di Rosa Ana De Santis

Si chiama John Demjanjuk ed era il guardiano del campo di sterminio di Sobibor. E’ stato condannato a Monaco di Baviera a 5 anni di reclusione: poco più di uno straccio di pena simbolica e di un’elemosina morale per le vittime e per i familiari. Come se non bastasse, mentre la difesa si prepara all’appello, il Boia di Sobibor è già in libertà. Rilasciato, perché troppo anziano, se n’è tornato a casa con i suoi 91 anni di colpe e di orrori. La sentenza, infatti, lo ha riconosciuto parte integrante di quella macchina del male che ha portato allo sterminio di 27.900 persone.

Una lunga vicenda giudiziaria, iniziata in Israele con una condanna a morte scampata, e arrivata in Germania dopo l’estradizione concessa dagli Stati Uniti, si è sviluppata in 93 udienze e attraverso l’esame di 70 mila documenti. Nessuno dei superstiti l’ha riconosciuto (anche per l’impossibilità di un confronto diretto) ma Demjanjiuk era un guardiano e, come tale, aveva un ruolo tutt’altro che marginale nelle violenze e nelle torture che regolavano la macabra vita del lager e dei suoi prigionieri e che per banali ragioni di efficienza non potevano essere appaltate alle sole SS, che in quel campo erano 20 contro i 150 guardiani (trawniki).

Alla decisione del rilascio sono seguite reazioni contrastanti. Da Israele arriva delusione e sconcerto, anche se Efraim Zuroff, direttore del centro Simon Wiesenthal, evidenzia il valore simbolico comunque educativo e importante della condanna. L’imputato, che durante il processo si è presentato su una sedia a rotelle mantenendo sempre un assoluto silenzio, si dichiara perseguitato dalla Germania e da tutti i paesi in cui ha scontato diversi anni di carcere, dovuti soprattutto all’inizio per esser stato confuso con il ricercato numero uno,il celebre“Ivan il Terribile”.

L’argomento dei poveri vecchi nazisti da lasciare in pace non è nuovo e la vicenda del guardiano di Sobibor è solo l’ultima dopo molte altre. Un improvviso moto di pietà dovrebbe evitare, questo pensano alcuni, a questi assassini che per molti anni sono stati latitanti, di pagare il fio dei crimini commessi.

Come se la pena, che finalmente arriva, avesse il sapore di un accanimento o, peggio ancora, per i tifosi del politically correct, di una vendetta. Come se lo sterminio scientifico e pianificato di milioni di esseri umani fosse un crimine paragonabile ad altri e non quell’assoluta personificazione del male che è stata. Come se la pena fosse inutile non tanto perché priva di alcuna sua parte di recupero, ma perché un prigioniero anziano meriterebbe di finire in altro modo la propria esistenza. Anche un nazista? Ma ne siamo propri sicuri?

Come la mettiamo con quell’assente pietà collettiva per tutti quei prigionieri che marciscono in carcere, malati, tossicodipendenti o stranieri, messi dentro per reati certamente mai assimilabili allo sterminio, anonimi come ombre per i quali si muove al massimo qualche associazione zelante, sull’onda di qualche fattaccio di cronaca?

Perché la loro punizione sembra accontentare tutti e non suscitare grandi dibattiti morali che poi tuonano invece in prima pagina per l’ultimo nazista rimasto in vita? Quell’ultimo fossile di male che ancora oggi non guarda in faccia i superstiti del lager da cui viene.

Forse per un viscerale rigurgito antisemita e filonazista mai estinto in questa Europa sede di banche e xenofobia, forse perché la rete di omertà e di complicità che per molti anni li ha protetti e li ha messi al sicuro può mettere in pericolo troppi poteri forti. A chi conviene ormai dopo tanto tempo, con i pochi superstiti ancori in vita e con le emozioni delle nuove generazioni ormai sopite?

Nel 2010 l’Australia non aveva estradato l’88enne Zentai per ragioni umanitarie dovute alla sua età. Numerose altre inchieste, tedesche come italiane, ad esempio sulla vicenda di Marzabotto, arrivate in ritardo dopo anni, ancora oggi sono impantanate a causa dell’età degli imputati. Come non pensare infine a casa nostra e al caso di Priebke, capo delle SS, anche lui mandato a casa ai domiciliari confortato da mille privilegi perché 85enne al momento della condanna. Un nazista che aveva ordinato la fucilazione alle Fosse Ardeatine che poteva passeggiare, scortato dai nostri poliziotti pagati dai nostri contributi, quasi come un cittadino perbene.

Sfugge alla memoria che Norimberga é stato un processo marziale, un atto costitutivo di civiltà dopo un precipizio di barbarie. Una rigenerazione che non poteva non passare attraverso l’abolizione esemplare di quella stagione umana di criminali. Non fu il momento del dibattito accademico e della pietà.

