di Fabrizio Casari

Declassamento del debito, disoccupazione alle stelle, welfare in crisi nera, prospettive future più in linea con la Grecia che con la Germania, governo scollato dal Paese, istituzioni ferite. Ma che volete che sia per Bossi? La ricetta per la ripresa del Paese che arriva dagli adoratori dell’ampolla del Po è semplicissima: riforma fiscale, riduzione dei fondi al sud e quattro ministeri al nord, magari a Monza e Cusano Milanino e il governo navigherà sereno.

Che la rotta porti l’Italia verso il naufragio appare un dettaglio. Le diverse culture politiche italiane direbbero che servirebbero Quintino Sella o Cavour, De Gasperi e Togliatti, ma la Lega pensa invece ad Alberto da Giussano. In un pratone senza storia, tra panini e ammennicoli di vario cattivo gusto é andato in onda, con padana puntualità, ma con depressione diffusa, lo show di Pontida. Il protagonista principale della kermesse, il senatur, ha posto le sue condizioni al coprotagonista, Berlusconi, che ha ricevuto l’avviso di sfratto in contumacia.

Perché di sfratto si tratta. Quando, in spregio ad ogni logica e comune buon senso si propongono percorsi impraticabili ed inutili, lo si fa esclusivamente per farsi dire di no ed addossare all’interlocutore la responsabilità della fine dell’alleanza. Perché la Lega è lacerata in due: da un lato si è innamorata dei Ministeri e della rete di potere economico che il Carroccio ha costruito nel tessuto del paese, dall’altro ha capito benissimo che i suoi stessi elettori non sono disposti a fornire ulteriore consenso a quello che ritengono - a torto o a ragione - uno snaturamento del Carroccio stesso.

Ma Pontida è una kermesse per i gonzi, con elmi cornuti e campanelle sul petto, spade medievali e ampolle di fiume inquinato. Nessuno, nel vertice di Via Bellerio, pensa davvero che sarà possibile percorrere una strada enormemente costosa, assolutamente inutile e, tutto sommato, da nessun leghista richiesta. Al popolo del Po non interessa affatto avere ministeri al nord, interessa invece il perseguimento di due strade: quella della xenofobia sociale ed economica e l’abbattimento delle aliquote. Entrambe avventure non proponibili sia per l’economia del paese e per la tenuta del suo collante nazionale, sia per l’impraticabilità delle misure nello scenario europeo di cui, comunque, l’Italia fa parte.

D’altra parte, lo stesso tentativo di isolare economicamente il sud del Paese, già martoriato da Tremonti, per Berlusconi rappresenterebbe solo la scelta di decidere come uscire di scena: i voti al sud pesano moltissimo e inclinare ulteriormente il Pdl verso le attese leghiste trasformerebbe il partito del predellino verso una mega-formazione locale, senza nessuna possibilità di divenire maggioranza politica in tutta Italia.

E allora? Che senso ha fare proposte irricevibili se non quello di sentirsi opporre un rifiuto e, da qui, considerare esaurita l’alleanza politica? La questione vera dei ministeri risiede solo nel riconoscimento della centralità del ruolo della Lega nel governo, in alternativa al peso politico che gli ex-Dc e gli Scilipoti di turno hanno assunto in un Parlamento che, per ragioni di numeri, ha eletto a ruolo decisivo i peones, gli avanzi di ogni schieramento variamente allocati.

Le urla sguaiate e i deliri offerti sono stati vari. Quello di Maroni Presidente del Consiglio è stato uno dei più gettonati e lui, per non farsi trovare impreparato all’appuntamento con la sobrietà istituzionale, dimentico d’essere ancora ministro dell’Interno, si è lanciato in un attacco contro la magistratura. Tremonti pare essere passato di moda, poco si attanaglia al profilo del liberatore del nord.

Ma questo è folklore, pedaggio obbligato per ridurre lo iato tra promesse e fatti e non è certo da Pontida che sono venute le indicazioni; al contrario, si è scelto un raduno per comunicare al partito il bisogno di serrare i ranghi, per far capire che la disaffezione della base leghista (manifestatasi ampiamente in tutti i media del Carroccio) è condivisa anche dal vertice.

Il raduno, rito di celodurismo in favore di telecamere, ha un duplice obiettivo: dimostrare al cavaliere che la Lega non può fare a meno di ascoltare i suoi elettori e avvisare il popolo padano che l’avventura con il Pdl volge al termine. Al popolo delle valli si ripropone Braveheart e il fazzoletto verde, facendo mostra di essere pronti a rinunciare al governo: dunque, serrare le fila e prepararsi alla fine del regime cercando di limitare al minimo i danni e cominciare a riciclarsi per le prossime elezioni.

