Politica
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Fabrizio Casari
La manovra annunciata dal governo è stata variamente commentata, ma di giudizi lusinghieri non se ne sono ascoltati, se non da parte di Tremonti stesso, cui piace auto elogiarsi in ogni occasione. Le critiche, invece, arrivano da più fronti, alcuni decisamente lontani dagli altri. Non va bene infatti per il PD, i sindacati e le opposizioni tutte e, da tutt’altro pulpito, non va bene nemmeno per le agenzie di rating come Standard & Poor’s, che hanno tra l’altro commentato negativamente le misure a Borsa aperta, incidendo così sul differenziale tra i titoli di Stato italiani e tedeschi. La Consob ha ritenuto - giustamente - di dover convocare gli istituti che si erano espressi a contrattazioni ancora aperte, ma il giudizio negativo anche se ritardato di qualche ora, non cambierà quello successivo dei mercati.
Ora, se il giudizio negativo di opposizione e sindacati potrebbe risultare scontato, visto che proviene da chi ritiene che ben altra dovrebbe essere stata la manovra, per tempi, importi e contenuti, quello delle agenzie di rating appare decisamente più pesante. Non solo perché più direttamente in grado d’ìnfluenzare i mercati, ma proprio perché la manovra è stata decisa (dopo che per mesi il governo aveva negato ce ne fosse la necessità) in vista del giudizio di declassamento del debito che si sapeva sarebbe giunto come una condanna all’inizio dell’autunno. Cercare di evitare il giudizio anticipando la manovra è divenuto un rimedio che ha esacerbato il male. Doppio fallimento, quindi, per Tremonti e i suoi (sempre meno, va detto) laudatores.
La manovra contiene, nel suo complesso, un disegno politico ed economico che è da rifiutare in toto. In primo luogo spalma su tre anni i suoi interventi, con la scusa che il pareggio viene richiesto dalla Ue per il 2014. Il giochino è quindi quello di allocare la parte a minor impatto sociale sull’esercizio corrente 2011, per scatenare invece la quota maggiore delle misure antipopolari sui prossimi due anni, quando cioè Berlusconi e il suo governo saranno solo un triste ricordo.
In secondo luogo segue le orme delle manovre fin qui seguite nei diciassette anni di berlusconismo, che hanno portato la situazione economica e sociale dell’Italia al bordo dell’abisso. In questo senso, la manovra annunciata ha solo il pregio della coerenza con i disastri precedenti, visto che è in linea con le politiche economiche fin qui seguite dal governo Berlusconi.
Coerente quindi con una logica di tagli orizzontali, indiscriminati; nessun discernimento su dove e come tagliare, su quali settori considerare strategici e quali invece secondari e, soprattutto, sul dove sarebbe necessario tagliare e dove, invece, si dovrebbe mantenere o addirittura incrementare la spesa.
Le forbici così, in luogo d’essere impugnate come un bisturi, hanno assunto la forma di un machete. Tagliare per fare cassa, questo l’obiettivo; ma la cassa è subito, mentre le ripercussioni sociali dei tagli si scaricheranno sui prossimi governi. Tagli (peraltro già criticati anche dall’ex-governatore Draghi) che hanno già schiantato l’Italia e, soprattutto, le tasche degli italiani.
Se l’obiettivo dichiarato del governo era la riduzione della pressione fiscale, questa non è arrivata, anzi; e se la mannaia sui conti pubblici doveva servire alla riduzione del debito, è bene ricordare che la macelleria sociale di Tremonti non ha certo centrato l’obiettivo; anzi ha raggiunto l’infausto risultato di portare il debito al 120 per cento del Pil.
Nella manovra non c’è nessuna misura di sostegno allo sviluppo, nessuna risorsa per la crescita: solo tagli al welfare e ai diritti sociali acquisiti (come la rivalutazione delle pensioni). Riduzione del personale nell’istruzione e nella sanità, ma nessuna patrimoniale. E nessuna abolizione dei capitoli di spesa riguardanti le cosiddette “grandi opere” che, dal Ponte sullo Stretto a la Tav in Val di Susa, rappresentano una follia concettuale, un disastro imprenditoriale ed un massacro ambientale i cui costi continueranno a ricadere sui contribuenti tutti a vantaggio di qualche impresa o di qualche cricca.
Nella manovra di contenimento della spesa pubblica non c’è nessuna riduzione delle spese militari quali quelle determinate dalla presenza in Iraq e Afghanistan e dall’aggressione alla Libia, per non parlare dei fondi faraonici previsti per il nuovo cacciabombardiere; non c’è nessuna abolizione dei finanziamenti pubblici alla scuola privata, ma ulteriore taglio per gli insegnanti di sostegno e ulteriore dequalificazione per la scuola pubblica.