Fu un manifesto di giustizia umana, senza spazio per la pietà degli dei. Un’inutile attesa di risarcimento per le vittime, sapendo che alcun patibolo avrebbe condannato abbastanza gli aguzzini e la loro filosofia del male.

Tutto questo dovrebbe persuaderci che nazista non è solo assassino, né solo criminale. E’ una deviazione maligna specifica dell’umanità, una categoria invertita dell’essere umano. Che un nazista è tale sempre, soprattutto se mai ha dato prova di espiazione. Che 5 anni sono uno schiaffo per le vittime del Boia di Sobibor. Che potrebbe rimanere chiuso in prigione, come tanti disgraziati, e che lì dovrebbe morire. Con l’obbligo di leggere fino all’ultimo dei suoi giorni la lunga lista dei morti del campo.

L’unica condanna davvero senza pietà per questo vecchio sarebbe quella di dover vivere fino alla fine per ricordarli tutti. Ogni giorno. Perché quella lunga lista di nomi, quelle persone estinte nel vento, tutto quello che è avvenuto nei lager, come scriveva Primo Levi prima di uccidersi, “è stato”. 

 

di Fabrizio Casari

Milano, Torino, Bologna, anche Napoli. Da nord a sud, che si leggano i risultati delle candidature a sindaco, o quelli delle liste elettorali, sono tanti i motivi di soddisfazione per il fronte progressista che emergono dal voto delle amministrative. Il primo riguarda ovviamente Milano, dove il candidato del centrosinistra Pisapia, alla vigilia accreditato al massimo per un eventuale ballottaggio, arriva sì al secondo turno, ma con sette punti di vantaggio sul sindaco uscente Moratti.

Pur con tutte le incognite del caso e senza voler minimamente sottovalutare le capacità di ripresa del centrodestra, Pisapia é, per la legge dei numeri e per la logica della politica, ragionevolmente candidato alla vittoria nel secondo turno tra quindici giorni, tenendo conto anche del 5 per cento circa raccolto dal movimento cinque stelle di Beppe Grillo. Se invece di candidare il narcisismo del comico genovese si fosse scelta la strada dello scontro con la destra, già da ieri Pisapia sarebbe entrato a Palazzo Marino.

Ma la vittoria al primo turno di Giuliano Pisapia non è solo una bella notizia, ma anche una discreta dispensa d’indicazioni politiche. Perché, a rendere più evidente la sconfitta personale di Berlusconi, arriva ancor più netto il voto di lista (che vede il PDL perdere sette punti percentuali) e il consenso personale al cavaliere (candidato capolista) fermo solo al 50% delle preferenze di cui la volta precedente disponeva. Inoltre, il PD di Bersani arriva allo stesso risultato del PDL in quella che, una volta ormai, par di capire, era la patria del berlusconismo.

E’ probabile che l’insipienza governativa del sindaco uscente, la sua metamorfosi aggressiva sotto l’egida di Sallustri e della Santanché abbia decisamente alzato il livello di volgarità ed ignoranza che, storicamente, ai milanesi va indigesto. Dal metodo Boffo alle prostitute - maggiorenni e non - dalla compravendita dei parlamentari fino all’aggressione ai magistrati e a quella riservata ad ogni istituzione della Repubblica, il berlusconismo appare ormai come la parte peggiore della destra europea.

Un aggregato onnivoro, ma politicamente rozzo ed incapace, che era riuscito però in questi anni, grazie al controllo totale sui mezzi di comunicazione, a raccontare la favola del buongoverno che copriva la realtà del malgoverno. Poi, com’è noto, per lungo che sia il sonno della ragione, le persone si svegliano e presentano il conto. Non a caso Famiglia Cristiana, in un editoriale della sua edizione online, ha commentato: “Si é esposto con brutale evidenza al giudizio popolare un primo ministro che vuole sottrarsi ai giudici, che svillaneggia la magistratura, che non si dissocia da cartelloni infami, che non accetta le esortazioni del Quirinale, che fino a poco fa passava le serate nel modo che conosciamo. Il giudizio c'é stato, severo".

Pisapia ha vinto perché, prima di ogni altra considerazione politica, è una persona per bene e come tale viene percepito. Figlio della borghesia illuminata meneghina, ha avuto il merito di portare alle urne sia l’elettorato storico del centrosinistra, sia i moderati che, pur conservatori, ormai non tollerano più il berlusconismo, sia i giovani e la sinistra alternativa, che hanno trovato in una persona per bene e di sinistra motivi sufficienti per tornare a frequentare quelle urne elettorali che avevano abbandonato da diversi anni. La riprova di ciò sta nei dati del voto di città: il centrosinistra ha conquistato tutte le nove zone in cui é divisa Milano, compresa Zona 1, la zona centrale della città da sempre feudo del centrodestra. A dare un’idea dell’inversione di tendenza, basti ricordare che nel 2006 il centrodestra conquistò otto zone su nove.