Una scelta, quella della Lega, comunque non semplice ma in qualche modo inevitabile; perché il legame personale tra Bossi e Berlusconi, sebbene ancora solido, è il paradigma fondamentale della crisi di consensi. Se infatti il Pdl ha consentito la sedimentazione del Carroccio nel reticolo dei poteri nazionali, proprio quel legame politico appare ormai troppo legato solo al rapporto personale tra i due leader. E Bossi, che è animale politico di razza, ha ben chiaro come, per la prima volta, rischi di precipitare insieme al cavaliere.

Non certo perché il Senatur tema rivolte interne: troppo forte è il legame tra il capo e le folle leghiste, ma la novità di queste ultime settimane è che questo non è più sufficiente. Seppure infatti la base leghista non si sogna (ancora) di mettere in discussione la leadership di Bossi, la ben più ampia platea degli elettori hanno già deciso di sfiduciarlo. Prova ne sia il voto amministrativo e, soprattutto, l’affluenza dell’elettorato leghista al voto referendario, in aperta sconfessione delle indicazioni all’astensione che Bossi, come Berlusconi, avevano lanciato.

Si propone, dunque, una variante nello schema della crisi del ’94. Che avverrà attraverso la disponibilità alla riforma elettorale o attraverso un voto di sfiducia, dipenderà dai tempi che a Via Bellerio si sceglieranno. La Lega, nel timore di essere berlusconizzata, chiede al Pdl di assegnare alla Lega la centralità politica dell’alleanza. Chiede, insomma, la cessione del timone. Ma la barca fa acqua da tutte le parti. Lo stesso Alemanno s’incarica di aprire la guerra interna al Pdl ricordando alla Lega d’essere minoranza della minoranza.

E la falla s’allarga anche a poppa, visto che i residui democristiani, da Giovanardi e Rotondi, nel corso di convegni non certo affollati, hanno lanciato a loro volta ultimatum al cavaliere, a questo punto circondato. A Berlusconi, insomma, chiedono tutti una cosa sola: farsi da parte ma lasciando in campo le sue armate mediatiche e finanziarie, senza le quali il Pdl diventerebbe poca e inutile cosa. Ma si può de-berlusconizzare il Pdl? Si può pensare ad un berlusconismo senza Berlusconi? Flaiano può esserci d’aiuto: la situazione è grave, ma non è seria.

 

di Alessandro Iacuelli

La differenza fondamentale tra quel che deve affrontare la nuova Giunta napoletana e i compiti di qualsiasi altra amministrazione sta tutta lì: nella monnezza. E la partita è su diversi fronti. Forse per questo motivo, per la prima volta dopo tempo immemore, l'importante carica di vice sindaco non viene assegnata ad un urbanista, solitamente lo stesso assessore all'Urbanistica, ma ad un esperto di politica dei rifiuti.

E' quanto deve aver probabilmente pensato il neo sindaco De Magistris, quando ha fatto cadere la sua scelta, nonostante le pressioni provenienti dai partiti che hanno sostenuto la sua vittoria, su Tommaso Sodano. Un segnale forte: un esponente storico di Rifondazione Comunista, con alle spalle una lunga esperienza; prima senatore, membro della commissione bicamerale d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti, poi presidente, nella scorsa legislatura, della commissione Ambiente del Senato. Ma anche una storia di battaglie, di denunce, dall'inceneritore di Acerra al disastro industriale marchiato FIBE, e tra i feriti degli scontri di quel 29 agosto, proprio ad Acerra.

Le altre novità della giunta riguardano la presenza di esponenti provenienti dalla società civile e non dagli apparati di partito, il che rende più interessante l'osservare quel che succederà nei prossimi mesi. Da Alberto Lucarelli, giurista, già componente della Commissione Rodotà per la riforma del regime civilistico della proprietà pubblica e per la difesa dei beni comuni, ma noto soprattutto per essere stato il redattore dei quesiti referendari contro la privatizzazione dell’acqua, fino a Antonella Di Nocera, forse tra i maggiori esperti di cinema in Italia. Per lei c'è da affrontare la questione cultura e turismo, quel turismo che ha perso molto in questi anni, sempre a causa della monnezza.

