di Rosa Ana De Santis

Il 26 febbraio scorso, il Premier, intervenendo al congresso dei cristiani riformisti, si è lanciato in un bizzarro e all’apparenza imprevisto, manifesto di regole morali. La difesa della famiglia, il divieto categorico alle unioni omosessuali, mai adozioni a single o a coppie gay. Vestendo i panni di un improbabile sacerdote del focolare il Presidente del Consiglio si è proposto come difensore della famiglia naturale e tradizionale. La strategia è la stessa, spudorata e vincente, cui ci ha abituati il nostro manager di Palazzo Chigi.

Il rilancio sugli stessi argomenti del tracollo e della perdita di consenso con una virata verso il rigore, cui mancava solo il cilicio. Con la consueta faccia tosta Silvio Berlusconi sa bene che, in pieno scandalo Rubygate e in piena arena giudiziaria, rilanciare la propria immagine da uomo che si confessa peccatore, ma che conosce bene dove sia il buono e il bene, paga in termini di voti; assolve lui e assolve tutti quelli come lui o che come lui vorrebbero essere. Soprattutto se la platea degli uditori è una vecchia costola di DC, tanto più utile in piena guerra fredda con i porporati e con il cattolico umore generale del paese.

Il dato più importante non è tanto il noto decalogo del conservatorismo ancorato al diritto naturale, quanto il fatto che a farlo sia un governo, per bocca del suo capo, che ha fondato ogni difesa dell’incontinenza erotica di Berlusconi, con l’argomento della politica autonoma dalla morale. Se questo vale nelle case del premier e dentro i suoi letti, dove possono entrare minorenni e prostitute a sfregio di ogni legge e non solo di ogni rettitudine, perché quel che conta è il suo ruolo pubblico, non si capisce perché la scure della moralità (la loro peraltro) debba entrare nella vita relazionale degli omosessuali ad esempio.

Perché i loro affetti e sentimenti debbano essere considerati meno nobili e meno puri di quelli eterossessuali che sarebbero, così pare, gli unici ad essere nobilitati dalla dignità dell’unione familiare. Aldilà del disgusto per chi crede in questa teoria, quale danno pubblico procurano alla società civile e al paese queste preferenze sessuali? Se non si nuoce ad alcuno perché si dovrebbe subire una discriminazione di diritti individuali? Non è molto poco liberale questo approccio?

Lasciando fuori dal comizio l’adozione dei bambini, che obbliga ad un ragionamento sui diritti speciali dell’infanzia, la questione degli omosessuali svela tutta l’illiberalità e tutta la finta realpolitik del governo e del suo satrapo. Una vera politica liberale non avallerebbe alcuna discriminazione pubblica sulla base della preferenza sessuale dei singoli, non perché sia immorale, ma soprattutto perché sarebbe ininfluente nella vita pubblica. Una politica liberale autentica ragionerebbe sempre sulla scala dei danni e i benefici della società e scoprirebbe che un Presidente del Consiglio in combutta con Lele Mora, che costruisce variazioni della Magna Charta per sfuggire alla legge e che consuma rapporti sessuali a ripetizione con minorenni, é un uomo che danneggia la credibilità del Paese. E questo si che è un problema politico serio e grave.

I valori che Berlusconi conosce sono quelli amministrati dal ragionier Spinelli ed é evidente che un uomo con la sua condotta non ha la più pallida idea di cosa sia una famiglia, se non nella versione più maschilista e violenta che tante lacrime costa ancora a questo Paese. E’ altresì evidente che un uomo che smarca la morale rivendicando l’efficacia della sua politica non ha alcuna credibilità né titolo quando parla di relazioni, sentimenti, tradizioni per sua stessa ammissione. Tantomeno quando sostiene che la scuola pubblica, quella di Stato aperta a tutti, è contraria alle regole date in famiglia ai ragazzi. E chiarisce bene cosa intende quando alla fine, con un colpo di stile, invita tutti ad andare al bunga bunga.

