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di Rosa Ana De Santis
Non ci sarà l’election day, stando a quanto indicato nel decreto del governo in firma nei prossimi giorni. Una decisione che sarebbe stata sensata in termini di risparmio economico e di affluenza elettorale. Approfittando infatti delle elezioni amministrative del 15 e del 16 maggio, gli italiani avrebbero potuto, con occasione, esprimersi sul referendum relativo alla privatizzazione dell’acqua, sul nucleare e sul legittimo impedimento. Quesiti referendari che toccano argomenti politici non tanto al centro dell’agenda di governo, ma con scottanti e problematiche ricadute su tutta la società civile. Facile ipotizzare che unendo tutte le votazioni ad anno scolastico ancora aperto, il quorum sarebbe stato facilmente raggiunto.
Ed è questo l’unico motivo, senza dubbio, per cui Maroni, in nome del governo, ha annunciato che i tre quesiti saranno spostati al12 giugno, quando l’estate sarà iniziata e quasi tutte le scuole saranno ormai chiuse per invitare gli italiani ad andarsene al mare e a non perdere l’ennesimo fine settimana per le votazioni. Lui dice per onorare una prassi consolidata nella tradizione italiana, ma lo dice con lingua biforcuta. Questa prassi - come la chiama il governo - o questa strategica scissione delle date, costa alle tasche degli italiani, secondo le stime delle opposizioni, almeno 350 milioni di euro.
Un’operazione che suona inopportuna in tempo di crisi. Non era stata proprio la teoria della crisi a rendere, fino a pochi giorni fa, insicura la festa nazionale del 17 marzo? Una data storica tanto importante e di alto valore simbolico che poteva essere messa in discussione come un lusso che la situazione economica del paese non poteva permettersi, così dicevano i padani. A quanto pare queste preoccupazioni non ci sono più o, banalmente, si cerca un modo per disincentivare l’elettorato, già demotivato e poco partecipe, ad andare alle urne per esprimere un parere proprio su ciò che più riguarda la loro vita e i diritti costituzionali fondamentali.
Si tratta infatti di ostacolare la mercantilizzazione dell’acqua, di impedire la riattivazione delle centrali nucleari che oltre a rappresentare una forma di energia vetusta minacciano il nostro diritto alla salute e, infine, la difesa di quel diritto costituzionale fondamentale che ci vuole tutti uguali di fronte alla legge. Tanto per chiedere a questo famoso popolo che ha eletto il Presidente del Consiglio cosa ne pensa dell’abusato suo legittimo impedimento.
Questo governo, pur di non facilitare i comitati promotori del referendum e pur di affossare con ogni mezzuccio “truffaldino” - come lo chiama Articolo 21 - la possibilità che gli italiani si esprimano su questioni fondamentali è disposto a sprecare così tanto denaro pubblico. Una doppia beffa e un doppio insulto a questo Paese cui le opposizioni, Idv in testa, replicano con accuse pesantissime e con una mozione alla Camera per l’election day.
La scelta del governo, oltre a denunciare paura per i quesiti referendari, esprime ancora una volta l’orientamento di chi guida il nostro Paese, seguendo la prassi di smarcare i grandi temi della politica e le questioni urgenti che toccano la vita reale dei cittadini e di occupare l’agenda del Parlamento con i guai giudiziari del premier e con le sue disperate arringhe di difesa. Un paese in ostaggio di un personalismo i cui unici pericolosi precedenti non sono poi tanto lontani nelle pagine della storia.
E’ proprio per questa operazione fatta ad arte, che rischia di annullare milioni di firme e di svuotare uno strumento democratico tanto efficace come il referendum, che c’è bisogno di un colpo di reni, di uno scatto di volontà partecipativa da parte degli elettori. Ci piacerebbe che non ci fossero partenze ed esodi prima di aver risposto alle domande del referendum. Che le persone andassero alle urne come quando hanno scelto il loro sindaco alle ultime elezioni o il presidente di regione qualche mese fa o, persino, il premier alle ultime politiche. Che la parabola discendente dell’affluenza elettorale non impedisse il raggiungimento del quorum.