Non sono mancate le polemiche, ovviamente. Principalmente per la nomina di Giuseppe Narducci, magistrato, pubblico ministero, l'uomo che ha indagato su Nicola Cosentino e il clan dei casalesi, oltre che su Luciano Moggi nell'affare Calciopoli. Le polemiche però nascono da serie d’inchieste e procedimenti giudiziari contro i movimenti napoletani, in particolare da quella in merito alle manifestazioni contro la discarica di Chiaiano, dove ad essere imputati sono attivisti impegnati anche nelle liste civiche che hanno appoggiato l'elezione a sindaco di De Magistris. Questo senza contare le polemiche con l'Associazione Nazionale Magistrati, per tutti i problemi di compatibilità che possono esserci tra l'essere assessore e il rimanere magistrato. L'ANM ha definito "inopportuna" la discesa in campo del PM e lo stesso Presidente Napolitano si è fatto interprete delle perplessità della categoria.

Gli altri nomi, sono tutti nomi di spicco della città, elementi importanti ed esperti, compreso quel Riccardo Realfonzo, già assessore per un breve periodo in una delle giunte Iervolino, che riprende tra le mani il delicato assessorato al Bilancio, altro nodo importante da sciogliere, assieme alla programmazione economica ed alle società partecipate. Per il comune di Napoli sono ben 18 le partecipate che, in altre città, sono una risorsa finanziaria poiché forniscono entrate all'Amministrazione, mentre a Napoli sono voci di spesa simili a pozzi senza fondo. Il compito sarà arduo e tra le prime necessità c'è quella di snellire i consigli di amministrazione, ridurne i numeri ed i costi e magari assegnare ai consiglieri anche delle deleghe di gestione delle aziende, altrimenti i costi saranno sempre troppo alti, anche per una città di quasi un milione di abitanti.

Tornando al problema principale, quello dei rifiuti, per De Magistris, Sodano e quelli che in qualche modo saranno coinvolti nei loro staff, ci saranno diverse "rogne" da superare. La prima è quella della gestione dell'immediato: la città non è affatto pulita, restano a terra diverse tonnellate di rifiuti, in quantità variabile ogni giorno e tra circa un mese chiuderà per esaurimento la discarica di Chiaiano; la mai sopita sfida (politica prima ancora che tecnica) con la Regione governata dal PDL, rende spesso impossibile portare da qualche parte i rifiuti raccolti.

Ricordiamo che in Campania a decidere dove consegnare, per lo smaltimento, i rifiuti raccolti, è l'"Ufficio Flussi" della Regione. E' quest’ufficio che, praticamente, "ordina" ai comuni dove portare i rifiuti raccolti dai cassonetti. Da diversi mesi, anche precedenti la campagna elettorale, puntualmente per il comune di Napoli, e per altri comuni tutti uniti dall'essere retti da giunte di colore politico diverso da quello della Regione Campania, sono sorti problemi, come l'impedimento da parte dell'Ufficio Flussi di scaricare i rifiuti, o il dirottamento verso zone "calde", come quella di Terzigno, o a volte addirittura fuori provincia.

E' la seconda rogna da affrontare, anche sul lungo periodo. Per impedire che dopo la raccolta urbana i camion dell'Asia restino colmi di sacchi e sacchetti, occorrerà gestire il dialogo politico tra la giunta arancione e la Regione di Caldoro. Argomento spinoso, che dovrà assolutamente arrivare a una convergenza, se non si vuole far credere all'Italia intera che ci sia ancora un'emergenza rifiuti, visto che nei mesi scorsi il tutto è stato originato da bastoni tra le ruote messi da amministrazioni locali di diverso colore politico.

Resta il nodo dell'eliminazione di quanto è a terra nelle strade di Napoli, che può aumentare ogni giorno se non ci si sbriga. Plausibilmente l'unica soluzione d'emergenza è il trasferire, pagando profumatamente, i rifiuti di Napoli in altre provincie e in altre regioni. Eppure, quel pagare profumatamente è poca cosa, rispetto al danno del lasciare crescere ancora una volta i cumuli di rifiuti solidi urbani nelle strade di Napoli. Anzi, questo non deve succedere assolutamente.

Ovviamente non basta affatto il mandare rifiuti fuori regione. Può andare bene per pochi, pochissimi giorni. Dopodichè, senza un serio piano d’incremento (anche lento purché costante) della raccolta differenziata, anche questo metodo non andrà più bene. Se non si porteranno alla luce dei buoni risultati come aumento della differenziazione, non è detto che in un futuro anche breve le altre regioni possano essere ancora disposte a "tamponare" la Campania e Napoli in questo modo.