Il sorriso delle barzellette è il modo goliardico con cui Berlusconi confeziona la politica delle illusioni. Al mattino si votano i valori, meglio se medievali per sentirsi in grazia di dio, e alla sera si fanno i peccati. A patto che la legge dello Stato non ne veda nessuno, nemmeno quando nuoce a qualcuno o alla dignità di una nazione intera. Nemmeno quando, per intenderci, questi peccati si chiamano reati.

di Mariavittoria Orsolato

Con un calendario giudiziario che nemmeno Al Capone, Silvio Berlusconi si ritrova braccato dai procedimenti pendenti a suo carico: dal caso Ruby al processo Mills, sono almeno sei le udienze che lo aspettano da qui al fatidico 6 aprile. Riunito il gotha di azzeccagarbugli personali, l’onorevole Ghedini in testa, il premier ha varato quindi la nuova campagna di primavera contro la giustizia: intercettazioni e processo breve sono le priorità assolute ma non mancano le solite velleità di modifica costituzionale su carriere e Csm. Asso nella manica, l’ennesima legge ad personam, una versione riveduta e corretta della Cirielli che prevedrebbe la decurtazione di un quarto della prescrizione per gli imputati incensurati, categoria in cui - a onor di paradosso - appartiene anche Silvio Berlsuconi.

Immunità no, processo breve sì. Così si pronunciava Umberto Bossi solo due giorni fa, facendo emergere un evidente patto di scambio tra la Lega e il Pdl, e così sarà: il voto definitivo sul federalismo in cambio della nuova spallata di Berlusconi sul fronte della giustizia, quella per lui più urgente. Urgente a tal punto che la calendarizzazione per la discussione sul processo breve è già fissata per il 28 marzo. L’obiettivo è quello di vedere approvato il provvedimento entro fine aprile, così facendo il premier dovrebbe riuscire a ipotecare almeno due dei suoi processi, quello per la corruzione dell’avvocato inglese David Mills e quello riguardante i presunti fondi neri Mediaset previsti rispettivamente per l’11 marzo e il 28 febbraio prossimi.

Se il processo Mills ha buone probabilità di arrivare alle sentenze di primo grado e appello, in quanto Berlusconi è l’unico imputato, quello istruito per appurare la provenienza e la liceità dei fondi finanziari Mediaset ha mietuto la prima vittima proprio l’altro ieri: a cadere sotto la spada di Dike è stato il fedelissimo Massimo Maria Berruti, deputato Pdl alla Camera ed ex capitano della Guardia di Finanza già coinvolto in storiacce di tangenti, che è stato condannato a due anni e dieci mesi per riciclaggio.

La giustizia incalza e l’ennesimo colpo di spugna per imbellettare l’inadeguatezza giuridica del premier è dunque necessario. Il guardasigilli Alfano ammette candidamente che la maggioranza è consapevole del fatto che le leggi di riforma costituzionale della giustizia hanno bisogno di almeno due anni di lavori parlamentari. Il tempo però stringe e nonostante il team legale di Berlusconi si stia arrovellando per escogitare un’accelerazione dei tempi conforme alle prescrizioni, il rimbrotto che Napolitano ha rivolto verso l’esecutivo nei giorni scorsi non fa ben sperare.

In riferimento al ddl mille proroghe, il presidente della Repubblica ha stigmatizzato “la prassi irrituale con cui si introducono nei decreti legge disposizioni non strettamente attinenti al loro oggetto”, cosa che - ha sottolineato - “si pone in contrasto con puntuali norme della Costituzione, delle leggi e dei regolamenti parlamentari, eludendo il vaglio preventivo spettante al Capo dello Stato in sede di emanazione dei decreti-legge”. La lettera di Napolitano ha fatto calare il gelo tra il Colle e Palazzo Chigi ed è molto probabile che la propulsione data al processo breve venga letta come una forzatura.

Per quanto riguarda i numeri Berlusconi conta, nemmeno troppo velatamente, sulle defezioni multiple che stanno affliggendo il neonato partito finiano. Dopo l’eclatante addio di quello stesso Barbareschi che leggeva commosso il manifesto di Futuro e Libertà, quattro senatori hanno abbandonato nei giorni scorsi il gruppo legato a Gianfranco Fini. Il tutto mentre a Montecitorio si litiga sul nome del nuovo capogruppo alla Camera; designato Benedetto Della Vedova, Adolfo Urso si è risentito e, nonostante si sia detto pronto a restare, non si sente “sereno”. La collocazione dei fuoriusciti non è ancora definita ma il Cavaliere spera di tirare acqua al suo mulino.