Perché questa sarebbe l’ennesima sconfitta simbolica oltre che reale di chi cerca di riportare il paese alle forme e ai contenuti di una piena democrazia. Non quella televisiva per capirci, non quella di Ruby Rubacuori, non quella che ci manda in vacanza e butta i nostri soldi dalla finestra mentre il paese si riempie di disoccupati, non quella che ci venderà l’acqua come una merce preclusa ai poveri, o che ci sotterrerà le scorie radioattive nei mari di casa, magari con qualche appalto affidato ai Casalesi. Non quella in cui il premier eletto dal popolo è al di sopra della legge dello Stato. Perché, prima o poi, ci sveglieremo dalle fiction e troveremo un Paese che della libertà avrà conservato solo le loro bandiere.
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di Cinzia Frassi
Pensiamo ad uno di quei telefilm americani dove succede di tutto. Mettiamoci quattro co-protagonisti: carabinieri molto poco fedeli alla fiamma, ricattatori, protettori di trans e dei loro pusher, con svariate irruzioni e scorribande in vari appartamenti per cogliere in flagrante i clienti dei trans, requisire loro droga, preziosi, denaro e arrotondare lo stipendio con qualche ricatto. Mettiamoci poi che una bella sera uno dei loro pusher li informi che un politico, un pezzo grosso, sia a casa di un trans e che questi quindi si trovino, giusto per caso, a fare irruzione proprio nell’abitazione del trans in questione.
Cosa fanno a questo punto i quattro in divisa? Naturalmente girano un breve filmato con il telefonino, mettendo anche sul tavolo della droga che poi naturalmente fanno sparire, era giusto una comparsa. Poi incalzano (diciamo così) il governatore a consegnare tutto il denaro di cui dispone in quel momento, prospettandogli le fatali conseguenze di una divulgazione del filmato e delle circostanze in cui si trova. Non ancora soddisfatti, lo costringono anche a compilare assegni per pagare il loro silenzio.
Un brutto film sì. Ma, come in tutti i film americani, ci scappa anche il morto. Un pusher tossicodipendente, informatore dei quattro co-protagonisti, assume una dose di droga eccessiva, un mix letale per farlo stare zitto, dato che le circostanze del caso sono ad un tratto cambiate e va assolutamente scongiurato il rischio che il pusher possa cantare.
Nel nostro paese, dove la realtà supera sempre film, telefilm, serial e la fantasia, accade anche questo. Così, mentre un capo di governo organizza festini con minorenni (ma questo è un altro film) la procura di Roma chiude le indagini sul caso Marrazzo, ex presidente della Regione Lazio, coinvolto in un piano per ricattarlo, estorcergli denaro e forse rovinargli la carriera, la famiglia, la vita.
Il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo e il pm Rodolfo Sabelli, alla conclusione delle indagini che avrebbero ricostruito il presunto ricatto nei confronti dell'ex presidente della Regione Lazio e chiarito molte circostanze dell'omicidio del pusher Ginaguarino Cafasso, hanno chiesto il rinvio a giudizio per quattro carabinieri, all'epoca dei fatti in servizio presso la compagnia Trionfale, Nicola Testini, Luciano Simeone, Carlo Tagliente e Antonio Tamburrino; della trans José Alexander Vidal Silva (Natalie), sorpresa con Marrazzo il 3 luglio 2009 nel suo appartamento di via Gradoli, e di tre pusher, Emiliano Mercuri, Massimo Salustri e Bruno Semprebene.
Resta invece ancora aperta l’inchiesta sulla morte del trans Brenda. Gli atti depositati parlano di associazione per delinquere, omicidio volontari aggravato, concussione, violazione della legge sugli stupefacenti, rapina, favoreggiamento, perquisizioni illegali. Questi i reati indicati in ben 26 capi d'accusa a carico degli otto indagati.
Niente male, ce ne sarebbe per farne una nuova serie tv. “Sono consapevole che la situazione ha assunto un rilievo pubblico di tali dimensioni da rendere oggettivamente e soggettivamente inopportuna la mia permanenza alla guida della Regione, anche al fine di evitare nel giudizio dell'opinione pubblica la sovrapposizione tra la valutazione delle vicende personali e quella sull'esperienza politico-amministrativa”. Questa era una dichiarazione di Piero Marrazzo che risale al 24 ottobre 2009. Evitare la sovrapposizione tra vicende personali con l’esperienza politico amministrativa. Non ci sono reati. Non ha commesso reati. Si tratta di una vicenda personale, di fatti che semmai possono avere rilievo famigliare.