Per aumentare la raccolta differenziata non basterà pianificare i metodi di raccolta, convincere la popolazione e tutte le cose scontate che vengono dette di solito. Sarà invece necessario mettere a punto dei veri e propri cicli industriali. Non la vecchia filiera dei rifiuti prevista dal vecchio piano, quella che finiva in un inceneritore, come quello di Acerra o quello che si vorrebbe fare a Ponticelli, ma una filiera industriale del riuso e del riciclo con aziende - filiere che peraltro già esistono - pronte a prendere i materiali differenziati e ad inserirli come materie prime seconde nei loro processi industriali.

E queste filiere devono già essere pronte alla partenza, quella vera, della raccolta differenziata. In caso contrario, anche con percentuali di raccolta differenziata elevatissime, rimarrebbero pieni i depositi temporanei, senza un reale commercio a valle. In tal caso, la raccolta differenziata è - e rimane - quanto di più inutile possa esistere. A questo, in aggiunta, dovrà essere affiancato forzatamente almeno un impianto pubblico per il trattamento dell'umido. Poi con calma si discuterà se debba essere di compostaggio, di frazione organica stabilizzata o d’altro, ma è importante che si agisca per individuare non solo le risorse economiche per realizzarlo, ma anche il luogo dove farlo, il suolo. E al più presto.

Anche su questo argomento ci sarà da dare battaglia con Regione e Provincia. Entrambe di centrodestra, entrambe intenzionate a bruciare, in senso letterale, tonnellate non di monnezza ma di denaro pubblico, pur di realizzare l'inceneritore a Ponticelli. Per loro, l'unica filiera industriale possibile è quella che unifica secco (soprattutto plastiche) e umido, per terminare rapidamente nell'inceneritore. Di conseguenza, la raccolta differenziata, un qualunque ciclo più "conveniente" sia economicamente che ambientalmente, un qualunque ciclo più "pulito", viene visto come una pericolosa concorrenza da sconfiggere ed eliminare. Tutte sfide tanto importanti quanto interessanti, che attendono già da ora De Magistris, Sodano, e il resto della Giunta. Sfide che qui su Altrenotizie seguiremo con interesse e attenzione costanti.

di Mariavittoria Orsolato

A Brunetta i giovani non piacciono, men che meno se questi sono precari. “Questa è la peggiore Italia”, così li ha apostrofati lo scorso martedì quando, nel corso del convegno “I giovani innovatori” che si teneva a Roma, una delegazione di precari della pubblica amministrazione ha tentato di porgli qualche domanda in merito alla loro posizione. Tentato, perché non appena la ragazza si è presentata come una rappresentante della lega dei precari della p.a., il miniministro ha sdegnosamente voltato le spalle e si è incamminato verso la sua auto blu alla velocità della luce.

Com’è ovvio, i quattro minuti e mezzo di video che immortalano l’ennesima alzata di spalle istituzionale di fronte ad una delle maggiori piaghe d’Italia - il precariato appunto - ha fatto immediatamente il giro della rete e, in men che non si dica, il profilo Facebook di Brunetta è stato subissato da commenti di rimprovero e insulti da parte di migliaia di precari. Impossibile biasimarli.

Ora, se è di per sé evidente l’assurdità di un ministro che rifiuta di rispondere a quelli che a tutti gli effetti sono suoi collaboratori e sottoposti, dobbiamo dare merito a Brunetta di essere riuscito a fare anche di peggio. Per zittire a tutti quelli che - in modo sacrosanto - si sono inferociti per la sua offesa, il Ministro della Pubblica Amministrazione si è dato alla controinformazione e ieri ha postato un video online in cui rovesciava totalmente quello successo a Roma e che le telecamere hanno impietosamente ripreso. Giacca, cravatta e manine dietro la schiena, Brunetta giustifica l’infelice battuta con il fatto di essere stato insultato e preso a spintoni, cosa assolutamente falsa giacché l’impropero è stato pronunciato esattamente due secondi dopo la sua plateale discesa dal palco, quando in sala il silenzio era ancora assoluto.

Si scaglia poi contro gli attivisti definendoli “squadristi” che “usano la condizione difficile di tanti giovani per giustificare fallimenti personali” e non hanno “niente di meglio da fare che organizzare agguati mediatici di questo tipo, magari con giornali compiacenti che pullulano di questi precari”. Perciò, conclude il miniministro con un’antifrasi degna del miglior Joyce “non bevete… quello che vedete”.