Nessuna misura per incentivare all’assunzione di personale le aziende né, tantomeno, nessun passo verso il superamento della famigerata Legge 30, che sta finendo di distruggere l’idea stessa del lavoro nel nostro paese. L’aumento ulteriore dei disoccupati (che pure viene conteggiato decisamente per difetto) denuncia quello che tutti vedono: la cosiddettà flessibilità è solo in uscita e la precarietà assoluta è la nuova cifra del lavoro, la prospettiva più concreta per le nuove generazioni.
Gli Enti Locali, già penalizzati dalla contrazione violenta dei versamenti dallo Stato centrale, hanno dovuto prima sopportare la mazzata dell’abolizione dell’Ici - voluta dal cavaliere di Arcore per vincere le elezioni - ed ora, con il finto federalismo fiscale, si trovano ancor più con l’acqua alla gola e con la necessità d’inventare nuove forme di prelievo per tenere in vita le casse comunali. Il risultato di ciò è che l’Italia ha oggi servizi peggiori e più cari, imposte e debito locale più alto e disuguaglianze cresciute.
E’ insomma il darwinismo sociale la cifra ideologica della manovra, che è inutile, socialmente costosa e non in grado di produrre nemmeno una parte dei risultati attesi. E che si accanisce in particolare sui ceti medi, considerati il terreno buono per la spremitura delle ultime risorse. Lavoratori dipendenti e pensionati hanno infatti sopportato il maggior peso dei tagli del governo (circa 80 miliardi di euro negli ultimi anni).
Il blocco sociale berlusconiano vede la sega elettrica che taglia la zolla dove é poggiato e le conseguenze elettorali non tarderanno a evidenziare l’abbandono definitivo delle sirene della cosiddetta “rivoluzione liberale”. Ma il costo sociale, ripetiamo, è destinato a ricadere, per la quota maggiore, sui governi che verranno.
Da Bruxelles s’invoca rigore sui conti e rientro progressivo dell’esposizione debitoria, ma alcuni dei paesi più importanti della Ue hanno già varato misure per la ripresa economica, che hanno prodotto risultati più che positivi. In Italia, invece, la ripresa economica non pare essere tema all’ordine del giorno.
Per ora Tremonti si accontenta di prendere le forbici e trasformarle in politica finanziaria. Il suo problema è salvare il governo e la sua personale immagine, non il Paese. Si conferma così il rifiuto del governo di rilanciare politiche industriali a sostegno dell’occupazione che riaprano la strada alla contribuzione previdenziale da un lato e ai consumi dall’altro, fondamentali per una spirale virtuosa di ripresa economica.
Senza crescita e senza lavoro, peraltro, oltre a quelle delle famiglie si deprimono ulteriormente anche le casse dello Stato. E’ invece solo la crescita economica che, insieme alla buona amministrazione, può ridurre nel medio-lungo periodo il deficit pubblico, come la storia insegna.
Ma il dogma resta uno: tagliare, tagliare e ancora tagliare. Il rigore dei conti (apparente, perché la spesa corrente è cresciuta) prevale su qualunque ipotesi di crescita e sostegno alla ripresa economica. Ma anche un ragioniere di terza classe sa che il riequilibrio dei conti, la riduzione (per quanto progressiva) del debito e il risanamento più generale dei conti pubblici italiani ha dimensioni tali per le quali non è nemmeno ipotizzabile un riequilibrio solo riducendo le uscite.
Sono le entrate che non funzionano, a cominciare da quelle che dovrebbero essere ovvie, evasione ed elusione fiscale in primo luogo. Il recupero di dieci miliardi di evasione fiscale nel corrente anno è stato sbeffeggiato dall’aumento di trenta miliardi complessivi dell’evasione stessa. Non lo dice l’ultimo keynesiano, ma la Banca d’Italia e la Guardia di Finanza.
Ma chi ha riempito di gioia gli evasori, regalando condoni e finte scadenze di emersione, come può essere lo stesso che oggi li inchioda cominciando dalla patrimoniale e con una tassazione adeguata sulle rendite finanziarie di stampo europeo? Riportare i conti in ordine é possibile solo con il rilancio del sistema Italia: rilanciare l’occupazione ed investire sulla modernizzazione della produzione e della rete di servizi, insieme ad una nuova politica industriale e al rigore fiscale sono i passaggi inevitabili.
La premessa politica fondamentale di un progetto di risanamento è riportare l’economia al suo ruolo originario di amministrazione e di riporla nella sua collocazione naturale, cioè al servizio della crescita sociale e civile di una comunità. Serve quindi un altro progetto sociale e politico anche per costruire un altro modello economico.
Queste dovrebbero essere le ragioni per le primarie del centrosinistra: non uno scontro tra persone in cerca di leadership ma un confronto tra progetti che seppellisca definitivamente i becchini del monetarismo e, con essi, il lungo sonno della ragione che ha colto una sinistra ormai capace solo di ricordare ad ognuno ciò che non è più, ma incapace ancora di dire a tutti noi ciò che vuol’essere.
