di Cinzia Frassi

La situazione politica in Italia è grave, ma non è seria. Questo pensava del suo paese tanti anni fa il genio Ennio Flaiano. In effetti verrebbe davvero da sorridere, se non fosse che ormai ci appare molto meno seria, bizzarra e oltremodo grottesca. Perché ci sono spettacoli davvero stravaganti, per essere pacati, e per il fatto che ne siamo spettatori obbligati. Le sostenitrici ed i sostenitori del Pdl, con tanto di coccarde azzurre sul petto, affollano l'aula giudiziaria che al Tribunale di Milano ospita proprio l'udienza per corruzione dove dovrebbe essere presente il bel Silvio.

Lui naturalmente non c'è, ma loro sono lì, a sostegno del premier perseguitato. Pare anche che non solo facessero il coro a gran voce, intonando slogan del tipo "Silvio è buono e bravo e i giudici lo odiano" ma che avessero in tasca 20 euro e un panino per il pranzo. Addirittura pare che alcuni giornalisti abbiano riconosciuto tra loro visi conosciuti di figuranti di programmi televisivi di Mediaset.

Certo, fanno folkore, ma va da se che il cavaliere si sta difendendo molto bene fuori dalle aule giudiziarie, direttamente nelle istituzioni che le leggi le fanno, motivo che tra l'altro è all'origine della sua famosa discesa in campo. Infatti pare si stia aprendo una ulteriore fase di impasto e cottura di leggi ad personam salva premier. Questo, in effetti, è il momento giusto: tra disastro nucleare in Giappone, nube radioattiva che sorvola l'Europa, guerra in Libia, ci sono fonti di distrazione sufficienti. Del resto il cavaliere vuole arrivare lindo a concorrere alla poltrona di Napolitano e qui verrebbe in mente ancora il grande autore Ennio Flaiano in una sua famosa citazione “Le dittature hanno questo di buono, che sanno farsi amare”.  Che la nostra sia ormai una forma di democrazia simulata e dittatoriale, credo possa essere un’affermazione piuttosto condivisa. Che il Cavaliere sappia farsi amare dal popolo, invece, non è in dubbio.

Così, mentre si festeggia il parere positivo delle Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio per sollevare il conflitto di attribuzioni al Tribunale di Milano, in Commissione giustizia è arrivato un emendamento firmato Maurizio Paniz, Pdl naturalmente, che guarda caso taglia il periodo di prescrizione agli incensurati.

Fanno eccezione i recidivi, coloro che hanno già sulle spalle una sentenza di primo grado e chi è in giudizio per reati gravi, come quelli di mafia o sequestro di persona a scopo di estorsione. In sostanza, Paniz, con il suo emendamento 4-bis, riscrive l'articolo 5, il famoso taglia processi per i procedimenti che non rispettano la tempistica di 3 anni in primo grado, 2 anni in appello e 1 anno e 6 mesi per la legittimità. Insomma, sarebbe stata fantascienza ed è sembrato troppo pure per loro.

Grazie a questa chicca il processo Mills che vede il cavaliere imputato per corruzione in atti giudiziari potrebbe prescriversi praticamente all'indomani dell'entrata in vigore della legge sul processo breve. Attualmente, invece, la prescrizione dovrebbe intervenire tra Gennaio e Febbraio 2012: certo, c'è comunque la possibilità di non riuscire ad arrivare ad una sentenza di primo grado.

Da parte sua l'algido avvocato Paniz dichiara: "Non c'é nulla ad personam in questo testo anche perché, premesso che secondo me Berlusconi verrà assolto, penso che non ci sia una persona in Italia che possa pensare che da qui al Febbraio 2012, termine attuale di prescrizione, il processo Mills possa avere la sentenza di primo, secondo e terzo grado". La dichiarazione fa pensare: da un lato può non aver compreso che sarebbe sufficiente l'intervento della sentenza di primo grado, oppure si è confuso. Chissà.

Da parte loro Pd, Udc e Fli hanno abbandonato la commissione inorriditi davanti all'ennesima pillola amara. Ora, dopo la conclusione dei lavori della commissione giustizia, il ddl andrà alla Camera, quindi passerà nuovamente al Senato per l'approvazione definitiva, che tra l’altro pare cosa fatta. Nel testo sul processo breve depositato da Paniz si prevede anche l'obbligo di segnalazione, al ministro della Giustizia e al procuratore generale presso la Corte di Cassazione, del magistrato che non ha concluso l'iter processuale nei tempi stabiliti dalla legge. Questi valuteranno l’opportunità di eventuali provvedimenti disciplinari.