Semplicemente fantastico: come a dire non credete a quello che avete visto, date semplicemente retta a me! D’altra parte, chi lo ha visto in televisione, può rendersi conto del macchiettismo involontario del soggetto: petulante, incapace di dimostrare cosa ha studiato, invita tutti a studiare.

Col suo intervento di ieri Brunetta ha dato modo a tutti di vedere come l’Italia peggiore sia in realtà quella che siede nel Consiglio dei Ministri e nei vari Cda sparsi a macchia di leopardo sulla penisola: un’Italietta che vive da sostanziale parassita sul sudore e gli stenti di quelli che in continuazione insulta, svilisce, umilia.

Questa “peggio gioventù”, tanto deprecata dalle alte sfere istituzionali e imprenditoriali, è assolutamente funzionale - anzi, indispensabile - a mantenere alti i profitti e i lifestyle di queste ultime e l’atteggiamento di chiusura che in pubblico e privato dimostrano verso le istanze dei precari, non è altro che sputare nel piatto in cui si mangia, anzi ci si abbuffa, visto che percepisce un super stipendio da ministro che, guarda caso, è pagato dalla collettività.

Perché, in questo Paese al contrario, sono proprio i “bamboccioni, fannulloni, scalda sedie e scioperati” a mandare avanti la baracca. E lo fanno con 1000 euro al mese - quando va grassa - senza la possibilità di ammalarsi e soprattutto senza avere la sicurezza di quella stessa pensione che ora stanno pagando ai loro padri e ai loro nonni. Con la rivoluzione dei contratti lavorativi voluta dalle leggi Treu e Maroni (impropriamente chiamata legge Biagi), siamo stati spettatori imbelli del rovesciamento delle convenzioni sociali che vogliono la condizione dei figli migliore di quella dei padri.

Ma per Brunetta, ospite martedì sera ad "Otto e mezzo", i nostri giovani iperspecializzati con lauree e master postuniversitari non dovrebbero protestare per la loro condizione di sottooccupazione e palese sfruttamento, ma piuttosto “andare a scaricare le cassette ai mercati”. Un altro affondo che lo sterminato popolo dei precari non ha gradito, soprattutto se si pensa da che pulpito viene questa insulsa predica.

Dimentico del suo passato, il Ministro Brunetta - che nel 2008 ha bloccato la stabilizzazione dei ricercatori precari degli enti di ricerca dando il colpo di grazia ad una generazione di menti brillanti - nel 1981 è diventato professore universitario proprio grazie ad una sanatoria con la quale tutti quelli che, a vario titolo, erano precari nelle università, sono stati, assunti come professori.

Ma c’è di più. Nella sua trentennale attività di professore universitario “l’instancabile” Brunetta, acerrimo nemico di chi sta con le mani in mano, ha pubblicato solo due lavori, uno nel 1993 e uno nel 2001, e in entrambi i casi la qualità dei saggi era scadente.

A dirlo non siamo noi ma il sito ISI Web of Science, un enorme database in cui sono catalogate tutte le pubblicazioni universitarie con tanto di numero di citazioni e parametri di impatto della propria attività scientifica. Com’è ovvio, i lavori di Brunetta non hanno avuto alcun seguito né riconoscimento sia a livello nazionale che internazionale. Non gode di nessun peso nel Consiglio dei Ministri, figuriamoci nella comunità scientifica.

Se quella che martedì ha contestato Brunetta è l’Italia peggiore allora dobbiamo prendere atto di vivere in una dimensione parallela in cui il merito e le competenze dei giovani sono un’offesa alla mediocrità e all’incapacità di chi, nella realtà dei fatti, decide delle loro vite. Allo stato attuale delle cose, di certo c’è solo che se i precari decidessero di incrociare le braccia e smettessero di fare gli schiavi per uno stipendio da terzo mondo, il Paese intero sarebbe in ginocchio. Dicono che il vento stia cambiando, speriamo solo che amplifichi la voce di questi giovani “senza voce”.

 

di Fabrizio Casari

Quattro SI messi insieme fanno un NO enorme. Poche volte, in passato, un quorum aveva così ben rappresentato un giudizio popolare complessivo sul governo, le sue politiche economiche e sociali, il suo conflitto con la Costituzione, prima e oltre che quello con le altre istituzioni dello Stato. Il quorum, atteso e temuto, è arrivato come uno tsunami sui flutti del governo che ha tentato ogni mossa, anche la più furbetta, anche la più indegna, per evitarlo. Non sono servite a nient’altro che a determinare l’entità e il peso della sconfitta dell’Esecutivo. Ventisei milioni di italiani hanno dato inizio alle pratiche di divorzio tra la destra e il Paese.