Da quanto ha denunciato lo scorso giovedì il deputato Gino Bucchino, medico eletto in Canada nella lista del Pd come deputato estero, la moneta di scambio consta in ciò: 150.000 euro elargiti come contributo volontario, rielezione assicurata in Parlamento nella prossima legislatura e uno spazio di visibilità garantito all'interno del gruppo di responsabilità nazionale nella legislatura in corso.

Berlusconi è coriaceo, nemmeno i disastrosi avvenimenti in Libia e i soliti documenti poco diplomatici di Wikileaks sembrano scalfire la sua imperitura sbruffonaggine. Già si allena per le sue prossime performances al banco degli imputati: giovedì, durante il discorso rivolto ai cadetti della Scuola ufficiali dei carabinieri ha detto che se non avesse “fatto ciò che fatto, gli sarebbe piaciuto fare il carabiniere”. Incorreggibile.

 

di Carlo Musilli

Che l'Italia abbia venduto ai ribelli libici le armi per la rivoluzione è probabilmente una calunnia del rais Gheddafi. Che l'Italia abbia venduto al rais Gheddafi molte delle armi con cui l'esercito sta massacrando i ribelli libici, invece, è un dato di fatto. Veicoli terrestri e aeromobili, siluri, missili, razzi e bombe di ogni sorta: per Tripoli il nostro Paese è come un Babbo Natale con la sacca piena di bei giocattoli. Nessuno in Europa ha rifornito l'arsenale del regime più di noi.

Soltanto nel biennio 2008-2009, stando ai dati pubblicati dalla Ong Unimondo, le ditte Italiane hanno spedito in Libia armamenti per oltre 205 milioni di euro. Una cifra astronomica che ci fa salire spediti sul gradino più alto del podio. Al secondo posto la Francia, superata per distacco, con le sue misere esportazioni da 143 milioni di euro.

Complessivamente, la Libia è l'undicesimo miglior acquirente di armi italiane e riceve circa il 2% delle nostre esportazioni. Eppure, l'armeria italiana non è sempre stata così munifica con i suoi figli nordafricani. La vera cuccagna è iniziata solo nel 2004, quando l'Unione Europea ha revocato l'embargo totale sulla Libia. Ancora nel 2006, il giro d'affari non arrivava ai 15 milioni di euro, ma già l'anno successivo i conti sono schizzati fino a sfiorare i 57 milioni.

Dopo di che a Berlusconi e Gheddafi è parso opportuno unire i due paesi in regolare matrimonio con il "Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione fra Italia e Libia", firmato a Bengasi nell'agosto 2008. All'articolo 20, il documento che sancisce la nostra "amicizia" col regime di Tripoli, prevede "un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari" e perfino un'ampia "collaborazione nel settore della Difesa tra le rispettive Forze Armate".  Arriviamo così ad esportare armamenti per quasi 112 milioni di euro del 2009. In tre anni, un incremento del 746%.

Tanto calorose sono state le nostre dimostrazioni di fratellanza, che non poteva mancare una contropartita. Abbiamo ottenuto materie prime e un occhio di riguardo per le nostre maggiori imprese attive in Libia: Eni, Anas, Impregilo e, soprattutto, Finmeccanica. Quest'ultima è una holding con 328 società controllate, specializzata prevalentemente nel settore della difesa e della tecnologia aerospaziale. Quanto alla proprietà, il 32,5% di Finmeccanica è del ministero dell'Economia.

Il secondo azionista, guarda un po', è la Lybian Investment Authority, che ha in tasca il 2,01%. Si tratta di un fondo sovrano, cioè un veicolo d’investimento pubblico, per quanto la definizione abbia senso in un regime dittatoriale.

Il laccio che lega la realtà italiana a quella libica è diventato indissolubile nel luglio 2009, quando Finmeccanica e Lybian Investment Authority hanno creato una joint-venture da 270 milioni di euro per gestire gli investimenti industriali e commerciali in Libia e in altri paesi africani.

Tutto questo la dice lunga sul comportamento del nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini. Mentre i suoi colleghi europei interrompevano i rifornimenti di armi a Gheddafi, lui è rimasto in silenzio. E quando ha aperto bocca lo ha fatto per dire ai microfoni dei giornalisti europei frasi come questa: "Non dobbiamo dare l'impressione sbagliata di voler interferire, di voler esportare la nostra democrazia.