A Torino Piero Fassino sfiora il 57 per cento ed è eletto al primo turno. Il buongoverno di Chiamparino ha certamente influito e lo spessore di Fassino ha messo il resto. Il candidato del PDL è intorno al 30%. Anche a Bologna si conferma che lo zoccolo duro del PD tiene. Ma avrà comunque bisogno di un buon calzolaio, perché la vittoria è sì netta ma non nelle percentuali bulgare storicamente raggiunte in Emilia. Questo però, non deve illudere il centrodestra, dal momento che i voti persi dal centrosinistra non sono confluiti sul candidato leghista. Ecologia e Libertà di Vendola ha ottenuto il 10% e altrettanto il movimento 5 stelle di Grillo. Il che indica nel 71 per cento dei voti complessivi l’indirizzo politico e culturale della città.

E persino Napoli non sorride alla destra: nonostante il malgoverno del clan Bassolino e l’impossibilità di raddrizzare gli errori da parte della Iervolino, la destra non riesce a vincere al primo turno. L’elettorato del centrosinistra, infatti, ha scelto in buona parte di sconfessare le camarille locali del PD, e Morcone si è fermato al 19%. Meglio, molto meglio di lui, Luigi De Magistris, candidato dell’IDV (ma fino a un certo punto, la sua autonomia da Di Pietro è conclamata) che sfiora il 30% e va al ballottaggio con Lettieri. Il PDL parte quindi in vantaggio al secondo turno, ma Lettieri ha già raccolto il massimo dei voti possibili a destra, mentre lo stesso non si può dire sul fronte opposto, dove il voto è stato frammentato su due o tre candidati. L’eventuale convergenza dei voti del PD e del resto della galassia antiberlusconiana su De Magistris al secondo turno (auspicata anche da Marco Follini del Terzo Polo), potrebbe quindi ribaltare la situazione a Napoli.

Infine, ma non certo alla fine, il voto straordinario al referendum sul nucleare in Sardegna, dove i contrari all’atomo sono 97 su cento. Il che, tra l’altro, aiuta ulteriormente a comprendere le manovre del governo per evitare il referendum sul nucleare e, soprattutto, l’affluenza che determinerebbe e che si spalmerebbe sul quesito sul legittimo impedimento per il Premier fuggitivo.

Si aprono ora i quindici giorni di campagna elettorale più duri, dove nessuno che abbia a cuore le sorti dell’Italia potrà risparmiarsi. Perché dalla vittoria del centrosinistra e dei suoi diversi candidati a Milano e Napoli in particolare, potrà iniziare una nuova stagione politica.

Il PDL si scopre da un giorno all’altro un partito che passa dall’onnipotenza all’impotenza, anche perché il malumore della Lega è forte e a Via Bellerio non si riesce a nasconderlo: diversi settori del Carroccio vedono il rischio che, di questo passo, Alberto da Giussano si trovi con la spada mozzata. La tentazione di staccare la spina al governo centrale vedrà quindi proprio nel ballottaggio una verifica importante.

Da via dell’Umiltà partono messaggi di diverso tono. I consensi persi li imputano a “errori di comunicazione”, preferiscono cercare di dare alternativamente la colpa o alla “eccessiva politicizzazione” o, all’opposto, alla “mancanza di politicizzazione”. Dipende da chi parla, da quanto conta e da dove è allocato nel mare in tempesta chiamato PDL. Ma i numeri hanno la testa dura e la lettura politica di questa tornata elettorale sembra oggettivamente una: la crisi del berlusconismo è cominciata.

di Michele Paris

Il 14 aprile scorso il cittadino italiano di origine marocchina Abou ElKassim Britel è stato liberato da un carcere nel suo paese natale in seguito ad un provvedimento di grazia firmato dal sovrano Mohamed VI nell’ambito dei movimenti di protesta che stanno attraversando il mondo arabo. “Kassim” era in carcere da quasi otto anni, pur non avendo commesso alcun reato. Nel corso di un viaggio in Pakistan nel marzo del 2002, si era ritrovato coinvolto nell’isteria del post-11 settembre, finendo sotto custodia dei servizi segreti locali, per poi subire una “extraordinary rendition” ad opera della CIA e approdare in Marocco qualche settimana più tardi.