Non è bastato il silenzio stampa da parte dei grandi media, siano essi privati o pubblici al servizio di un privato. Non è stato sufficiente nemmeno cercare di disincentivare l’affluenza alle urne con inviti diretti a non votare, spalmati in lungo e largo dalle dichiarazioni del Premier fino alle previsioni del tempo del Tg minzoliniano. E nemmeno l’ultimo, disperato tentativo d’includere gli italiani residenti all’estero con la speranza di aumentare ulteriormente la soglia del quorum ha avuto successo.

Il popolo italiano, attivatosi sui territori, nei posti di lavoro, sulla rete web, è sceso in campo nel vero senso della parola, riscoprendo il gusto e il piacere della mobilitazione, dello schierarsi contro un pacchetto di misure che sono state considerate inique, sbagliate, pericolose per tutti e convenienti solo per lobbies e cricche che perseguono i loro interessi in spregio a quelli collettivi.

Il risultato straordinario ottenuto pone alcune riflessioni, che riguardano tutto lo schieramento politico, sia governo che opposizione. Il Governo può solo ammettere la sconfitta: suoi erano i provvedimenti sottoposti al giudizio popolare, sue le scelte politiche che li avevano proposti, sua l’ideologia che li aveva ispirati. E, ancor più, indicano con chiarezza che il “tocco magico” del Premier è ormai un pallido ricordo.

Berlusconi, infatti, appare ora come un re Mida alla rovescia, tale è ormai il sentimento generale di ripudio che il popolo italiano gli tributa ad ogni apertura di urne, siano esse destinate al voto amministrativo o a quello referendario. Già il cavaliere aveva miseramente perso il referendum sulle modifiche costituzionali e quelli di ieri sono voti che raccontano, definitivamente, l’irrilevanza delle indicazioni del capo del governo sul tessuto del Paese.

Ha invitato a non votare e gli italiani sono corsi a votare. Ha chiesto di sostenerlo nella sua guerra alla Costituzione - e, di conserva, alla magistratura - e gli italiani gli hanno risposto che sono dalla parte della Carta e dei doveri che essa impone a tutti, uomini di Stato in primo luogo. Impossibile non leggere una batosta per il Governo e impossibile anche non vedere il tramonto di Berlusconi che del governo è Alfa e Omega.

Ha fatto molti danni e molti ancora può farne, ma nessuna proposta che giunge da Berlusconi ha ormai un quoziente di gradimento sufficiente a proporlo come guida politica del Paese e, forse, dello stesso PDL. Il Paese, come ha giustamente commentato Bersani, ha divorziato da Berlusconi. Il Premier non rappresenta più la maggioranza, non incarna più il senso comune degli italiani.

Ma i messaggi arrivano chiari anche all’opposizione, in particolare al PD, che ai referendum non aveva creduto sin dall’inizio, nel timore che il mancato raggiungimento del quorum potesse produrre una vittoria di Berlusconi di cui davvero non c’era bisogno. Ma, soprattutto, la lezione che il centrosinistra deve trarre da questa battaglia vinta è che, nonostante 17 anni di berlusconismo, il tessuto democratico di questo paese tiene. E non solo quello che si manifesta nelle istituzioni che resistono ai golpe striscianti della maggioranza, ma quello che vive nel cuore della società italiana, che al momento buono sa riscoprire il valore determinante della sua capacità di mobilitazione e, quindi, della sua capacità di determinare una nuova fase politica.

Associazioni di ogni tipo, articolate su tutto il territorio, organizzazioni sociali, gruppi d’iniziativa e forze politiche, che in questi lunghissimi e difficilissimi anni hanno lavorato sul territorio, nelle scuole, nei posti di lavoro, nella comunicazione online, in condizioni di cattività, senza risorse se non quelle provenienti dalla loro volontà di non mollare, hanno costituito il collante fondamentale che, insieme alla forza elettorale dei partiti d’opposizione, ha creato i presupposti prima politici, poi numerici, per proporre la sconfitta del Governo. Per ribaltare, insomma, i rapporti di forza elettorali.

Ora, senza voler togliere importanza agli aspetti tattici dello schieramento antiberlusconiano, senza voler ridurre il peso preponderante che una nuova legge elettorale potrebbe avere nel decidere le prossime elezioni, si deve passare dalle schermaglie parlamentari, dai riposizionamenti più o meno settimanali, a un messaggio chiaro: la sinistra, i democratici, hanno voglia di rimettersi in gioco, di uscire dalla sbornia qualunquistica di questi ultimi 17 anni e vogliono farlo sulla base di parole d’ordine precise. La sinistra tutta, complessivamente intesa, non può essere espunta dalla costruzione dell’Italia post-berlusconiana perché, semplicemente, o la sinistra avrà voce determinante in questo processo o, semplicemente, questo processo non inizierà.