Curiosa norma, dato che è assodato che l’iter processuale in Italia sia piuttosto lungo. Quindi, invece di dare alla giustizia strumenti e risorse per procedere più spedita, prima fra tutte l’informatizzazione, è bene avvisare il magistrato fin d’ora: meglio che archivi la cosa e chiudi il processo, se non vuoi incorrere in un procedimento disciplinare.

 

di Mariavittoria Orsolato

La nomina del nuovo ministro dell’Agricoltura, Saverio Romano, segna l’ennesimo record per il governo Berlusconi. E’ infatti la prima volta nella storia della Repubblica - prima o seconda c’est la meme chose -  che il capo dello Stato sottolinea ufficialmente l’inadeguatezza e l’inopportunità di un neoministro che è indagato per reati di mafia. Forte dell’importante ruolo simbolico svolto nella settimana di celebrazioni per il cento cinquantenario dell’unità d’Italia, Napolitano ha redatto una nota in cui si legge che “dal momento in cui gli è stata prospettata la nomina dell’onorevole Romano a ministro dell’Agricoltura, ha ritenuto necessario assumere informazioni sullo stato del procedimento a suo carico per gravi imputazioni”.

Un colpo di reni, quello del Colle, che conferma la poca bontà che c’è in questo mini-rimpasto, attuato in extremis dopo le evidenti pressioni di Iniziativa Responsabile, il gruppo parlamentare costituitosi ad hoc per il voto di fiducia al governo dello scorso 14 dicembre. I Responsabili sono sicuramente persone intraprendenti: il transfuga dell’Idv Scilipoti si è appena proposto per portare in Parlamento le istanze del gruppo neofascista Casa Pound ed ora Romano riesce a strappare il ministero delle Politiche Agricole in cambio del si al conflitto di attribuzione per il processo Ruby.

Consci di ricattare Berlusconi grazie ai numeri risicati della maggioranza alla Camera, Romano e i suoi Responsabili hanno avanzato da subito richieste pressanti. Purtroppo il cavaliere, assorbito com’è dai suoi problemi giudiziari di ogni genere e sorta, non ha prestato sufficiente orecchio alle loro rivendicazioni e il 16 marzo per ben due volte il Governo è andato sotto su due emendamenti dell’opposizione al testo che istituisce il Garante per l’Infanzia, un voto non certo cruciale ma rispetto al quale c’era il parere contrario dell’esecutivo. L’indomani Romano ha convocato una conferenza stampa per mostrare il suo disappunto e, nonostante l’intervento si fosse aperto con toni duri verso la maggioranza, il deputato ha mutato repentinamente i modi dopo una sbrigativa telefonata del premier. In quei due minuti a microfoni spenti è probabile che sia stata confermata la poltrona di ministro al leader dei Responsabili.

Berlusconi è quindi alle strette: costretto ad inventarsi un rimpasto con soli due ministri, ha sacrificato il povero e fedele Sandro Bondi all’altare della realpolitik piazzando Giancarlo Galan - già pedina di scambio con la Lega per il governatorato del Veneto - ai Beni Culturali e trasferendo all’Agricoltura il siciliano Romano. Una nomina rischiosa, sicuramente forzata, tanto da far scomodare il Colle. Non è infatti la prima volta che viene assegnata una poltrona ad un personaggio ambiguo o con precedenti penali - l’ex sottosegretario all’economia  Cosentino è solo l’esempio più vicino alla memoria - ma, sebbene le accuse non siano ancora approdate a giudizio, è certamente straordinario il fatto che dal Quirinale venga emessa una nota sull’inopportunità politico-istituzionale del neoministro.

L’attenzione di Napolitano deriva dal fatto che Saverio Romano è stato descritto dal pentito Francesco Campanella come una persona “a disposizione” e votata dai boss di Villabate, Nicola e Nino Mandalà. I riscontri effettuati dagli inquirenti non sono stati sufficienti a sostenere in giudizio l’accusa di concorso in associazione mafiosa e i legali di Romano hanno inoltrato richiesta per archiviare l’ipotesi di reato contro il deputato dei Responsabili. Ma se per La Russa il problema di Romano è legato solo a lungaggini nell’archiviazione dei procedimenti in cui è coinvolto, da Palermo il giudice che ha esaminato la richiesta fissa per il primo aprile un’udienza in cui verranno ascoltate le parti e dove, dati i precedenti, è probabile venga decisa una proroga per le indagini a carico di Romano.