Senza bisogno di scomodare ancora e per l’ennesima volta il bunga bunga del nostro presidente del Consiglio e le vicende legate ai giri dei suoi festini, pensiamo a quanti siedono o sono stati seduti sulle comode poltrone della politica pur avendo commesso reati - anche con un rilievo molto stretto con le loro mansioni - e che ancora vi siedono. Pensiamo a quanti nomi con condanne passate in giudicato risalenti alla famosa stagione di tangentopoli ancora passeggiano tra Montecitorio e Palazzo Chigi. O a coloro che hanno - ad esempio - condanne definitive per concorso esterno in associazione mafiosa.
Potremmo continuare. Va da se che in questa vicenda non sono i reati ad aver fatto la differenza, dato anche che pare non siano nemmeno più di grande rilievo per spostare il consenso. Quindi mettiamo da parte la fedina penale. Certo, andrebbe ricordato l’art. 54 della Costituzione al secondo comma recita: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Devono adempiere le loro funzioni, cioè il loro lavoro, il mandato. E la vita privata? E’ privata, fino a che non costituisce reato.
Il punto nevralgico della questione allora potrebbe essere legato esclusivamente all’aspetto sessuale della vicenda: un politico, anzi no, un uomo, colto a spassarsela, diciamo così. Anche qui però diventa difficile orientarsi. Anche qui potremmo fare qualche nome, qualcuno addirittura non si è nemmeno dimesso. C’è chi ne avrebbe fatto addirittura un'abitudine, un sistema standard di “divertimento”, come il nostro presidente del Consiglio. Quindi, nemmeno da qui se ne esce. Certo, ci sarebbe da dire che siamo nei confini del belpaese, dove sull’onda del volemose bene, tutto si può fare. Nel resto del mondo l’elenco di politici di vario calibro che si sono dimessi per vicende sessuali di vario tipo sarebbe assai lungo.
Va da se che all’estero i politici si vedono costretti a dimettersi per cose che da noi fanno sorridere, come aver copiato una tesi di dottorato, vicenda che ha portato alle dimissioni del ministro della Difesa tedesco, il barone zu Guttenberg. Quindi, difficile stabilire una regola in politica. Difficile però anche stabilire i motivi per cui in una vicenda così grave per le condotte delle persone (anche in divisa) coinvolte, per il ricatto e per lo sciacallaggio successivo da parte di politica e parte della stampa, abbia spazzato via una carriera, un bravo giornalista, un politico.
Difficile anche capire certi giornali che ancora si accaniscono. Libero, lo scorso 1 febbraio, ha lanciato in prima pagina il titolone: "Marrazzo ci ricasca" e nell'occhiello "l'ex governatore del Lazio fermato dai carabinieri ad un posto di blocco”. Aggiunge anche: "E la procura di Milano chiede il processo immediato per Berlusconi". Nella fattispecie Piero Marrazzo, che ha querelato il giornale in questione, è stato fermato da una pattuglia a bordo della sua auto, mentre accompagnava un trans a casa. Niente eccesso di velocità o altre infrazioni, documenti a posto. Anche qui nessun reato, nessuna infrazione, multa, droga. Niente. Se non le urla degli house organ del padrone che alza il polverone scopo lotta politica. Indegna.
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di Rosa Ana De Santis
Il 26 febbraio scorso, il Premier, intervenendo al congresso dei cristiani riformisti, si è lanciato in un bizzarro e all’apparenza imprevisto, manifesto di regole morali. La difesa della famiglia, il divieto categorico alle unioni omosessuali, mai adozioni a single o a coppie gay. Vestendo i panni di un improbabile sacerdote del focolare il Presidente del Consiglio si è proposto come difensore della famiglia naturale e tradizionale. La strategia è la stessa, spudorata e vincente, cui ci ha abituati il nostro manager di Palazzo Chigi.
Il rilancio sugli stessi argomenti del tracollo e della perdita di consenso con una virata verso il rigore, cui mancava solo il cilicio. Con la consueta faccia tosta Silvio Berlusconi sa bene che, in pieno scandalo Rubygate e in piena arena giudiziaria, rilanciare la propria immagine da uomo che si confessa peccatore, ma che conosce bene dove sia il buono e il bene, paga in termini di voti; assolve lui e assolve tutti quelli come lui o che come lui vorrebbero essere. Soprattutto se la platea degli uditori è una vecchia costola di DC, tanto più utile in piena guerra fredda con i porporati e con il cattolico umore generale del paese.