Proprio quel terreno così fertile di volontà di partecipazione politica da parte di milioni di italiani, che negli ultimi anni avevano disertato le urne ricche di personaggi troppo somiglianti tra loro, dev’essere quindi il tavolo su cui scrivere l’agenda politica dell’opposizione ed il suo programma di governo. Più che dedicarsi all’annoso (e soprattutto noioso) discettare sull’eventualità del coinvolgimento di Casini, il PD deve assumere una nuova direzione di marcia: il popolo italiano, a maggioranza, ha deciso che la destra berlusconiana è inadatta a governare. Aprire il confronto con questo popolo, permettergli di prendere la parola e contribuire a forgiare il programma politico per l’oggi e per il domani, é la base indispensabile per proporre un cambio di prospettiva politica, una nuova fase storica per questo Paese. Ce n’è un grande bisogno.

 

di Alessandro Iacuelli

Dopo il referendum del 1987, si è tornato a parlare di nucleare civile in Italia dal 21 gennaio 2005, giorno dell'approvazione di una legge apposita sul riordino del settore energetico, meglio conosciuta come "Legge Marzano". L'allora ministero delle Attività Produttive, a tale proposito, fece notare che "in teoria nulla osta perché in Italia si torni all'energia di origine nucleare, visto che i referendum del 1987 riguardavano l’eliminazione dei contributi in denaro da parte dello Stato".

Nonostante questo, la spinta verso il nucleare poteva avere un senso alla fine degli anni '80, avendo ancora l'Italia un mercato dell'energia pubblico e sotto controllo statale, impianti pronti a ripartire e staff tecnico-scientifico tra i migliori al mondo. Ma a fine anni '80, sull'onda del referendum e soprattutto sull'onda del disastro di Chernobyl, tale spinta non ci fu. Si preferì invece, anche a livello governativo, approfittare della sconfitta del nucleare per fare un altro giro di vite con la metanizzazione, convertendo (in modo peraltro costosissimo) a metano molte centrali elettriche funzionanti con altri combustibili.

Non si sta qui a sindacare se la scelta della metanizzazione sia stata giusta o meno ma, una volta presa quella strada, cambiarla completamente adesso significherebbe pagare costi che nessun investitore privato affronterebbe, scaricando quindi sul settore pubblico il compito di pagare. Vero è che il metano dobbiamo comprarlo dall'estero, ma non è certo la via nucleare quella che garantirebbe l'indipendenza energetica: oggi le competenze per riportare il nucleare in Italia non ci sono più.

Moltissimi dei progettisti e tecnici dell'epoca d'oro del nucleare italiano sono andati in pensione, senza trasmettere alle nuove generazioni di tecnici quelle competenze acquisite. Pertanto il nucleare in Italia non sarebbe certamente un "nucleare italiano", ma sarebbe realizzato con tecnologie, personale e aziende estere. Non sarebbe neanche un "nucleare pubblico", in un mercato privatizzato, dove l'unica spinta è il profitto a fine anno. Spinta al profitto che, in nome della sicurezza nucleare, dovrebbe passare assolutamente in secondo piano.

Aprire una centrale nucleare, o riattivarne una in disuso da anni, non è una cosa semplice: servono miliardi di Euro, senza contare il costo del loro mantenimento (i sistemi di sicurezza e quelli per il raffreddamento hanno un costo elevatissimo). Tutti questi soldi, se sottratti ai cittadini mediante erogazione di fondi pubblici, difficilmente andranno per benessere del Paese, nonostante la propaganda in corso: se i profitti del nucleare degli anni '60 e '70 andavano nelle casse dell'Enel (pubblica), questa volta finiranno sempre e solo nelle casse delle multinazionali dell’energia privatizzata.

Il nucleare, per certi versi, è forse peggio del petrolio e del carbone e non è affatto sostenibile e “non inquinante”: produce scorie radioattive non smaltibili (se non in migliaia di anni) che saranno sepolte nelle profondità dei mari oppure sotto milioni di metri cubi di cemento. I punti cardine sono quindi: finanziamenti ed entità degli investimenti necessari, contrarietà delle popolazioni interessate, stato delle competenze, sicurezza, smaltimento dei rifiuti. Su ciascuno di questi punti in Italia si soffre di decenni di arretratezza e di stasi.