Nonostante la recente scarcerazione e il ritorno in Italia, le ingiustizie patite in questi anni hanno segnato profondamente Kassim e la sua famiglia. Assieme a sua moglie, Anna Khadija Pighizzini, la quale fin dall’inizio ha cercato di ottenere giustizia per il marito, abbiamo ripercorso gli eventi accaduti a Kassim prima della liberazione e che hanno sconvolto la loro vita e i loro progetti.

La vicenda di Kassim inizia nel 2001 con un viaggio che doveva includere diversi paesi islamici. Ci può raccontare come suo marito è finito nelle mani dei servizi di sicurezza pakistani?
Mio marito era partito da Bergamo nel giugno del 2001 con l’intenzione di andare alla ricerca di finanziamenti per un sito web da noi creato (web.tiscali.it/islamiqra), sul quale stavamo iniziando a pubblicare traduzioni di opere relative all’Islam non disponibili in lingua italiana. Kassim raggiunse inizialmente l’Iran e, nel momento in cui avvennero gli attentati dell’11 settembre, si trovava in Pakistan. Nel marzo del 2002, mio marito venne fermato ad un posto di blocco nella città di Lahore mentre viaggiava a bordo di un taxi. Quando gli agenti videro il passaporto italiano lo trasferirono immediatamente in una stazione di polizia. Più tardi Kassim venne trasferito presso una sede dei servizi segreti pakistani a Islamabad, dove sarebbero iniziati i pestaggi e le torture. Legato e bendato, da questa struttura venne trasportato quattro volte presso un’abitazione per essere interrogato da agenti americani. Nonostante avesse chiesto più volte di incontrare l’ambasciatore italiano fin dal giorno del suo fermo, sia i pakistani che gli americani gli negarono qualsiasi contatto con i diplomatici del nostro paese; gli dissero anzi che l’ambasciatore non voleva vederlo perché era un terrorista.

Qual’è stata la posizione ufficiale dell’ambasciata italiana in Pakistan sulla vicenda di suo marito?
L’ambasciata italiana a Islamabad ha sempre sostenuto di non avere avuto alcuna notizia della presenza di mio marito in Pakistan. Tuttavia, gli agenti USA avevano interrogato Kassim su molti episodi della sua vita in Italia, mostrando di conoscere precisi dettagli, sui quali solo gli italiani potevano aver messo al corrente gli americani.

Dopo quanto tempo suo marito è stato vittima di “extraordinary rendition” verso il Marocco?
Poco più di due mesi dopo il fermo, il 24 maggio 2002, mio marito fu consegnato agli agenti della CIA che lo misero su un aereo per il Marocco. A Rabat gli americani lo consegnarono a loro volta ai servizi segreti marocchini [DST] che lo trasferirono presso la loro sede di Témara.

Per quanto tempo lei e la famiglia di Kassim siete rimasti all’oscuro della sua sorte?
Per ben undici mesi non ho avuto notizie di mio marito, dal 10 marzo 2002 all’11 febbraio 2003, quando è stato liberato in Marocco. Le autorità marocchine non avevano infatti comunicato alcuna informazione né a me né alla sua famiglia. Io mi ero mossa per cercare Kassim ma non avevo alcun indizio. Per quanto ne sapevo doveva essere ancora in Pakistan. L’11 febbraio successivo, senza nessuna accusa formale a suo carico, Kassim venne liberato e portato presso l’abitazione della madre. Appena lo rilasciarono, partii per il Marocco dove lo rividi dopo venti mesi.

Qualche mese dopo il rilascio, nel maggio del 2003, Kassim venne fermato alla frontiera mentre cercava di rientrare il Italia. Ci può raccontare come avvenne questo secondo arresto?
Dopo che l’ambasciata italiana a Rabat, nonostante la nostra insistenza, si era rifiutata di fornirci un accompagnatore fino all’imbarco del volo per l’Italia, Kassim decise di passare la frontiera da solo via terra, a Melilla. Ripensandoci in seguito, fu un errore lasciare che Kassim partisse da solo. In quel momento, tuttavia, non eravamo in grado di comprendere la gravità della situazione, anche perché i famosi attentati suicidi di Casablanca - che scatenarono il panico in Marocco e un’ondata di arresti - sarebbero stati compiuti proprio la sera successiva all’arresto di mio marito. Kassim rimase tre giorni nei pressi della frontiera per cercare di capire se lo avrebbero lasciato uscire dal paese. Il penultimo giorno mi disse che aveva conosciuto qualcuno che forse lo avrebbe aiutato a lasciare il Marocco. Il 16 maggio 2003, così, si presentò alla frontiera ma la persona che aveva sostenuto di volerlo aiutare, finì per consegnarlo alle autorità. Dopo sei ore in stato di fermo presso la polizia di frontiera, giunse un’auto dei servizi di sicurezza che lo trasportò di nuovo a Témara, dove era stato rinchiuso segretamente fino al febbraio precedente.