Il dato più importante non è tanto il noto decalogo del conservatorismo ancorato al diritto naturale, quanto il fatto che a farlo sia un governo, per bocca del suo capo, che ha fondato ogni difesa dell’incontinenza erotica di Berlusconi, con l’argomento della politica autonoma dalla morale. Se questo vale nelle case del premier e dentro i suoi letti, dove possono entrare minorenni e prostitute a sfregio di ogni legge e non solo di ogni rettitudine, perché quel che conta è il suo ruolo pubblico, non si capisce perché la scure della moralità (la loro peraltro) debba entrare nella vita relazionale degli omosessuali ad esempio.
Perché i loro affetti e sentimenti debbano essere considerati meno nobili e meno puri di quelli eterossessuali che sarebbero, così pare, gli unici ad essere nobilitati dalla dignità dell’unione familiare. Aldilà del disgusto per chi crede in questa teoria, quale danno pubblico procurano alla società civile e al paese queste preferenze sessuali? Se non si nuoce ad alcuno perché si dovrebbe subire una discriminazione di diritti individuali? Non è molto poco liberale questo approccio?
Lasciando fuori dal comizio l’adozione dei bambini, che obbliga ad un ragionamento sui diritti speciali dell’infanzia, la questione degli omosessuali svela tutta l’illiberalità e tutta la finta realpolitik del governo e del suo satrapo. Una vera politica liberale non avallerebbe alcuna discriminazione pubblica sulla base della preferenza sessuale dei singoli, non perché sia immorale, ma soprattutto perché sarebbe ininfluente nella vita pubblica. Una politica liberale autentica ragionerebbe sempre sulla scala dei danni e i benefici della società e scoprirebbe che un Presidente del Consiglio in combutta con Lele Mora, che costruisce variazioni della Magna Charta per sfuggire alla legge e che consuma rapporti sessuali a ripetizione con minorenni, é un uomo che danneggia la credibilità del Paese. E questo si che è un problema politico serio e grave.
I valori che Berlusconi conosce sono quelli amministrati dal ragionier Spinelli ed é evidente che un uomo con la sua condotta non ha la più pallida idea di cosa sia una famiglia, se non nella versione più maschilista e violenta che tante lacrime costa ancora a questo Paese. E’ altresì evidente che un uomo che smarca la morale rivendicando l’efficacia della sua politica non ha alcuna credibilità né titolo quando parla di relazioni, sentimenti, tradizioni per sua stessa ammissione. Tantomeno quando sostiene che la scuola pubblica, quella di Stato aperta a tutti, è contraria alle regole date in famiglia ai ragazzi. E chiarisce bene cosa intende quando alla fine, con un colpo di stile, invita tutti ad andare al bunga bunga.
Il sorriso delle barzellette è il modo goliardico con cui Berlusconi confeziona la politica delle illusioni. Al mattino si votano i valori, meglio se medievali per sentirsi in grazia di dio, e alla sera si fanno i peccati. A patto che la legge dello Stato non ne veda nessuno, nemmeno quando nuoce a qualcuno o alla dignità di una nazione intera. Nemmeno quando, per intenderci, questi peccati si chiamano reati.
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di Mariavittoria Orsolato
Con un calendario giudiziario che nemmeno Al Capone, Silvio Berlusconi si ritrova braccato dai procedimenti pendenti a suo carico: dal caso Ruby al processo Mills, sono almeno sei le udienze che lo aspettano da qui al fatidico 6 aprile. Riunito il gotha di azzeccagarbugli personali, l’onorevole Ghedini in testa, il premier ha varato quindi la nuova campagna di primavera contro la giustizia: intercettazioni e processo breve sono le priorità assolute ma non mancano le solite velleità di modifica costituzionale su carriere e Csm. Asso nella manica, l’ennesima legge ad personam, una versione riveduta e corretta della Cirielli che prevedrebbe la decurtazione di un quarto della prescrizione per gli imputati incensurati, categoria in cui - a onor di paradosso - appartiene anche Silvio Berlsuconi.