Il cammino verso questo nuovo corso, verso un vero e proprio Rinascimento delle idee e, con esse, della sinistra, è la scommessa obbligata: la spinta dovrà partire dal basso, dalla rete dei senza parola, dalle miriadi di articolazioni territoriali con le quali i senza diritti si riprendono la politica.
Questo dovrà essere l’ultimatum da inviare al ceto politico della sinistra. L’urgenza di riportare la politica in Italia è enorme. Ma o le regole del gioco prevedono come obiettivo finale un nuovo modello sociale e politico, una rinascita della democrazia, o il gioco, semplicemente, non interessa.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Alessandro Iacuelli
Una pesante rappresaglia. Di questo si tratta. Perché il “fortino” di Napoli ha resistito alla calata dell'orda elettorale del PDL, che in Campania ha preso Regione, Provincia di Napoli e diversi comuni, ma è mancato il capoluogo per fare il cappotto. Altro che “emergenza rifiuti”, o incapacità del Comune o dell'Asia a ripulire la città. I rifiuti a terra in questo momento sono da rimuovere, ad ogni costo, e subito. Intanto si può ragionare su piani più sensati sulla lunga distanza temporale. Ma come risolvere il problema dell'accumulo di RSU nelle strade di Napoli adesso?
La soluzione era stata trovata, con un accordo fra Prefettura, Regione, Provincia e Comune. Soluzione che avrebbe consentito di liberare Napoli dai rifiuti in 5 giorni, tramite la realizzazione di un sito di trasferimento collocato nella stessa Napoli. A questo punto è scattata la rappresaglia politica dei perdenti. Questa soluzione è naufragata, ed anche in modo poco trasparente e degno degli anni più bui della storia.
Tanto per cominciare, durante la raccolta dei rifiuti nella zona del centro storico cittadino, sono avvenuti alcuni fatti inquietanti che hanno impedito la raccolta dei rifiuti e che sono stati già segnalati alle forze dell’ordine. Come già avvenne all'inizio del 2004, e poi in altre occasioni, si è resa necessaria la vigilanza da parte della polizia verso i mezzi di raccolta. E non è certo per fatti di camorra. Semmai, per la vendetta del sistema politico-affaristico che da sempre lucra sui rifiuti solidi urbani.
La rappresaglia di chi voleva mettere le mani sull'affare di Napoli è cominciata con i dipendenti delle società che, in subappalto, gestiscono la raccolta in alcuni quartieri città. Fomentati nel modo giusto, spaventati dall'ipotesi di perdere il posto di lavoro e lo stipendio, di notte hanno impedito fisicamente la raccolta, e non certo con le buone maniere. Poi c'è l'aspetto politico. Che stavolta ha un solo colore: l'azzurro.
Non solo perché in una delle società che gestiscono la raccolta è impegnato finanziariamente un ex consigliere provinciale di Forza Italia, recentemente arrestato, ma soprattutto grazie all'opera di intralcio al nuovo piano rifiuti comunale messo in opera dal Presidente della Giunta Provinciale, Luigi Cesaro. Suo il compito, da molti mesi, di individuare il luogo dove depositare gli RSU di Napoli: non l’ha fatto. L'ha fatto invece, guarda caso, per tutti i comuni che hanno il PDL in giunta e non per gli altri.
Le tonnellate di rifiuti in più dovevano essere destinate, secondo accordi precedenti, ad altre Regioni. Pertanto fa parte della stessa rappresaglia il “veto” marcato Calderoli sull'invio di monnezza napoletana in territori esterni. Fa parte tutto dello stesso piano, marcato probabilmente Silvio Berlusconi, che all'indomani del risultato del ballottaggio napoletano aveva subito lanciato l'anatema sui napoletani, giurando di farla pagare cara. Lo sta facendo.
E' facile immaginare quanto sia fragile un sistema di rifiuti integrato. Integrato nel senso che non è controllato da una sola istituzione. Al comune spetta la raccolta dai cassonetti, ma la gestione del trasporto e dello stoccaggio, a norma di legge, è nelle mani della Provincia. Poi, spetta alla Regione decidere dove sversarli. E la Regione trova sempre dove sversare i rifiuti dei comuni guidati dal centro-destra, ma per Napoli, puntualmente, il posto non si trova. Se il posto non si trova, i camion dell'ASIA e delle società che lavorano per l'ASIA restano pieni, e il giorno dopo non possono effettuare una nuova raccolta. E il gioco della rappresaglia è fatto.
Siamo ormai oltre le 2600 tonnellate rimaste a terra, nelle strade, a ostruire passaggi. Ma il senso di responsabilità manca e si prosegue nel gioco politico del voler minare la nuova giunta comunale. Sulla pelle della gente.