Qualche mese dopo l’arresto si tenne il processo di primo grado. Ci può descrivere come si svolse il dibattimento?
Il processo di primo grado si svolse in un solo giorno nell’ottobre 2003, dopo che per quattro mesi avevo chiesto senza successo alle autorità marocchine di conoscere la sorte di mio marito. Gli interrogatori furono molto brevi con domande che riguardavano più che altro le generalità degli imputati. Il nostro difensore aveva presentato alcuni documenti a discarico di Kassim, ma i tre giudici li sfogliarono rapidamente per poi metterli da parte e respingerli. La pubblica accusa si limitò a dire che la confessione firmata da mio marito era compatibile con le accuse che gli venivano mosse.

Qual’era il contenuto della dichiarazione che fu fatta firmare a Kassim?
La dichiarazione di colpevolezza gli fu fatta firmare, senza poterla nemmeno leggere, ben prima del secondo arresto, cioè durante la prima detenzione segreta seguita alla “rendition” dal Pakistan. Con essa, sostanzialmente, Kassim si auto-accusava di aver partecipato a riunioni non autorizzate e di aver fatto parte di un’associazione sovversiva nell’ambito di un progetto eversivo contro lo stato.
Si tratta di un’imputazione standard che viene formulata per i cosiddetti “islamisti” e per gli altri detenuti politici dopo che gli è stata fatta firmare una confessione sotto costrizione. Tengo a ricordare che la confessione imposta a mio marito non aveva però nulla a che vedere con gli attentati di Casablanca del maggio 2003.

Tornando al processo di primo grado, quale fu la sentenza per Kassim?
Gli furono dati quindici anni, anche se non c’era nulla di concreto contro Kassim. Mio marito non metteva piede in Marocco da sette anni - prima che ce lo avessero portato gli americani - quindi come poteva aver fatto parte di un’associazione sovversiva? Nel corso del processo, inoltre, non fu mai fatto il nome dell’organizzazione di cui Kassim era accusato di aver fatto parte. Al processo d’appello, il 7 gennaio 2004, la pena per Kassim è stata ridotta a nove anni. Il nostro ricorso presso la Corte Suprema marocchina venne invece respinto il 27 ottobre di quello stesso anno.

Quale risposta aveva avuto dai governi italiani al caso di suo marito?
Tutti i governi italiani succedutisi in questi anni non hanno fatto nulla di concreto per il nostro caso. Ciò è molto grave, perché le pressioni per la liberazione dei detenuti ingiustamente accusati di terrorismo avevano portato a risultati positivi in molte occasioni. Basti pensare alla Gran Bretagna, che ha ottenuto la liberazione di tutti i propri cittadini rinchiusi a Guantanamo dopo aver insistito con il governo americano. Qualche forza politica si era interessata al caso senza però trovare un seguito significativo. Anche a livello locale, poi, hanno prevalso l’indifferenza e l’ostilità. Il governo italiano ha tenuto questo atteggiamento anche nei confronti della Commissione del Parlamento europeo che ha indagato sui voli speciali della CIA, quando nel suo rapporto finale chiese al nostro paese di “fare passi concreti per la liberazione del cittadino italiano Britel”.

Su Kassim ha indagato anche la giustizia italiana. Come si è chiusa l’inchiesta durata sei anni?
L’inchiesta su mio marito in Italia è stata chiusa definitivamente solo in seguito all’iniziativa del Parlamento europeo. L’archiviazione dell’indagine giunse nell’ottobre del 2006, nemmeno in tempo per poter presentare gli atti all’audizione del Parlamento europeo a cui avevamo partecipato nel mese di settembre. Dalle carte è emerso chiaramente che le autorità italiane sono sempre state al corrente della sorte di Kassim e, di fatto, sono state complici di ciò che gli è successo.

Cosa è emerso dalla lettura delle carte dell’inchiesta?
Secondo quanto scrisse la DIGOS basandosi sui tabulati delle intercettazioni telefoniche iniziate nel febbraio 2001, un cittadino tunisino legato agli ambienti integralisti islamici avrebbe soggiornato nel bergamasco nel novembre del 2000. In questo periodo, costui sarebbe entrato in contatto con cittadini stranieri residenti in Italia, tra cui mio marito. La DIGOS scrisse negli atti d’indagine che nonostante dai tabulati non risultavano “relazioni telefoniche di apparente interesse”, Kassim veniva considerato a capo di una cellula terroristica locale e solo la sua “scaltrezza” gli aveva permesso di “eludere gli accertamenti da parte delle forze dell'ordine”. Ugualmente sconcertanti furono i documenti relativi al 2003. Il giorno precedente al rilascio di Kassim dal carcere di Témara, avvenuto il 10 febbraio 2003, la DIGOS scrisse al magistrato che mio marito era “a disposizione delle autorità estere” e che a partire dall’11 febbraio avrebbe potuto tornare a casa. Il suo possibile ritorno in Italia, si voleva mettere in guardia, avrebbe potuto “costituire occasione per se e i suoi familiari di generare una serie di contatti telefonici con possibili soggetti legati ad ambienti del terrorismo islamico radicati in Italia”. Ciò dimostra come la Polizia italiana sapeva dove si trovava Kassim dopo la “rendition” dal Pakistan, mentre la sua famiglia non aveva alcuna notizia e cercava di conoscere la sua sorte. Tutto questo, a mio parere, prova la complicità delle autorità italiane.