Accusiamo un ritardo nello sviluppo di validi sistemi alternativi, prima di tutto il solare e l'eolico, validi strumenti che potrebbero risolvere diversi problemi, se si investisse in ricerca e sviluppo. Con gli stessi soldi da investire per tre o quattro centrali nucleari sarebbero possibili in dieci anni scoperte sul solare che ora possono apparire impensabili. Invece la strategia è di investire in centrali nucleari, che sono pur sempre delle macchine a vapore, per garantire appena il 25% del fabbisogno energetico italiano. Fra trenta anni, tra l'altro.

Tutto questo senza considerare che non abbiamo affatto risolto, ma neanche affrontato, il problema delle scorie. Quella nucleare è un'intera filiera, dalla produzione del combustibile in poi, e stiamo dando inizio alla costruzione delle centrali senza avere preparato un piano di smaltimento delle scorie di tutti gli impianti. Non solo manca ancora l'individuazione del deposito nazionale, ma anche dei centri temporanei di stoccaggio, che sono necessari. Tutto questo non viene affrontato, perché sarà un problema che diventerà cruciale tra 20 o 30 anni, che è un tempo che non interessa a nessun governo.

Quel che è certo è che in caso di ritorno al nucleare in Italia non si tratterebbe di un nucleare italiano, ma di un insieme di politiche energetiche e tecnologie importate dall'estero. Le stesse centrali verrebbero costruite da multinazionali energetiche estere e, data la natura assolutamente anomala del mercato energetico italiano (totalmente privatizzato), l'Italia diverrebbe terra di conquista da parte dei gestori stranieri proprietari delle centrali.

Che occorra una svolta nel settore energetico italiano è indubbio. Sbaglia certo ambientalismo radicale italiano, che ripete ossessivamente che i problemi d'ordine energetico derivano solo dalla necessità di far girare soldi. Il problema è reale: l'Italia ha un parco centrali basato fortemente su petrolio e metano, due combustibili che vanno reperiti all'estero, non sono rinnovabili e sono fortemente inquinanti.

Non dimentichiamo che l'Italia ha firmato il Protocollo di Kyoto, ben sapendo di non essere in grado di mantenere l'impegno, ma in ogni caso ora dovrebbe in qualche modo cercare di contenere le emissioni in atmosfera, e non saranno certo i blocchi del traffico nelle grandi città a risolvere il problema.

All'indomani del grande black-out nazionale del 28 settembre 2003, causato unicamente da una cattiva gestione dell'emergenza e dalla frammentazione del sistema energetico italiano dovuto alla privatizzazione selvaggia, si è assistito ad un coro di voci (compresa quella del Presidente della Repubblica) che senza alcuna nozione tecnico-scientifica e senza alcuna cognizione di causa hanno indicato la necessità della costruzione di nuove centrali e del ritorno al nucleare.

L'Italia di centrali ne ha abbastanza, ne ha anche troppe. Se avviene un black-out notturno è perché, essendo molte centrali ormai private e quindi in gestione a chi deve far profitto monetario, per diminuire i costi si preferisce tenerle spente di notte e si preferisce acquistare dall'estero la poca quantità di energia che serve.

In definitiva, le cose da fare nel settore energetico sarebbero altre: un ammodernamento della rete elettrica nazionale, che ha il record in Europa sia delle perdite sia degli allacciamenti abusivi, una riorganizzazione del coordinamento tra tutti i gestori dell'Energia, dalle centrali alla distribuzione.

La rete elettrica di una nazione fa parte della geografia stessa della nazione, è intessuta sul territorio, fa parte del territorio e senza di essa si ferma la nazione intera. Per questo motivo, una rete elettrica non andrebbe mai privatizzata. Cosa succederà quando sarà di proprietà privata anche il traliccio in campagna ed il cavo aereo? Non ci sarà centrale nucleare che tenga quando il proprietario privato vorrà tagliare i costi ed aumentare i profitti.

E quando quel proprietario privato, magari estero, interessato solo alla salita del proprio titolo su una borsa valori situata dall’altra parte del globo, sarà in possesso di un reattore nucleare situato sul territorio italiano? Ci saranno tutte le garanzie e gli obblighi affinché quel reattore possa essere ispezionato, per quanto riguarda la sicurezza, da parte dello Stato? E lo Stato da dove prenderà personale qualificato per tali controlli? E se saranno privatizzati anche questi controlli? Siamo sicuri di volerci fidare?


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