Questa non è però l’unica grana giudiziaria del neoministro. A seguito delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, Romano è indagato anche per corruzione aggravata dall’agevolazione di Cosa nostra e sebbene ad oggi non sia ancora stato imputato il suo nome figura nella sentenza di motivazione alla condanna a 7 anni di Totò Cuffaro. Certo, come puntualizzano piccati quelli del Giornale, il nuovo ministro dell’Agricoltura non è né mai stato condannato né tantomeno chiamato a giudizio ma a voler essere maliziosi le sue frequentazioni siciliane non paiono promettere nulla di edificante o tantomeno legale.

Dopo la nota del Colle il diretto interessato si è detto dispiaciuto e per dimostrare la sua buona fede ha affermato di non essere “mai stato a caccia di poltrone” e così dicendo ha interpretato il suo ingresso ufficiale nella squadra di governo come la “naturale evoluzione” delle mutate condizioni di forza della maggioranza. A molti, opposizione in primis, la sua nomina è parsa una sorta di estorsione ad un Berlusconi sempre più ricattabile e ancor meno autonomo nelle decisioni istituzionali. D’altronde, con la guerra che impazza a soli 350 kilometri dalle nostre coste, c’era davvero bisogno di eleggere in tutta fretta un nuovo ministro?

di Mariavittoria Orsolato

In pochi lo credevano realmente possibile ma la guerra è infine arrivata, a due passi dalle nostre coste. Il calderone nord africano era in ebollizione già dall’inverno ma allora si pensava che fossero questioni dirimibili tra loro, moti insurrezionali che magari avrebbero lasciato il tempo che trovavano. La preoccupazione maggiore, soprattutto tra gli abitanti della Sicilia - Lampedusa in primis - era montata dalle apocalittiche affermazioni del ministro dell’Interno Maroni che aveva vaticinato orde di clandestini in fuga, pronte a riversarsi sulle coste del belpaese.

Le previsioni del ministro leghista, se non si sono avverate immediatamente, si stanno concretizzando in questi giorni con lo scoppio della guerra in Libia e a Lampedusa è ormai emergenza. Solo nella notte di ieri sono sbarcati 1.470 gli immigrati arrivati con 13 diverse imbarcazioni, il centro di prima accoglienza  - che ha una capienza massima di 850 posti ma in questo momento conta 2400 ospiti - è praticamente tracimato per tutta l’isola che ora, con 5000 immigrati sul suo suolo, si ritrova  ad avere la popolazione letteralmente raddoppiata: per 5000 lampedusani ci sono 5000 migranti.

Nella maggiore delle Pelagie la tensione è alta: già lo scorso 17 marzo, in occasione delle celebrazioni per il centocinquantenario dell’unità, le istituzioni avevano ufficiato polemicamente le manifestazioni commemorative affermando di essere stati “abbandonati dallo Stato”, mentre domenica i cittadini si sono mobilitati per fermare le operazioni di sbarco del materiale per la realizzazione della tendopoli che, sulla carta, dovrebbe alleviare i disagi delle migliaia di migranti che ora si ritrovano letteralmente a bivaccare nella zona del porto.

Ci hanno provato prima i pescatori, tagliando la strada alla nave per impedirle di attraccare, poi gli altri da terra, creando un cordone per non far passare i container. “Non ce l’abbiamo con loro - dice un lampedusano - ma con il governo che li tiene qui così. La verità è che loro sono povera gente che scappa e noi povera gente confinata qui”. Il problema resta e anzi si aggrava di giorno in giorno, ma l’unica soluzione per non dover trattare gli immigrati come vere e proprie bestie è al momento quella approntata dalla Protezione Civile che, seppur orfana di Bertolaso, dimostra di continuare a non sapere gestire i “grandi eventi.