Kassim aveva mai avuto problemi con la Polizia italiana prima della sua partenza nel 2001?
Nessuno. Mio marito era ed è incensurato, anche se già allora era stato aperto un fascicolo su di lui a nostra insaputa.

C’erano stati contatti di qualsiasi genere con persone successivamente sospettate di essere affiliate a cellule terroristiche?
No. Nelle carte della Polizia, l’indagine venne giustificata da un contatto con una persona che conoscevamo e che frequentava la moschea, il quale aveva avuto una conversazione telefonica con  un terzo uomo, a sua volta in contatto con un condannato dalla giustizia italiana. Questo era in sostanza il legame che collegava Kassim ai presunti terroristi.

Come spiega il comportamento tenuto dell’Italia nel caso di suo marito?
La vicenda di Kassim era stata strumentalizzata inizialmente per tenere alto l’allarme terrorismo. Successivamente - come dimostra il fatto che ci è stato rifiutato ogni aiuto - far tornare in Italia Kassim avrebbe significato portare all’attenzione dell’opinione pubblica la questione delle “rendition” e le responsabilità italiane, tanto più che l’indagine della Polizia non aveva indicato alcuna responsabilità da parte di mio marito. Non bisogna poi dimenticare che, in quanto musulmano, Kassim non viene considerato un cittadino italiano con pieni diritti come gli altri. Il peso della politica estera italiana, infine, è ormai irrilevante e si risolve in una totale sudditanza verso gli Stati Uniti.

Come l’hanno cambiata i fatti accaduti a suo marito?
La sofferenza di questi anni - mia, di mio marito e delle nostre famiglie - resta un fatto intimo. Questa esperienza mi ha comunque segnata profondamente. Come tutti, sono cresciuta credendo di vivere in un paese democratico, nel quale i diritti civili sono garantiti a tutti i cittadini. La mia convinzione era quella di godere veramente di questi diritti, ma mi sono resa conto che le cose non stanno in questo modo. Oggi io e mio marito ci sentiamo cittadini di serie B, senza diritti. Entrambi abbiamo faticato a credere che l’Italia fosse implicata nei fatti accaduti a Kassim, ma l’evidenza era tale da spazzare via ogni dubbio. In definitiva, dopo tutto quello che è successo, oggi sono molto più disincantata verso le istituzioni rispetto a dieci anni fa.

di Mariavittoria Orsolato

Precarietà, cassa integrazione, ma soprattutto mancanza generalizzata di diritti e tanti, troppi doveri: per questo tanti hanno scioperato ieri. La giornata di mobilitazione generale indetta quattro mesi fa dalla Cgil, la prima per la segretaria Susanna Camusso, non ha avuto il classico mega-corteo romano ma ha voluto organizzare cortei in diverse regioni italiane per sottolineare la generalità della crisi e, forse, per sfuggire all’eterno balletto delle cifre.

Una querelle che però è immancabile e che nelle affermazioni divide gli stessi sindacati. Secondo la CGIL, l'adesione allo sciopero generale indetto dal sindacato per protestare contro la politica economica e occupazionale del governo è stata del 58%, per il presidente di Federmeccanica, Pier Luigi Ceccardi "la partecipazione dei lavoratori metalmeccanici allo sciopero generale risulta in media pari a circa il 16%”.

Cifre, numeri e percentuali che però perdono inevitabilmente di vista la valenza sociale - e anche politica - di quella che avrebbe dovuto essere una giornata di mobilitazione generale ma che, non essendo stata pubblicizzata a dovere, anche a causa degli stessi organizzatori, non ha forse raggiunto le quote sperate. Dai dipendenti delle cooperative sociali al popolo delle partite IVA - spesso dipendenti a tutti gli effetti - passando per i lavoratori stranieri, totalmente esclusi dal welfare e ai pensionati che protestano contro pensioni da fame. A migliaia sono scesi in piazza, affiancati come sempre da studenti e lavoratori della scuola pubblica alla disperata ricerca di tutele, per tentare di dare un segnale forte ad un governo sempre più sul punto dell’implosione.