Il gioco allo sfascio non termina qui. Nei giorni scorsi, è apparso su Youtube un video amatoriale in cui si vede un camion della raccolta rifiuti che, invece di raccoglierli, li spinge da un lato e addirittura riversa in strada il contenuto dei cassonetti accanto. Il video ha fatto il giro della rete, con didascalie tipo “Ecco l'ASIA come raccoglie i rifiuti”. Peccato che il camion sia della società cooperativa Lavajet, che lavora in subappalto per l'ASIA. Il presidente di Lavajet è Giancarlo Vedeo, dirigente provinciale del PDL a Savona.
Il piano di rappresaglia è chiaro: forzare la mano per giungere ad una nuova soluzione di commissariamento straordinario del ciclo dei rifiuti a Napoli e provincia. In tal modo, attraverso la Protezione Civile che risponde direttamente alla Presidenza del Consiglio, l'affare lucroso della monnezza napoletana tornerebbe “nelle mani giuste”, eliminando dai giochi una giunta comunale di un altro colore, che si oppone all'inceneritore che si vorrebbe costruire a Ponticelli, sulla cui costruzione sono pronti a metterci le mani gli imprenditori amici del cuore di quel Calderoli che blocca il decreto sull'esportazione extraregionale. E il cerchio si chiude.
Al momento di scrivere, è stato convocato un altro tavolo presso la Prefettura di Napoli, presenti il presidente della Giunta Stefano Caldoro, con l’assessore all’Ambiente Giovanni Romano, il vicesindaco di Napoli Tommaso Sodano, l’assessore all’Ambiente della Provincia Giacomo Caliendo e rappresentanti di altre province campane. L'accordo raggiunto è che Napoli potrà portare i rifiuti in altre province della stessa Campania.
Potrebbe funzionare, sulla breve durata ovviamente, se non che nel frattempo sono entrati in agitazione proprio i lavoratori di Lavajet, per cui anche per oggi c'è il rischio che i rifiuti non possano neanche essere raccolti, anche facendo fare gli straordinari a uomini e mezzi dell'ASIA. Quando poi Lavajet riprenderà a lavorare, allora assisteremo al prossimo bastone tra le ruote. Marcato ancora una volta PDL.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Fabrizio Casari
Declassamento del debito, disoccupazione alle stelle, welfare in crisi nera, prospettive future più in linea con la Grecia che con la Germania, governo scollato dal Paese, istituzioni ferite. Ma che volete che sia per Bossi? La ricetta per la ripresa del Paese che arriva dagli adoratori dell’ampolla del Po è semplicissima: riforma fiscale, riduzione dei fondi al sud e quattro ministeri al nord, magari a Monza e Cusano Milanino e il governo navigherà sereno.
Che la rotta porti l’Italia verso il naufragio appare un dettaglio. Le diverse culture politiche italiane direbbero che servirebbero Quintino Sella o Cavour, De Gasperi e Togliatti, ma la Lega pensa invece ad Alberto da Giussano. In un pratone senza storia, tra panini e ammennicoli di vario cattivo gusto é andato in onda, con padana puntualità, ma con depressione diffusa, lo show di Pontida. Il protagonista principale della kermesse, il senatur, ha posto le sue condizioni al coprotagonista, Berlusconi, che ha ricevuto l’avviso di sfratto in contumacia.
Perché di sfratto si tratta. Quando, in spregio ad ogni logica e comune buon senso si propongono percorsi impraticabili ed inutili, lo si fa esclusivamente per farsi dire di no ed addossare all’interlocutore la responsabilità della fine dell’alleanza. Perché la Lega è lacerata in due: da un lato si è innamorata dei Ministeri e della rete di potere economico che il Carroccio ha costruito nel tessuto del paese, dall’altro ha capito benissimo che i suoi stessi elettori non sono disposti a fornire ulteriore consenso a quello che ritengono - a torto o a ragione - uno snaturamento del Carroccio stesso.
Ma Pontida è una kermesse per i gonzi, con elmi cornuti e campanelle sul petto, spade medievali e ampolle di fiume inquinato. Nessuno, nel vertice di Via Bellerio, pensa davvero che sarà possibile percorrere una strada enormemente costosa, assolutamente inutile e, tutto sommato, da nessun leghista richiesta. Al popolo del Po non interessa affatto avere ministeri al nord, interessa invece il perseguimento di due strade: quella della xenofobia sociale ed economica e l’abbattimento delle aliquote. Entrambe avventure non proponibili sia per l’economia del paese e per la tenuta del suo collante nazionale, sia per l’impraticabilità delle misure nello scenario europeo di cui, comunque, l’Italia fa parte.