Cinquecento tende da piazzare nell’area della vecchia base militare Loran, già utilizzata come valvola di sfogo del centro di accoglienza, e la promessa di cominciare con i trasferimenti a un ritmo di 300-500 persone al giorno. Ma le promesse non bastano a placare gli abitanti dell’isola, la cui paura più grande consta non tanto nei continui sbarchi o nell’effettivo sovrannumero degli immigrati rispetto agli autoctoni: lo scenario peggiore prospettato dai lampedusani è che le cose rimangano così come sono, che una volta fatta la tendopoli questa rimanga li per sempre.

Numeri e scenari, dunque, che ricordano da vicino il dramma degli “sfollati” della seconda guerra mondiale; ma sarebbe sbagliato, sulla base degli ultimi avvenimenti, definire gli abitanti di Lampedusa alla stregua dei leghisti del Carroccio. Se sull’isola la tensione è alle stelle è perché i cittadini si sentono totalmente abbandonati dalle istituzioni e perché, in effetti, sono stati lasciati soli ad affrontare questa emergenza. Rassegnati ad essere la prima porta del Mediterraneo europeo, i lampedusani sono estranei all’effetto N.I.M.B.Y (Not In My Back Yard) ed anzi si sono dimostrati solidali in più occasioni con i migranti anche quando questi, non meno di due anni fa, “evasero” dal Cpa per protestare contro le condizioni in cui venivano arbitrariamente trattenuti.

Il problema, oggi come allora, è lo stesso: l’irragionevole lunghezza della permanenza dei migranti sull’isola. Stando al protocollo, infatti, gli extracomunitari non dovrebbero sostare nel centro di prima accoglienza per più di 48 ore; ma, nella realtà dei fatti, Lampedusa è l’unico approdo effettivo per tutti i migranti in attesa del rimpatrio coatto voluto dalla legge Bossi-Fini. Se però di riformare l’attuale legge sull’immigrazione non se ne parla nemmeno, sarebbe almeno auspicabile far si che i cavilli burocratici non intralcino l’opera dei tanti, dalle forze dell’ordine alla Croce Rossa, che si stanno prodigando assiduamente affinché la situazione non diventi del tutto disastrosa.

Il Governo però ha ben altro in mente: “Lampedusa sarà una zona franca - spiega il sindaco dell’isola Dino De Rubeis, contattato telefonicamente dal ministro agrigentino Angelino Alfano - avremo sconti sulle tasse, il territorio riceverà ristoro, faranno una campagna televisiva per promuovere il turismo”. Misure di facciata che più che fare la differenza sembrano orientate soprattutto a dare il cosiddetto “contentino” agli autoctoni.

Uno spot tv e qualche sforbiciata sulle imposte non vanno certo ad alleviare il peso che incombe sulla maggiore delle Pelagie ed è difficile che la popolazione, ora ancor più minacciata dopo l’apertura delle ostilità contro Gheddafi, si sazi di questa fuffa di facciata. Intanto al porto le carrette del mare continuano inarrestabili ad arrivare.

 

di Carlo Musilli

La guerra contro la Libia è certamente una tragedia. Lo è per il costo alto di vite umane e d’infrastrutture del paese e, prima ancora, per l’assassinio della sua sovranità nazionale. Che Gheddafi fosse da cacciare è vero, come è vero che avrebbero dovuto deciderlo in Libia e non a Bruxelles o New York. Ma che la fine del suo regno familiare dovesse avvenire in conseguenza della distruzione del suo paese e del ritorno delle sue ricchezze al colonialismo europeo, però, andava decisamente evitato. Ma nella tragedia, spesso, emerge anche il suo lato farsesco e, dunque, non si può non parlare del ruolo dell’Italia.

Berlusconi appare nelle foto ufficiali tra gli altri potenti del mondo, ma è l’unico momento di condivisione di questi ultimi con lui. Avrebbe potuto a ben ragione proporre una mediazione italiana per il conflitto e, anche dove si fosse rivelata impraticabile, avrebbe comunque potuto pretendere un ruolo italiano di primo livello nel decidere l’applicazione della risoluzione Onu nello spirito e nella lettera della stessa. Infine, avrebbe potuto pretendere, visto il ruolo del nostro Paese, un ruolo di direzione anche nella definizione delle strategie militari e politiche da applicare.

Invece, sottotono e sotto schiaffo per la sua immagine personale, è stato, semplicemente, snobbato, messo nell’angolo. Nemmeno invitato al summit che ha deciso le linee operative dell’attacco. Perché per tutte le Cancellerie è ormai imbarazzante aver a che fare con un soggetto simile, privo di qualsiasi credibilità interna ed internazionale, al punto che persino il presidente cileno Pinera, nei giorni scorsi a Roma, ha tenuto soprattutto a prendere le distanze dal premier italiano.