Dobbiamo aiutare, dobbiamo sostenere la riconciliazione pacifica: questa è la strada". Evidentemente qualcuno a Bruxelles deve avergli fatto presente che al momento in Libia c'è la guerra civile, perché, subito dopo la riunione comunitaria di alcuni giorni fa, Frattini si è convinto ad essere un tantino più incisivo, condannando "la repressione in corso contro i manifestanti" e chiedendo “l'immediata fine dell'uso della forza".

I motivi d’imbarazzo non sono mancati neanche durante il vertice. L'Italia ha infatti appoggiato la proposta del ministro maltese di inserire nel comunicato Ue una frase per riconoscere "i diritti sovrani della Libia e la sua integrità territoriale". Fortunatamente, i rappresentanti di altri paesi hanno intuito che un'affermazione del genere poteva suonare come una legittimazione della mattanza in corso e li hanno convinti a lasciar perdere. Ma c'è un ultimo dettaglio da notare. Nella speciale classifica degli esportatori di armi in Libia, che ci vede gloriosamente in testa, chi troviamo al terzo posto? Proprio Malta. Ma guarda..

di Rosa Ana De Santis

Il Sindaco Alemanno annuncia gli Stati Generali della Capitale al pari di un debutto. Va in scena il piano strategico di sviluppo di Roma, la pianificazione di un progetto socio-economico generale anche in vista delle Olimpiadi del 2020. Le parole d’ordine della Giunta Capitolina sono competitività, solidarietà e sostenibilità. A guastare la festa, la concomitanza, poco gradevole, di arrivare a quest’appuntameno con una giunta rimpastata da poco e con gli scandali di parentopoli sulle municipalizzate che ancora scottano. Per non parlare degli ultimi stupri in pieno centro storico e dell’incendio costato la vita a quattro bambini nomadi.

La seduta al Palazzo dei Congressi dell’Eur è iniziata con l’allontanamento da parte delle forze dell’ordine dei presidenti dei Municipi di centro-sinistra che distribuivano volantini di protesta. L’avvenimento, giustificato con la mancata autorizzazione al sit in, rappresenta invece la quintessenza di come Sindaco e giunta abbiano governato la città negli ultimi tre anni.

Accentramento, scollamento tra Campidoglio e territorio, superfinanziamenti destinati allo staff del Sindaco e alla sua squadra sovradimensionata di addetti alla comunicazione. Il tutto in una cornice di gradimento popolare sempre più basso, di cui la sconfitta della Polverini su Roma alle ultime regionali ne era già stata una prova evidente.

I numeri del piano strategico di sviluppo rimandano a una sfida complessa che avrà bisogno del massimo impegno e della più rigorosa responsabilità da parte delle Istituzioni capitoline. Questo il messaggio arrivato dal presidente della Repubblica. Parliamo, infatti, di progetti per 21,9 miliardi, di cui 3,5 già attivati per quanto riguarda il pubblico e 240 milioni per quanto riguarda il privato. Tutti da spendere per salvaguardare il passato di Roma e preparare al meglio la città per tutti i traguardi futuri.

Quindi si parlerà di una Roma Internazionale e della necessità di costruire un melting pot per gli stranieri, di un’Agenzia per lo sviluppo utile ad ottimizzare gli sforzi degli imprenditori romani che hanno contribuito a svecchiare Roma e a reggere benissimo l’urto della crisi economica. Infine le Olimpiadi: occasione di business e anche di tonnellate di cemento. Speriamo almeno non con lo stesso epilogo delle strutture incomplete e lasciate a metà per gli ultimi Mondiali di nuoto.

Non c’è dubbio che un effetto d’immagine immediato questa parata di Istituzioni, Accademie e Industriali lo abbia ottenuto, rimandando Alemanno in prima pagina non più per gli scandali delle assunzioni all’Ama e all’Atac e tacendo tutti i problemi irrisolti. Non si è infatti accennato, nella kermesse elettoralistica del sindaco, alle perle che lo hanno etichettato ormai come Ale-danno: la sicurezza, lo smantellamento dei grandi campi rom abusivi, il rimpallo con la Regione sul sito di Malagrotta e la politica dei rifiuti; quindi la gestione a singhiozzo della raccolta differenziata, l’alto indice di disoccupazione giovanile, la mancata riqualificazione di tante aree non solo periferiche che versano nel peggior degrado.