D’altra parte, lo stesso tentativo di isolare economicamente il sud del Paese, già martoriato da Tremonti, per Berlusconi rappresenterebbe solo la scelta di decidere come uscire di scena: i voti al sud pesano moltissimo e inclinare ulteriormente il Pdl verso le attese leghiste trasformerebbe il partito del predellino verso una mega-formazione locale, senza nessuna possibilità di divenire maggioranza politica in tutta Italia.
E allora? Che senso ha fare proposte irricevibili se non quello di sentirsi opporre un rifiuto e, da qui, considerare esaurita l’alleanza politica? La questione vera dei ministeri risiede solo nel riconoscimento della centralità del ruolo della Lega nel governo, in alternativa al peso politico che gli ex-Dc e gli Scilipoti di turno hanno assunto in un Parlamento che, per ragioni di numeri, ha eletto a ruolo decisivo i peones, gli avanzi di ogni schieramento variamente allocati.
Le urla sguaiate e i deliri offerti sono stati vari. Quello di Maroni Presidente del Consiglio è stato uno dei più gettonati e lui, per non farsi trovare impreparato all’appuntamento con la sobrietà istituzionale, dimentico d’essere ancora ministro dell’Interno, si è lanciato in un attacco contro la magistratura. Tremonti pare essere passato di moda, poco si attanaglia al profilo del liberatore del nord.
Ma questo è folklore, pedaggio obbligato per ridurre lo iato tra promesse e fatti e non è certo da Pontida che sono venute le indicazioni; al contrario, si è scelto un raduno per comunicare al partito il bisogno di serrare i ranghi, per far capire che la disaffezione della base leghista (manifestatasi ampiamente in tutti i media del Carroccio) è condivisa anche dal vertice.
Il raduno, rito di celodurismo in favore di telecamere, ha un duplice obiettivo: dimostrare al cavaliere che la Lega non può fare a meno di ascoltare i suoi elettori e avvisare il popolo padano che l’avventura con il Pdl volge al termine. Al popolo delle valli si ripropone Braveheart e il fazzoletto verde, facendo mostra di essere pronti a rinunciare al governo: dunque, serrare le fila e prepararsi alla fine del regime cercando di limitare al minimo i danni e cominciare a riciclarsi per le prossime elezioni.
Una scelta, quella della Lega, comunque non semplice ma in qualche modo inevitabile; perché il legame personale tra Bossi e Berlusconi, sebbene ancora solido, è il paradigma fondamentale della crisi di consensi. Se infatti il Pdl ha consentito la sedimentazione del Carroccio nel reticolo dei poteri nazionali, proprio quel legame politico appare ormai troppo legato solo al rapporto personale tra i due leader. E Bossi, che è animale politico di razza, ha ben chiaro come, per la prima volta, rischi di precipitare insieme al cavaliere.
Non certo perché il Senatur tema rivolte interne: troppo forte è il legame tra il capo e le folle leghiste, ma la novità di queste ultime settimane è che questo non è più sufficiente. Seppure infatti la base leghista non si sogna (ancora) di mettere in discussione la leadership di Bossi, la ben più ampia platea degli elettori hanno già deciso di sfiduciarlo. Prova ne sia il voto amministrativo e, soprattutto, l’affluenza dell’elettorato leghista al voto referendario, in aperta sconfessione delle indicazioni all’astensione che Bossi, come Berlusconi, avevano lanciato.
Si propone, dunque, una variante nello schema della crisi del ’94. Che avverrà attraverso la disponibilità alla riforma elettorale o attraverso un voto di sfiducia, dipenderà dai tempi che a Via Bellerio si sceglieranno. La Lega, nel timore di essere berlusconizzata, chiede al Pdl di assegnare alla Lega la centralità politica dell’alleanza. Chiede, insomma, la cessione del timone. Ma la barca fa acqua da tutte le parti. Lo stesso Alemanno s’incarica di aprire la guerra interna al Pdl ricordando alla Lega d’essere minoranza della minoranza.
E la falla s’allarga anche a poppa, visto che i residui democristiani, da Giovanardi e Rotondi, nel corso di convegni non certo affollati, hanno lanciato a loro volta ultimatum al cavaliere, a questo punto circondato. A Berlusconi, insomma, chiedono tutti una cosa sola: farsi da parte ma lasciando in campo le sue armate mediatiche e finanziarie, senza le quali il Pdl diventerebbe poca e inutile cosa. Ma si può de-berlusconizzare il Pdl? Si può pensare ad un berlusconismo senza Berlusconi? Flaiano può esserci d’aiuto: la situazione è grave, ma non è seria.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Alessandro Iacuelli
La differenza fondamentale tra quel che deve affrontare la nuova Giunta napoletana e i compiti di qualsiasi altra amministrazione sta tutta lì: nella monnezza. E la partita è su diversi fronti. Forse per questo motivo, per la prima volta dopo tempo immemore, l'importante carica di vice sindaco non viene assegnata ad un urbanista, solitamente lo stesso assessore all'Urbanistica, ma ad un esperto di politica dei rifiuti.