D’altra parte, la credibilità del cavaliere è pari a quella del suo ormai ex-amico di Tripoli. Addirittura, Gheddafi si era trovato al centro di un’elaborazione di strategia politica per il controllo dei flussi migratori, cioè uno dei temi più importanti del presente e del futuro per la governance internazionale. Che poi il Colonnello abbia concordato sulla soluzione insieme alla destra italiana è solo parte della tragedia e della farsa: da un lato la dimensione criminogena del Rais, dall’altro un gruppo di pensatori difficili da collocare nella storia della cultura politica di questo secolo.

Ad ogni modo, ciò che appare evidente è che nella riconquista coloniale della Libia, il retroscena è rappresentato dalla retrocessione dell’Italia a ultima provincia dell’Impero. Che il nostro paese sia il dirimpettaio immediato, dunque il più soggetto alle reazioni libiche, non conta; che ne sia il principale partner commerciale, e dunque quello che vedrà più colpita la sua bilancia dei pagamenti in generale e per il suo fabbisogno energetico in particolare, nemmeno. Che sia il Paese dove prevedibilmente si rovescerà il peso del flusso migratorio in fuga dalla guerra, e che quindi pagherà in termini economici e sociali il costo più alto, conta ancora meno.

Di fronte a ciò, un Paese sovrano avrebbe fatto sentire la sua voce. Benchè imbelle politicamente, é fondamentale tatticamente e operativamente. Dal governo italiano, se così si può chiamare quello in carica, ci saremmo attesi almeno un sussulto di decenza, vista la pesantissima eredità storica fatta di guerra, occupazione coloniale e sterminio che l’Italia ha nei confronti della Libia. E invece, a cento anni di distanza dall’avventura coloniale fascista e della tragedia che essa rappresentò, eccoci di nuovo in guerra con la “quarta sponda”.

Ironia della sorte e pena della storia, un fascista c’era (Graziani) e un postfascista c’è (La Russa) a guidare, esaltati, le reciproche aggressioni. Il ministro sanbabilino, infatti, ha indossato il fez e si è lanciato, eccitatissimo, verso l’agognata esposizione mediatica. Lui e Frattini elargiscono ammonimenti e avvertenze, è il loro momento di gloria. Ma fa parte del folklore governativo, cioè la sua modalità politica unica. Semmai è la Lega ad avere, come avvenne per l’aggressione alla Serbia, più di qualche ragionevole dubbio.

Quello che però meriterebbe una riflessione è l’atteggiamento dell’opposizione, che scendeva in piazza contro la guerra in Irak e lancia ora grida di guerra contro la Libia. Dopo l’infelice esperienza dei Balcani, era lecito illudersi che il centrosinistra potesse avere un sussulto di argomentazioni e ragionamenti sul senso vero delle cosiddette “guerre umanitarie”. Evidentemente così non è.

Nemmeno la storia di Mattei e di Moro, o di Andreotti, di Craxi, Dini o lo stesso Prodi (non giganti della sovversione, insomma) ha avuto licenza nelle scelte del Pd. Quando l’orizzonte ideale è rappresentato dall’adesione alle politiche statunitensi e la storia della politica estera e delle relazioni internazionali italiane nel Mediterraneo e in Medio Oriente viene ignorata, ci si può solo interrogare sulle differenze possibili - oltre a quelle concernenti lo stile di governo - tra il berlusconismo e il vuoto assoluto del Pd. C’è poco da stare allegri.

 

di Rosa Ana De Santis

Era a Torino, il 17 marzo del 1861, che si riuniva il Primo Parlamento d’Italia e che quel mosaico di particolarismi, ridotto a brandelli da invasori e occupazioni, assumeva dignità di un paese unito. Oggi i 150 anni. Arriva la festa nazionale dopo le aspre polemiche di governo, dovute soprattutto a quelle camice verdi che continuano a fingersi federaliste e che hanno in cuore il veleno della secessione. Gli stessi che qualche giorno fa hanno preferito andare al bar piuttosto che cantare Mameli, abbandonando il Consiglio della Regione Lombardia. La stessa cosa che è successa anche in Emilia Romagna, nella seduta dell’Assemblea Legislativa.