Impatanato nei processi del premier e oberato dalle richieste dei sedicenti “responsabili”, il governo ha cristallizzato la politica economica sui tagli finendo per sclerotizzare gli affanni di quella che fu la classe media. Quella che ha la casa di proprietà, che per le ferie si fa sempre un viaggio e che vizia i suoi figli: quella fetta di società è in via di estinzione nonostante dagli anni ’60 abbia costituito la vera base produttiva dell’Italia e nessuno sembra accorgersene. L’austerità imposta dall’esecutivo non trova riscontro nei portafogli di chi quest’austerità l’ha imposta e la guerra ingaggiata contro la Libia è l’ennesimo sacrificio non richiesto. Ma i governanti liquidano la giornata così: “Una protesta per allungare il weekend - ha chiosato il ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta - la scarsissima adesione dei dipendenti pubblici allo sciopero certifica il fallimento di un'iniziativa di cui non si capiscono gli obiettivi e della quale i cittadini non sentivano certo l'esigenza".

Brunetta di certo non ha il polso del paese e la gente è sicuramente al colmo: i più sfortunati preda di situazioni limite, come alcuni lavoratori delle Assicurazioni Generali che con il contratto Ania a tempo indeterminato, avvallato paradossalmente dalla stessa Cgil, non riescono a portare a casa più di 500 euro al mese per otto ore di lavoro al giorno. Anche i sindacati hanno infatti di che fare un esame di coscienza. Con un paragone azzardato, potremmo affermare che la Cgil sta ai sindacati come la Lega sta alla maggioranza: entrambe sono in grado di spostare numeri importanti e l’impressione è che ieri forse si sarebbe potuto fare di più.

Il giorno prima dello sciopero la segretaria Camusso si è schierata apertamente con la Rsu contro la Fiom sulla vicenda dell’ex Bertone - dove il si ha vinto più per i sei anni di cassa integrazione che per altro - e il suo intervento ha finito per avviare la giornata di ieri su una querelle in contrasto con lo spirito della mobilitazione generale.

Anche le richieste ufficiali del maggiore sindacato italiano sono state in fondo assai generiche. La piattaforma rivendicativa dello sciopero si è occupata di alcune cose certamente importanti ma che lasciano intatto ed irrisolto il focus della protesta di chi è sceso in piazza. Si chiedono investimenti e un piano di sviluppo industriale, l'attuazione dei referendum e un piano energetico nazionale, si parla dell’emigrazione e dei conti pubblici dello Stato. Si chiede l'imposizione di una patrimoniale sul 5% dei contribuenti più ricchi del Paese che darebbe 18 miliardi di euro da impiegare utilmente a sostegno della occupazione.

Richieste nobili, per carità, ma lontane anni luce dalle problematiche che affliggono porzioni sempre più ampie dello strato sociale, problematiche che necessitano un aumento generalizzato dei salari con l’introduzione di un salario minimo garantito - come avviene ad esempio in Germania - l’abrogazione della legge Biagi e il conseguente ridimensionamento della precarietà, nonché un drastico ripensamento del sistema di previdenza sociale. Questo è quello che chiedono i lavoratori e queste le rivendicazioni che il sindacato che li deve rappresentare dovrebbe portare avanti. Lo scollamento delle cosiddette istituzioni dalla cittadinanza rischia il punto di non ritorno.

 

 

di Rosa Ana De Santis

La polemica tra Berlusconi contro i giudici non ha risparmiato nemmeno una legge tanto delicata come quella sulla fine della vita. Il pallido spirito liberale al quale il premier dichiara d’ispirarsi, ricorda che su una questione tanto intima ed esistenziale la mano dello Stato non sarebbe dovuta entrare, non fosse stato per il travalicare delle competenze dei tribunali sul Parlamento.

Questa la ricostruzione, evidentemente tendenziosa, con la quale il Presidente del Consiglio si rifà alla vicenda Englaro. Il fatto che questa ragazza versasse in uno stato vegetativo da 17 anni contro ogni sua volontà, a causa di un vuoto normativo, è un dato che passa sotto silenzio, cui la politica e questo governo in modo particolare proprio non vogliono riconoscere alcuna responsabilità.

La Camera ha approvato l’inversione dell’ordine del giorno per passare, notte tempo, all’esame del disegno di legge sul biotestamento. L’Udc non vedeva l’ora, mentre il Pd non ce l’ha fatta a far passare le due pregiudiziali costituzionali. La corsa al voto è comunque finita presto, perché il dibattito è stato sospeso per passare ad altro. L’annuncio di Berlusconi era pertanto un solito spot anti-tribunali che diventa ancora più disgustoso se utilizzato su un tema bioetico di così rilevante problematicità.