Immunità no, processo breve sì. Così si pronunciava Umberto Bossi solo due giorni fa, facendo emergere un evidente patto di scambio tra la Lega e il Pdl, e così sarà: il voto definitivo sul federalismo in cambio della nuova spallata di Berlusconi sul fronte della giustizia, quella per lui più urgente. Urgente a tal punto che la calendarizzazione per la discussione sul processo breve è già fissata per il 28 marzo. L’obiettivo è quello di vedere approvato il provvedimento entro fine aprile, così facendo il premier dovrebbe riuscire a ipotecare almeno due dei suoi processi, quello per la corruzione dell’avvocato inglese David Mills e quello riguardante i presunti fondi neri Mediaset previsti rispettivamente per l’11 marzo e il 28 febbraio prossimi.
Se il processo Mills ha buone probabilità di arrivare alle sentenze di primo grado e appello, in quanto Berlusconi è l’unico imputato, quello istruito per appurare la provenienza e la liceità dei fondi finanziari Mediaset ha mietuto la prima vittima proprio l’altro ieri: a cadere sotto la spada di Dike è stato il fedelissimo Massimo Maria Berruti, deputato Pdl alla Camera ed ex capitano della Guardia di Finanza già coinvolto in storiacce di tangenti, che è stato condannato a due anni e dieci mesi per riciclaggio.
La giustizia incalza e l’ennesimo colpo di spugna per imbellettare l’inadeguatezza giuridica del premier è dunque necessario. Il guardasigilli Alfano ammette candidamente che la maggioranza è consapevole del fatto che le leggi di riforma costituzionale della giustizia hanno bisogno di almeno due anni di lavori parlamentari. Il tempo però stringe e nonostante il team legale di Berlusconi si stia arrovellando per escogitare un’accelerazione dei tempi conforme alle prescrizioni, il rimbrotto che Napolitano ha rivolto verso l’esecutivo nei giorni scorsi non fa ben sperare.
In riferimento al ddl mille proroghe, il presidente della Repubblica ha stigmatizzato “la prassi irrituale con cui si introducono nei decreti legge disposizioni non strettamente attinenti al loro oggetto”, cosa che - ha sottolineato - “si pone in contrasto con puntuali norme della Costituzione, delle leggi e dei regolamenti parlamentari, eludendo il vaglio preventivo spettante al Capo dello Stato in sede di emanazione dei decreti-legge”. La lettera di Napolitano ha fatto calare il gelo tra il Colle e Palazzo Chigi ed è molto probabile che la propulsione data al processo breve venga letta come una forzatura.
Per quanto riguarda i numeri Berlusconi conta, nemmeno troppo velatamente, sulle defezioni multiple che stanno affliggendo il neonato partito finiano. Dopo l’eclatante addio di quello stesso Barbareschi che leggeva commosso il manifesto di Futuro e Libertà, quattro senatori hanno abbandonato nei giorni scorsi il gruppo legato a Gianfranco Fini. Il tutto mentre a Montecitorio si litiga sul nome del nuovo capogruppo alla Camera; designato Benedetto Della Vedova, Adolfo Urso si è risentito e, nonostante si sia detto pronto a restare, non si sente “sereno”. La collocazione dei fuoriusciti non è ancora definita ma il Cavaliere spera di tirare acqua al suo mulino.
Da quanto ha denunciato lo scorso giovedì il deputato Gino Bucchino, medico eletto in Canada nella lista del Pd come deputato estero, la moneta di scambio consta in ciò: 150.000 euro elargiti come contributo volontario, rielezione assicurata in Parlamento nella prossima legislatura e uno spazio di visibilità garantito all'interno del gruppo di responsabilità nazionale nella legislatura in corso.
Berlusconi è coriaceo, nemmeno i disastrosi avvenimenti in Libia e i soliti documenti poco diplomatici di Wikileaks sembrano scalfire la sua imperitura sbruffonaggine. Già si allena per le sue prossime performances al banco degli imputati: giovedì, durante il discorso rivolto ai cadetti della Scuola ufficiali dei carabinieri ha detto che se non avesse “fatto ciò che fatto, gli sarebbe piaciuto fare il carabiniere”. Incorreggibile.