E’ stato per bocca di un artista, maschera del cinema italiano, che siamo riusciti a sentire dalla tv di Stato, scandita con emozione ma in un filo di voce estraneo alle parate d’occasione, la bellezza di un inno spesso vituperato, il valore di una storia di liberazione che la storiografia, con eccesso di semplificazione, ha sempre tolto al popolo e ai giovani italiani e ha affidato unicamente al Conte di Cavour e alla mappa delle alleanze massoniche. E’ stato il Festival di Sanremo a rilanciare sulle prime pagine di giornali e Tg il Risorgimento e la sua importanza.

Segno tangibile di un imbarazzante silenzio delle Istituzioni. Un’assurdità tutta italiana che solo la mediazione della destra al governo con la Lega può rendere più comprensibile e per questo ancora più insopportabile. Grazie anche a questi tentennamenti di convenienza,  l’Italia si riempie a stento di tricolori. Cerimonie pubbliche, concerti, celebrazioni fin nei più piccoli comuni sembrano “commemorazioni dovute”, non partecipate. Nel Nord, in particolare in Veneto, il governatore Zaia, dopo l’iniziale dissociazione dalla festa nazionale, annuncia cerimonie striminzite, quasi obbligate e mal sopportate dal suo elettorato. Il calendario delle celebrazioni istituzionali scandito dal Comitato nato appositamente per il 150° attraversa tutto l’anno e tutto il paese. Un calendario appiccicato alla sua vita reale.

E’ un caso e una dolorosa combinazione che la celebrazione dell’unità nazionale capiti in un anno come questo. Lacerato da tensioni e contraddizioni: da un lato i volgarissimi scandali che hanno travolto le Istituzioni e che hanno abbassato profondamente il livello della politica nazionale e la stessa agenda di governo; dall’altro le altissime ambizioni riformatrici che vorrebbero invece arrivare alle radici della giovanissima storia italiana. Una polarità insidiosa, che pone un’ipoteca altissima sul corso dei prossimi eventi politici e che ha definitivamente tramortito il comune sentire degli italiani.

L’informazione quotidiana passa dalle fotografie delle prostitute dell’Olgettina alla riforma della giustizia, dai battibecchi tra il Presidente della Camera e il premier Berlusconi agli annunci sulla necessità di riformare la Costituzione e la giustizia. Come possa un paese tanto lacerato dall’alto affrontare e costruire passaggi storici così importanti è l’interrogativo rimosso, annacquato da chi, governo in testa, onorerà questa festa per dovere di retorica lasciando la società civile in una navigazione a vista, fatta di una rassegnazione senza precedenti nei riguardi del paese e delle sue sorti.

La dialettica politica è ormai priva di tensione e di passione, ruota intorno alle quisquilie del gossip e ai personalismi di turno. Persino sulla memoria dell’unità si è riusciti ad evitare di trattare questioni fondamentali, dando in pasto ai cittadini gli scarti della polemica sul giorno di vacanza e sui suoi costi. Miseria di un paese che non ha ancora capitalizzato il suo bagaglio di esperienza e la sua stessa storia di unità, così vicina nel tempo e così troppo giovane, contrariamente a quanto sembra. Così poco matura da rendere ancor più pericolose le spinte eversive di divisione, che oggi invece siedono in Parlamento votate a furor di popolo.

Questo doveva essere il primo impegno delle Istituzioni. Far tacere chi ha nostalgia dei regni antichi, fidandosi di quello che i padri del Risorgimento avevano capito 150 anni fa. Che valore ha una commemorazione senza memoria? L’unica Italia che tutti amiamo, senza divisioni e distinzioni, quella in cui ci riconosciamo immediatamente, è quella del passato e delle nostre eccellenze di arte e d’ intelletto. Lì sta tutto il nostro orgoglio nazionale, lì è annidato tutto l’amor di patria. Quello che esportiamo all’estero come un marchio e che sentiamo nel cuore al cospetto di tanti capolavori di bellezza creati dall’ingegno italiano.

E, almeno per questo, forse ci fa più male veder sprofondare Pompei che non la Lega che diserta l’Inno. E per questo oggi nessuno si stupisce se il Parlamento sembra diventata una provincia del Bagaglino. Né qualcuno di noi si rammarica di aver visto più tricolori appesi alle finestre per l’ultimo mondiale di calcio che non per la festa della nostra Patria.

 

 


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