Il dibattito riprenderà dopo le amministrative e Cicchitto ha ribadito che non c’è alcuna volontà di forzare l’iter previsto, ma solo di dare una chiara direttrice alla legge che, secondo la maggioranza, così come è sarebbe sufficientemente trasversale. Questo almeno recita la letterina di Berlusconi inviata ai parlamentari della sua coalizione. Li invita a ricordare il valore della libertà su cui nasce la loro militanza politica e subito dopo a votare questa legge, che incarnerebbe un’altissima sintesi delle differenze di fede e di sensibilità.

Ma Berlusconi lo sa che questa legge impedisce e vieta, pena sanzioni, di interrompere uno stato vegetativo come quello di Eluana? Lo sa che questa idea della vita garantita per legge dallo Stato nasce da un’ispirazione che è tutt’altro che liberale e che è figlia di un approccio cristiano-creazionistico all’esistenza? E’ proprio lui a mettere in antitesi la libertà e la vita a favore della seconda, investendo lo Stato di una funzione etico-educativa.

Ma quale tradizione liberale è quella che assegna allo Stato questo ruolo invasivo nella vita dei cittadini? Eppure questo rigido liberalismo di costume viene invocato quando Berlusconi deve difendere la libertà di fare ciò che vuole nel proprio letto con prostitute, anche se minorenni. Allora bisogna decidersi. O Berlusconi si rifà a un ignoto liberalismo ad alternanza o semplicemente e strumentalmente il liberalismo vale solo per la casa del premier e non per quella dei normali cittadini.

Lo Stato etico che impedisce le coppie di fatto, le unioni tra omosessuali, la diagnosi pre-impianto di un embrione, la libertà di decidere come morire per chi non vuole essere un solo giorno una persona priva di coscienza alimentata a forza, sparisce quando deve comminare sanzioni, anche solo di riprovazione morale, ad un capo del governo che si circonda di prostitute al limite della maggiore età, che le utilizza per giochi erotici perversi e di gruppo e che le stipendia (anche, in alcuni casi, con i soldi dei contribuenti).

E’ per questo che vorremmo sentire il solito tuono di condanna della CEI. E’ qui che la Chiesa, quella che timidamente prendeva le distanze da questo signore della lussuria, dovrebbe fare il controcanto allo spot della vita cavalcato da una polemica elettorale anti-pm. La lezione sulla vita e sulla morale non può venire dallo stesso uomo. Il Pd non ci sta, ma conta da sempre le proprie defezioni. Quelle dei cattolici che proprio non ce la fanno a pensare una legge aconfessionale e liberale.

L’opposizione rimane quindi dentro al conflitto delle posizioni anche perché non ha, è ormai evidente, il cinismo del capo di governo che, sapendo di essere alla guida di un partito laico e assolutamente indifferente alle posizioni cattoliche (ma sensibilizzimo al ricatto incrociato con il Vaticano) decide di usare l’unica carta vincente che ha. Quella di trasformare la legge sul biotestamento in un altro braccio di ferro con i giudici e i tribunali. E’ così che vincerà. E’ rimasto solo Casini a crederci con il rosario in mano.

I malati terminali continueranno a morire come muoiono oggi, ciascuno come vuole e come ha scelto, anche con un testamento affidato ai sentimenti e alle relazioni dei propri cari. I ricchi continueranno a farlo meglio e nelle migliori cliniche. I poveri nelle case o nelle corsie con quel po’ di terapie del dolore che gli saranno concesse. Gli intrappolati come Eluana con qualche medico compiacente. E ancora una volta di questa legge liberticida rimarrà uno spauracchio vuoto di cui non sapremo che farci. Un po’ come la legge 40 e le emigrazioni di tante coppie verso la Spagna o l’Inghilterra.

Ci ricorderemo del biotestamento solo quando arriverà quel giorno in cui ad un comune cittadino sarà impedito quell’atto di pietà che dopo 17 anni è arrivato per Eluana. Quando un genitore, un marito, un figlio e un medico si ritroveranno sul banco degli imputati per aver rispettato la libertà di conoscenza di un proprio caro e per non aver avuto i mezzi di farlo di nascosto in qualche clinica oltre confine.

Perché lo Stato etico di questo governo si fonda sulle dichiarazioni dei redditi e si ferma ad Arcore. Berlusconi questo lo sa e lo dichiara persino. Usando un argomento elettorale per difendere una legge etica e ingannando i fedeli elettori con una scenografica pacca sulle spalle ai prelati.

Il Paese sarà democraticamente cattolico e monarchicamente liberale. E sarà vietata per legge l’umana pietà. Una mirabile operazione di marketing per le prossime elezioni, che ancora una volta pagheremo tutti. Questa volta non con le tasse, ma con la nostra vita.

 


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