Su questi “dettagli” hanno provato a rinfrescare la memoria al sindaco i Municipi esiliati dalla parata istituzionale e identificati in piena atmosfera di regime. Alemanno risponde con il progetto di Tor Bella Monaca di Leon Krier, con l’idea di fare della periferia un altro Eur e con un super ampliamento dell’aeroporto di Fiumicino.

Insomma Alemanno racconta, nella sontuosità di questi stati generali, un’altra Roma. Diversa da quella che vede ogni giorno la gente comune. Il Sindaco annuncia una città in vita, ricca di opportunità e di slanci, di modernità, con una fittissima agenda davanti a sé. Per ora manca anche solo una parola per i cittadini, per i disoccupati, per le famiglie in difficoltà e per gli stranieri. Ma gli Stati Generali non sono per loro e nemmeno per i romani. Servono tanto invece a questa Giunta, alla sua politica arrotolata su se stessa, allo sfarzo del grande vertice che nasconderà per un attimo le nefandezze su cui sta indagando la magistratura.

Quelle che fanno saltare i nervi al sindaco ad ogni intervista con fin troppa evidenza. Ma oggi è il giorno del futuro e della speranza, le polemiche sono quasi di cattivo gusto. La nuova Roma sarà non soltanto fucina d’idee, ma anche grande cantiere e quindi lavoro per tanti. Speriamo non per altri mille figli e amanti degli amici.

di Rosa Ana De Santis

C'é voluto un decreto per dire che l'Unità d'Italia é una festa. E ci siamo dovuti anche sorbire le proteste della Lega secessionista. Riuscire a trasformare una data simbolica così importante per il nostro Paese in un’opera buffa, irriverente e grottesca, non era un’impresa semplice; eppure questo è quello che accadeva da diversi giorni. Lo show della Lega, la Gelmini che vorrebbe tutte le scuole aperte, la Marcegaglia che striglia gli operai e poi La Russa, imbarazzato cantore obbligato del Risorgimento e della Bandiera. Un Arlecchino in commedia come degno ritratto di un paese frammentato, che non ha fatto molta strada dal tempo dei principati e dei piccoli Stati.

Anche Giuliano Amato, presidente del Comitato dei Garanti per le celebrazioni dei 150 anni dell'Unita' d'Italia, ha suggerito di non pensare il 17 marzo come una giornata obbligata di vacanza, ma piuttosto come un momento di ricordo e di memoria dei valori del Risorgimento. Un giorno tutto da pensare: educazione civica per i giovanotti, lavoro per ricordare i sacrifici che ci chiede la crisi, quasi l’enfasi di un sacrificio collettivo per la nostra Patria in alto mare.

Nemmeno i versi più gonfi dell’enfasi poetica risorgimentale avrebbero intonato l’amor di patria con tanta retorica. Ci pensa invece questo governo allo sbaraglio, senza vocazione politica, privo di credibilità e promotore di un assalto alla dignità delle Istituzioni a dare lezioni. Soprattutto ci pensa la Lega, la madre di tutti i sentimenti di divisione, di pericoloso secessionismo, di avversione al tricolore, al buon senso e alla cultura, a dare le linee della ricorrenza. Una beffa, mal celata dalla necessità che persino il Ministro Gelmini sente di denunciare la sua iniziativa come autonoma e non appiattita alle volontà di Calderoli e dintorni.

L’idea che dare la vacanza di un giorno agli italiani sia un lusso che la nostra economia non può permettersi, suona poco credibile a chiunque abbia un po’ di buon senso. Chi vede la minaccia di una vacanza è invece chi pensa e legge la crisi guardando solo al portafoglio delle imprese, quando è piuttosto condiviso il dato che non sia stata la sofferenza della produzione a causare la crisi endemica che sta tagliando le teste,  soprattutto delle nuove generazioni.

Se si volessero commemorare sul serio i padri del Risorgimento si dovrebbe pensare a reintrodurre una materia tanto svilita come l’educazione civica. Si dovrebbe difendere la religione della Carta costituzionale sempre, oltre che volentieri. Non serve tanto ingegno a capire che è in atto un boicottaggio leghista della Festa che celebra l’Unita d’Italia e che il governo, incollato per sopravvivere alle camice verdi e lanciato nell’impresa di fare poltiglia dei principi fondanti della Repubblica e del sistema di pesi e contrappesi che la protegge, segue l’onda lunga di un conveniente suicidio della Patria.