E' quanto deve aver probabilmente pensato il neo sindaco De Magistris, quando ha fatto cadere la sua scelta, nonostante le pressioni provenienti dai partiti che hanno sostenuto la sua vittoria, su Tommaso Sodano. Un segnale forte: un esponente storico di Rifondazione Comunista, con alle spalle una lunga esperienza; prima senatore, membro della commissione bicamerale d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti, poi presidente, nella scorsa legislatura, della commissione Ambiente del Senato. Ma anche una storia di battaglie, di denunce, dall'inceneritore di Acerra al disastro industriale marchiato FIBE, e tra i feriti degli scontri di quel 29 agosto, proprio ad Acerra.
Le altre novità della giunta riguardano la presenza di esponenti provenienti dalla società civile e non dagli apparati di partito, il che rende più interessante l'osservare quel che succederà nei prossimi mesi. Da Alberto Lucarelli, giurista, già componente della Commissione Rodotà per la riforma del regime civilistico della proprietà pubblica e per la difesa dei beni comuni, ma noto soprattutto per essere stato il redattore dei quesiti referendari contro la privatizzazione dell’acqua, fino a Antonella Di Nocera, forse tra i maggiori esperti di cinema in Italia. Per lei c'è da affrontare la questione cultura e turismo, quel turismo che ha perso molto in questi anni, sempre a causa della monnezza.
Non sono mancate le polemiche, ovviamente. Principalmente per la nomina di Giuseppe Narducci, magistrato, pubblico ministero, l'uomo che ha indagato su Nicola Cosentino e il clan dei casalesi, oltre che su Luciano Moggi nell'affare Calciopoli. Le polemiche però nascono da serie d’inchieste e procedimenti giudiziari contro i movimenti napoletani, in particolare da quella in merito alle manifestazioni contro la discarica di Chiaiano, dove ad essere imputati sono attivisti impegnati anche nelle liste civiche che hanno appoggiato l'elezione a sindaco di De Magistris. Questo senza contare le polemiche con l'Associazione Nazionale Magistrati, per tutti i problemi di compatibilità che possono esserci tra l'essere assessore e il rimanere magistrato. L'ANM ha definito "inopportuna" la discesa in campo del PM e lo stesso Presidente Napolitano si è fatto interprete delle perplessità della categoria.
Gli altri nomi, sono tutti nomi di spicco della città, elementi importanti ed esperti, compreso quel Riccardo Realfonzo, già assessore per un breve periodo in una delle giunte Iervolino, che riprende tra le mani il delicato assessorato al Bilancio, altro nodo importante da sciogliere, assieme alla programmazione economica ed alle società partecipate. Per il comune di Napoli sono ben 18 le partecipate che, in altre città, sono una risorsa finanziaria poiché forniscono entrate all'Amministrazione, mentre a Napoli sono voci di spesa simili a pozzi senza fondo. Il compito sarà arduo e tra le prime necessità c'è quella di snellire i consigli di amministrazione, ridurne i numeri ed i costi e magari assegnare ai consiglieri anche delle deleghe di gestione delle aziende, altrimenti i costi saranno sempre troppo alti, anche per una città di quasi un milione di abitanti.
Tornando al problema principale, quello dei rifiuti, per De Magistris, Sodano e quelli che in qualche modo saranno coinvolti nei loro staff, ci saranno diverse "rogne" da superare. La prima è quella della gestione dell'immediato: la città non è affatto pulita, restano a terra diverse tonnellate di rifiuti, in quantità variabile ogni giorno e tra circa un mese chiuderà per esaurimento la discarica di Chiaiano; la mai sopita sfida (politica prima ancora che tecnica) con la Regione governata dal PDL, rende spesso impossibile portare da qualche parte i rifiuti raccolti.
Ricordiamo che in Campania a decidere dove consegnare, per lo smaltimento, i rifiuti raccolti, è l'"Ufficio Flussi" della Regione. E' quest’ufficio che, praticamente, "ordina" ai comuni dove portare i rifiuti raccolti dai cassonetti. Da diversi mesi, anche precedenti la campagna elettorale, puntualmente per il comune di Napoli, e per altri comuni tutti uniti dall'essere retti da giunte di colore politico diverso da quello della Regione Campania, sono sorti problemi, come l'impedimento da parte dell'Ufficio Flussi di scaricare i rifiuti, o il dirottamento verso zone "calde", come quella di Terzigno, o a volte addirittura fuori provincia.
E' la seconda rogna da affrontare, anche sul lungo periodo. Per impedire che dopo la raccolta urbana i camion dell'Asia restino colmi di sacchi e sacchetti, occorrerà gestire il dialogo politico tra la giunta arancione e la Regione di Caldoro. Argomento spinoso, che dovrà assolutamente arrivare a una convergenza, se non si vuole far credere all'Italia intera che ci sia ancora un'emergenza rifiuti, visto che nei mesi scorsi il tutto è stato originato da bastoni tra le ruote messi da amministrazioni locali di diverso colore politico.