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di Carlo Musilli
Che l'Italia abbia venduto ai ribelli libici le armi per la rivoluzione è probabilmente una calunnia del rais Gheddafi. Che l'Italia abbia venduto al rais Gheddafi molte delle armi con cui l'esercito sta massacrando i ribelli libici, invece, è un dato di fatto. Veicoli terrestri e aeromobili, siluri, missili, razzi e bombe di ogni sorta: per Tripoli il nostro Paese è come un Babbo Natale con la sacca piena di bei giocattoli. Nessuno in Europa ha rifornito l'arsenale del regime più di noi.
Soltanto nel biennio 2008-2009, stando ai dati pubblicati dalla Ong Unimondo, le ditte Italiane hanno spedito in Libia armamenti per oltre 205 milioni di euro. Una cifra astronomica che ci fa salire spediti sul gradino più alto del podio. Al secondo posto la Francia, superata per distacco, con le sue misere esportazioni da 143 milioni di euro.
Complessivamente, la Libia è l'undicesimo miglior acquirente di armi italiane e riceve circa il 2% delle nostre esportazioni. Eppure, l'armeria italiana non è sempre stata così munifica con i suoi figli nordafricani. La vera cuccagna è iniziata solo nel 2004, quando l'Unione Europea ha revocato l'embargo totale sulla Libia. Ancora nel 2006, il giro d'affari non arrivava ai 15 milioni di euro, ma già l'anno successivo i conti sono schizzati fino a sfiorare i 57 milioni.
Dopo di che a Berlusconi e Gheddafi è parso opportuno unire i due paesi in regolare matrimonio con il "Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione fra Italia e Libia", firmato a Bengasi nell'agosto 2008. All'articolo 20, il documento che sancisce la nostra "amicizia" col regime di Tripoli, prevede "un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari" e perfino un'ampia "collaborazione nel settore della Difesa tra le rispettive Forze Armate". Arriviamo così ad esportare armamenti per quasi 112 milioni di euro del 2009. In tre anni, un incremento del 746%.
Tanto calorose sono state le nostre dimostrazioni di fratellanza, che non poteva mancare una contropartita. Abbiamo ottenuto materie prime e un occhio di riguardo per le nostre maggiori imprese attive in Libia: Eni, Anas, Impregilo e, soprattutto, Finmeccanica. Quest'ultima è una holding con 328 società controllate, specializzata prevalentemente nel settore della difesa e della tecnologia aerospaziale. Quanto alla proprietà, il 32,5% di Finmeccanica è del ministero dell'Economia.
Il secondo azionista, guarda un po', è la Lybian Investment Authority, che ha in tasca il 2,01%. Si tratta di un fondo sovrano, cioè un veicolo d’investimento pubblico, per quanto la definizione abbia senso in un regime dittatoriale.
Il laccio che lega la realtà italiana a quella libica è diventato indissolubile nel luglio 2009, quando Finmeccanica e Lybian Investment Authority hanno creato una joint-venture da 270 milioni di euro per gestire gli investimenti industriali e commerciali in Libia e in altri paesi africani.
Tutto questo la dice lunga sul comportamento del nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini. Mentre i suoi colleghi europei interrompevano i rifornimenti di armi a Gheddafi, lui è rimasto in silenzio. E quando ha aperto bocca lo ha fatto per dire ai microfoni dei giornalisti europei frasi come questa: "Non dobbiamo dare l'impressione sbagliata di voler interferire, di voler esportare la nostra democrazia.
Dobbiamo aiutare, dobbiamo sostenere la riconciliazione pacifica: questa è la strada". Evidentemente qualcuno a Bruxelles deve avergli fatto presente che al momento in Libia c'è la guerra civile, perché, subito dopo la riunione comunitaria di alcuni giorni fa, Frattini si è convinto ad essere un tantino più incisivo, condannando "la repressione in corso contro i manifestanti" e chiedendo “l'immediata fine dell'uso della forza".
I motivi d’imbarazzo non sono mancati neanche durante il vertice. L'Italia ha infatti appoggiato la proposta del ministro maltese di inserire nel comunicato Ue una frase per riconoscere "i diritti sovrani della Libia e la sua integrità territoriale". Fortunatamente, i rappresentanti di altri paesi hanno intuito che un'affermazione del genere poteva suonare come una legittimazione della mattanza in corso e li hanno convinti a lasciar perdere. Ma c'è un ultimo dettaglio da notare. Nella speciale classifica degli esportatori di armi in Libia, che ci vede gloriosamente in testa, chi troviamo al terzo posto? Proprio Malta. Ma guarda..