Perché la storia è un fastidio, la Costituzione anche. E’ questo ciò che documenta la cronaca del peggior Parlamento della storia italiana. Dobbiamo togliere tutte le ricorrenze costose e poco adeguate al rigore etico che ci impone crisi. Questo è il monito della polemica delle ultime ore?

Se proprio la necessità di non interrompere la produzione dev'essere la priorità (e fa ridere di per sè) nei festeggiamenti delle ricorrenze, potremmo iniziare da quelle religiose che non appartengono a tutti, ad esempio. L’Immacolata Concezione dell’8 dicembre e l’Assunta in cielo del 15 agosto, tanto per cominciare.

E ancora, gli innumerevoli patroni cittadini, così scomodi per le aziende che hanno sedi in diverse città; e quel 6 gennaio dell’Epifania, così troppo italiano e legato alla storia delle streghe terrone del beneventano. E poi concludere mettendo le mani su tutte quelle del calendario civile. Di questo passo il Parlamento di Arcore proporrà di azzerare il 25 Aprile, che sebbene sia la giornata che celebra la ritrovata dignità nazionale, la cacciata dell'invasore straniero e dei fascisti suoi alleati, per alcuni è la ricorrenza di una liberazione che puzza un po’ di comunismo; e poi quel 2 giugno inutile, che forse racconta anche di una vittoria elettorale dubbia.

Iniziamo con questo 17 marzo, che proprio non possiamo permetterci nemmeno per un anno, perché quel giorno bisogna produrre rigorosamente in nome dell’Italia. Come se questo servisse alle sorti dei cassintegrati, dei precari cronici e dei disoccupati. Menzogne che riempiono di battibecchi il Consiglio dei Ministri, che dovrà prendere una decisione definitiva (immaginiamo la fervente discussione!!), e che occultano le reali ragioni della palude in cui stagna questo Paese. Delle soluzioni non c’è traccia, tantomeno in casa dell’opposizione che, chiusa in preghiera in attesa del papa (straniero?) non tira fuori mezza parola se non per divertirsi dello spettacolo di un governo che riesce a dividersi perfino su questo.

Se le scuole rimarranno aperte, sarà bene che la Gelmini preveda una lezione speciale per quelli che il tricolore lo bruciano e lo vilipendono quando lo vedono pendere sulle adunate del Carroccio. E sarebbe ancora meglio se questa si tenesse in Parlamento alla presenza di tutti gli onorevoli deputati, tra una votazione e l’altra. Mentre le fabbriche producono e gli uffici sono aperti. Forse l’emiciclo non sarebbe stipato, osiamo immaginare.

Questa festa la sua funzione l’ha comunque pienamente assolta. Non solo quella di mostrare le differenze e le divisioni che caratterizzano la nostra democrazia e che ne segnano tutta la debolezza, ma quella di ricordare che senza un processo calcolato e non spontaneo, dall’alto e similmassonico, gli italiani l’Italia unita non l’avrebbero fatta mai.

Togliendo ogni slancio di fiducia al programma di Cavour, oggi possiamo esser certi che mentre l’Italia c’è e rimarrà, gli italiani non esisteranno mai. Le fratture di cultura, di clima, di geografia e di psicologia e un comune tratto di facile affascinamento al padrone, sono condizioni che configurano il nostro come lo strano caso di un paese senza popolo.

Una massa che si lascia schiaffeggiare, depauperare, togliere ogni storia; che ammette ogni abuso delle Istituzioni senza avvertire la nausea di un oltrepassamento senza ritorno, irreparabile e pericoloso. Massa che si destreggia tra un tiranno e una liberazione importata. Con poche, pochissime eccezioni di eroismo patriottico, le cui ultime pagine vennero scritte nelle strade di Genova nel Luglio del ‘60.

Un paese condannato a non conoscere mai il gusto di una rivoluzione. Magari intendeva questo il mai troppo rimpianto Giorgio Gaber quando cantava di non sentirsi italiano. “Ma - concludeva - per fortuna o purtroppo lo sono”.

 


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