Resta il nodo dell'eliminazione di quanto è a terra nelle strade di Napoli, che può aumentare ogni giorno se non ci si sbriga. Plausibilmente l'unica soluzione d'emergenza è il trasferire, pagando profumatamente, i rifiuti di Napoli in altre provincie e in altre regioni. Eppure, quel pagare profumatamente è poca cosa, rispetto al danno del lasciare crescere ancora una volta i cumuli di rifiuti solidi urbani nelle strade di Napoli. Anzi, questo non deve succedere assolutamente.
Ovviamente non basta affatto il mandare rifiuti fuori regione. Può andare bene per pochi, pochissimi giorni. Dopodichè, senza un serio piano d’incremento (anche lento purché costante) della raccolta differenziata, anche questo metodo non andrà più bene. Se non si porteranno alla luce dei buoni risultati come aumento della differenziazione, non è detto che in un futuro anche breve le altre regioni possano essere ancora disposte a "tamponare" la Campania e Napoli in questo modo.
Per aumentare la raccolta differenziata non basterà pianificare i metodi di raccolta, convincere la popolazione e tutte le cose scontate che vengono dette di solito. Sarà invece necessario mettere a punto dei veri e propri cicli industriali. Non la vecchia filiera dei rifiuti prevista dal vecchio piano, quella che finiva in un inceneritore, come quello di Acerra o quello che si vorrebbe fare a Ponticelli, ma una filiera industriale del riuso e del riciclo con aziende - filiere che peraltro già esistono - pronte a prendere i materiali differenziati e ad inserirli come materie prime seconde nei loro processi industriali.
E queste filiere devono già essere pronte alla partenza, quella vera, della raccolta differenziata. In caso contrario, anche con percentuali di raccolta differenziata elevatissime, rimarrebbero pieni i depositi temporanei, senza un reale commercio a valle. In tal caso, la raccolta differenziata è - e rimane - quanto di più inutile possa esistere. A questo, in aggiunta, dovrà essere affiancato forzatamente almeno un impianto pubblico per il trattamento dell'umido. Poi con calma si discuterà se debba essere di compostaggio, di frazione organica stabilizzata o d’altro, ma è importante che si agisca per individuare non solo le risorse economiche per realizzarlo, ma anche il luogo dove farlo, il suolo. E al più presto.
Anche su questo argomento ci sarà da dare battaglia con Regione e Provincia. Entrambe di centrodestra, entrambe intenzionate a bruciare, in senso letterale, tonnellate non di monnezza ma di denaro pubblico, pur di realizzare l'inceneritore a Ponticelli. Per loro, l'unica filiera industriale possibile è quella che unifica secco (soprattutto plastiche) e umido, per terminare rapidamente nell'inceneritore. Di conseguenza, la raccolta differenziata, un qualunque ciclo più "conveniente" sia economicamente che ambientalmente, un qualunque ciclo più "pulito", viene visto come una pericolosa concorrenza da sconfiggere ed eliminare. Tutte sfide tanto importanti quanto interessanti, che attendono già da ora De Magistris, Sodano, e il resto della Giunta. Sfide che qui su Altrenotizie seguiremo con interesse e attenzione costanti.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Mariavittoria Orsolato
A Brunetta i giovani non piacciono, men che meno se questi sono precari. “Questa è la peggiore Italia”, così li ha apostrofati lo scorso martedì quando, nel corso del convegno “I giovani innovatori” che si teneva a Roma, una delegazione di precari della pubblica amministrazione ha tentato di porgli qualche domanda in merito alla loro posizione. Tentato, perché non appena la ragazza si è presentata come una rappresentante della lega dei precari della p.a., il miniministro ha sdegnosamente voltato le spalle e si è incamminato verso la sua auto blu alla velocità della luce.
Com’è ovvio, i quattro minuti e mezzo di video che immortalano l’ennesima alzata di spalle istituzionale di fronte ad una delle maggiori piaghe d’Italia - il precariato appunto - ha fatto immediatamente il giro della rete e, in men che non si dica, il profilo Facebook di Brunetta è stato subissato da commenti di rimprovero e insulti da parte di migliaia di precari. Impossibile biasimarli.
