra, è la scommessa obbligata: la spinta dovrà partire dal basso, dalla rete dei senza parola, dalle miriadi di articolazioni territoriali con le quali i senza diritti si riprendono la politica.
Questo dovrà essere l’ultimatum da inviare al ceto politico della sinistra. L’urgenza di riportare la politica in Italia è enorme. Ma o le regole del gioco prevedono come obiettivo finale un nuovo modello sociale e politico, una rinascita della democrazia, o il gioco, semplicemente, non interessa.
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di Alessandro Iacuelli
Una pesante rappresaglia. Di questo si tratta. Perché il “fortino” di Napoli ha resistito alla calata dell'orda elettorale del PDL, che in Campania ha preso Regione, Provincia di Napoli e diversi comuni, ma è mancato il capoluogo per fare il cappotto. Altro che “emergenza rifiuti”, o incapacità del Comune o dell'Asia a ripulire la città. I rifiuti a terra in questo momento sono da rimuovere, ad ogni costo, e subito. Intanto si può ragionare su piani più sensati sulla lunga distanza temporale. Ma come risolvere il problema dell'accumulo di RSU nelle strade di Napoli adesso?
La soluzione era stata trovata, con un accordo fra Prefettura, Regione, Provincia e Comune. Soluzione che avrebbe consentito di liberare Napoli dai rifiuti in 5 giorni, tramite la realizzazione di un sito di trasferimento collocato nella stessa Napoli. A questo punto è scattata la rappresaglia politica dei perdenti. Questa soluzione è naufragata, ed anche in modo poco trasparente e degno degli anni più bui della storia.
Tanto per cominciare, durante la raccolta dei rifiuti nella zona del centro storico cittadino, sono avvenuti alcuni fatti inquietanti che hanno impedito la raccolta dei rifiuti e che sono stati già segnalati alle forze dell’ordine. Come già avvenne all'inizio del 2004, e poi in altre occasioni, si è resa necessaria la vigilanza da parte della polizia verso i mezzi di raccolta. E non è certo per fatti di camorra. Semmai, per la vendetta del sistema politico-affaristico che da sempre lucra sui rifiuti solidi urbani.
La rappresaglia di chi voleva mettere le mani sull'affare di Napoli è cominciata con i dipendenti delle società che, in subappalto, gestiscono la raccolta in alcuni quartieri città. Fomentati nel modo giusto, spaventati dall'ipotesi di perdere il posto di lavoro e lo stipendio, di notte hanno impedito fisicamente la raccolta, e non certo con le buone maniere. Poi c'è l'aspetto politico. Che stavolta ha un solo colore: l'azzurro.
Non solo perché in una delle società che gestiscono la raccolta è impegnato finanziariamente un ex consigliere provinciale di Forza Italia, recentemente arrestato, ma soprattutto grazie all'opera di intralcio al nuovo piano rifiuti comunale messo in opera dal Presidente della Giunta Provinciale, Luigi Cesaro. Suo il compito, da molti mesi, di individuare il luogo dove depositare gli RSU di Napoli: non l’ha fatto. L'ha fatto invece, guarda caso, per tutti i comuni che hanno il PDL in giunta e non per gli altri.
Le tonnellate di rifiuti in più dovevano essere destinate, secondo accordi precedenti, ad altre Regioni. Pertanto fa parte della stessa rappresaglia il “veto” marcato Calderoli sull'invio di monnezza napoletana in territori esterni. Fa parte tutto dello stesso piano, marcato probabilmente Silvio Berlusconi, che all'indomani del risultato del ballottaggio napoletano aveva subito lanciato l'anatema sui napoletani, giurando di farla pagare cara. Lo sta facendo.
E' facile immaginare quanto sia fragile un sistema di rifiuti integrato. Integrato nel senso che non è controllato da una sola istituzione. Al comune spetta la raccolta dai cassonetti, ma la gestione del trasporto e dello stoccaggio, a norma di legge, è nelle mani della Provincia. Poi, spetta alla Regione decidere dove sversarli. E la Regione trova sempre dove sversare i rifiuti dei comuni guidati dal centro-destra, ma per Napoli, puntualmente, il posto non si trova. Se il posto non si trova, i camion dell'ASIA e delle società che lavorano per l'ASIA restano pieni, e il giorno dopo non possono effettuare una nuova raccolta. E il gioco della rappresaglia è fatto.
Siamo ormai oltre le 2600 tonnellate rimaste a terra, nelle strade, a ostruire passaggi. Ma il senso di responsabilità manca e si prosegue nel gioco politico del voler minare la nuova giunta comunale. Sulla pelle della gente.
Il gioco allo sfascio non termina qui. Nei giorni scorsi, è apparso su Youtube un video amatoriale in cui si vede un camion della raccolta rifiuti che, invece di raccoglierli, li spinge da un lato e addirittura riversa in strada il contenuto dei cassonetti accanto. Il video ha fatto il giro della rete, con didascalie tipo “Ecco l'ASIA come raccoglie i rifiuti”. Peccato che il camion sia della società cooperativa Lavajet, che lavora in subappalto per l'ASIA. Il presidente di Lavajet è Giancarlo Vedeo, dirigente provinciale del PDL a Savona.
Il piano di rappresaglia è chiaro: forzare la mano per giungere ad una nuova soluzione di commissariamento straordinario del ciclo dei rifiuti a Napoli e provincia. In tal modo, attraverso la Protezione Civile che risponde direttamente alla Presidenza del Consiglio, l'affare lucroso della monnezza napoletana tornerebbe “nelle mani giuste”, eliminando dai giochi una giunta comunale di un altro colore, che si oppone all'inceneritore che si vorrebbe costruire a Ponticelli, sulla cui costruzione sono pronti a metterci le mani gli imprenditori amici del cuore di quel Calderoli che blocca il decreto sull'esportazione extraregionale. E il cerchio si chiude.
Al momento di scrivere, è stato convocato un altro tavolo presso la Prefettura di Napoli, presenti il presidente della Giunta Stefano Caldoro, con l’assessore all’Ambiente Giovanni Romano, il vicesindaco di Napoli Tommaso Sodano, l’assessore all’Ambiente della Provincia Giacomo Caliendo e rappresentanti di altre province campane. L'accordo raggiunto è che Napoli potrà portare i rifiuti in altre province della stessa Campania.
Potrebbe funzionare, sulla breve durata ovviamente, se non che nel frattempo sono entrati in agitazione proprio i lavoratori di Lavajet, per cui anche per oggi c'è il rischio che i rifiuti non possano neanche essere raccolti, anche facendo fare gli straordinari a uomini e mezzi dell'ASIA. Quando poi Lavajet riprenderà a lavorare, allora assisteremo al prossimo bastone tra le ruote. Marcato ancora una volta PDL.