Ora, se è di per sé evidente l’assurdità di un ministro che rifiuta di rispondere a quelli che a tutti gli effetti sono suoi collaboratori e sottoposti, dobbiamo dare merito a Brunetta di essere riuscito a fare anche di peggio. Per zittire a tutti quelli che - in modo sacrosanto - si sono inferociti per la sua offesa, il Ministro della Pubblica Amministrazione si è dato alla controinformazione e ieri ha postato un video online in cui rovesciava totalmente quello successo a Roma e che le telecamere hanno impietosamente ripreso. Giacca, cravatta e manine dietro la schiena, Brunetta giustifica l’infelice battuta con il fatto di essere stato insultato e preso a spintoni, cosa assolutamente falsa giacché l’impropero è stato pronunciato esattamente due secondi dopo la sua plateale discesa dal palco, quando in sala il silenzio era ancora assoluto.
Si scaglia poi contro gli attivisti definendoli “squadristi” che “usano la condizione difficile di tanti giovani per giustificare fallimenti personali” e non hanno “niente di meglio da fare che organizzare agguati mediatici di questo tipo, magari con giornali compiacenti che pullulano di questi precari”. Perciò, conclude il miniministro con un’antifrasi degna del miglior Joyce “non bevete… quello che vedete”.
Semplicemente fantastico: come a dire non credete a quello che avete visto, date semplicemente retta a me! D’altra parte, chi lo ha visto in televisione, può rendersi conto del macchiettismo involontario del soggetto: petulante, incapace di dimostrare cosa ha studiato, invita tutti a studiare.
Col suo intervento di ieri Brunetta ha dato modo a tutti di vedere come l’Italia peggiore sia in realtà quella che siede nel Consiglio dei Ministri e nei vari Cda sparsi a macchia di leopardo sulla penisola: un’Italietta che vive da sostanziale parassita sul sudore e gli stenti di quelli che in continuazione insulta, svilisce, umilia.
Questa “peggio gioventù”, tanto deprecata dalle alte sfere istituzionali e imprenditoriali, è assolutamente funzionale - anzi, indispensabile - a mantenere alti i profitti e i lifestyle di queste ultime e l’atteggiamento di chiusura che in pubblico e privato dimostrano verso le istanze dei precari, non è altro che sputare nel piatto in cui si mangia, anzi ci si abbuffa, visto che percepisce un super stipendio da ministro che, guarda caso, è pagato dalla collettività.
Perché, in questo Paese al contrario, sono proprio i “bamboccioni, fannulloni, scalda sedie e scioperati” a mandare avanti la baracca. E lo fanno con 1000 euro al mese - quando va grassa - senza la possibilità di ammalarsi e soprattutto senza avere la sicurezza di quella stessa pensione che ora stanno pagando ai loro padri e ai loro nonni. Con la rivoluzione dei contratti lavorativi voluta dalle leggi Treu e Maroni (impropriamente chiamata legge Biagi), siamo stati spettatori imbelli del rovesciamento delle convenzioni sociali che vogliono la condizione dei figli migliore di quella dei padri.
Ma per Brunetta, ospite martedì sera ad "Otto e mezzo", i nostri giovani iperspecializzati con lauree e master postuniversitari non dovrebbero protestare per la loro condizione di sottooccupazione e palese sfruttamento, ma piuttosto “andare a scaricare le cassette ai mercati”. Un altro affondo che lo sterminato popolo dei precari non ha gradito, soprattutto se si pensa da che pulpito viene questa insulsa predica.
Dimentico del suo passato, il Ministro Brunetta - che nel 2008 ha bloccato la stabilizzazione dei ricercatori precari degli enti di ricerca dando il colpo di grazia ad una generazione di menti brillanti - nel 1981 è diventato professore universitario proprio grazie ad una sanatoria con la quale tutti quelli che, a vario titolo, erano precari nelle università, sono stati, assunti come professori.
Ma c’è di più. Nella sua trentennale attività di professore universitario “l’instancabile” Brunetta, acerrimo nemico di chi sta con le mani in mano, ha pubblicato solo due lavori, uno nel 1993 e uno nel 2001, e in entrambi i casi la qualità dei saggi era scadente.
A dirlo non siamo noi ma il sito ISI Web of Science, un enorme database in cui sono catalogate tutte le pubblicazioni universitarie con tanto di numero di citazioni e parametri di impatto della propria attività scientifica. Com’è ovvio, i lavori di Brunetta non hanno avuto alcun seguito né riconoscimento sia a livello nazionale che internazionale. Non gode di nessun peso nel Consiglio dei Ministri, figuriamoci nella comunità scientifica.
Se quella che martedì ha contestato Brunetta è l’Italia peggiore allora dobbiamo prendere atto di vivere in una dimensione parallela in cui il merito e le competenze dei giovani sono un’offesa alla mediocrità e all’incapacità di chi, nella realtà dei fatti, decide delle loro vite. Allo stato attuale delle cose, di certo c’è solo che se i precari decidessero di incrociare le braccia e smettessero di fare gli schiavi per uno stipendio da terzo mondo, il Paese intero sarebbe in ginocchio. Dicono che il vento stia cambiando, speriamo solo che amplifichi la voce di questi giovani “senza voce”.