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di Fabrizio Casari
L’accordo con la Newco Fiat, siglato ieri dai sindacati governativi guidati da Bonanni e Angeletti con la benedizione di un esultante Sacconi, che coglie così la sua vendetta covata da anni contro la Cgil, rappresenta la quintessenza del nuovo modello di relazioni industriali. Che possono, sostanzialmente, essere così riassunte: il comando d’impresa sostituisce la dialettica tra le componenti sociali e il governo del Paese abbandona definitivamente il ruolo terzo per entrare a piedi uniti nel piatto di una vendetta ideologica sognata da decenni.
L’interesse delle imprese diventa l’unico riferimento della società, la quale perde ogni funzione di rappresentanza degli interessi generali per trasformarsi in fornitrice silente di braccia a basso costo e menti sgombre da diritti di qualsivoglia natura. Il contratto nazionale di lavoro, che sancisce la sintesi tra i diversi bisogni delle parti sociali, viene nei fatti abolito per assegnare alla contrattazione d’impresa il luogo unico della decisionalità in quanto luogo unico dell’affermazione d’interessi.
E’ uno strappo violento e volgare alle regole stabilite, che scavalca le organizzazioni di categoria da un lato e il ruolo del governo dall’altro, che ferisce nel profondo la democrazia italiana, già gravemente malata. Marchionne gongola, perfettamente cosciente che negli stessi States, pedissequamente citati come fonte ispiratrice dei suoi modelli industriali, nessuna amministrazione, nemmeno repubblicana, avrebbe mai permesso un accordo di questo tipo. Perché quanto siglato non ha nessuna attinenza con la necessità di attrezzare un gruppo industriale alla sfida della concorrenza internazionale, è solo una dichiarazione di guerra contro il sindacato. Cioè contro la Cgil e, più significativamente, contro la Fiom, principale organizzazione dei metalmeccanici.
Questo è il senso dell’accordo: lo scambio vergognoso tra lavoro e diritti. Non c’è nessuna idea di come reinventare e riprogrammare la produzione industriale nell’era della globalizzazione e della crisi profonda del turbo capitalismo. Semplicemente, si ritiene il comando d'impresa come l'alfa e l'omega delle politiche del lavoro. S’instaura quindi una lettura delle politiche industriali che, guardandosi bene dal proporre cosa e quanto produrre in relazione al fabbisogno interno ed alle strategie di import-export, si concentra sul come, proponendosi di fronte alla competizione internazionale con una equazione semplice: salari e diritti da terzo mondo per reazlizzare profitti da primo mondo.
Quest’accordo sancisce che lo Statuto dei lavoratori, come fosse una Multipla, viene rottamato. I diritti, sanciti dalla Costituzione e dalla giurisprudenza del lavoro, diventano un pallido ricordo. La funzione sociale dell’impresa, prevista dalla Carta, diviene un fastidioso orpello da cancellare magari per via legislativa; non appena si presentassero le condizioni per una riforma costituzionale sarà certamente tra i primi articoli della Carta ad essere sbianchettato.
La storiella dell’adeguamento ai tempi di crisi dei diritti viene spacciata pressocchè all’unanimità, ma è palesemente fumo negli occhi. Perché la questione non è se la Fiat continua o no ad investire in Italia. L’Italia ha garantito alla Fiat, per oltre mezzo secolo, privilegi e sostegni finanziari senza i quali l’azienda torinese avrebbe chiuso. Senza i pesanti costi sociali sostenuti dalla fiscalità generale, l’azienda della famiglia Agnelli non avrebbe avuto la possibilità di sbagliare tutta la sua politica di crescita e sviluppo industriale e rimanere comunque a drenare risorse e accantonamenti.
Devono allora essere dei marziani i manager tedeschi della Wolkswagen, che continuano a tenere la leadership del mercato e ad aumentare i profitti, pur pagando salari di gran lunga superiori a quelli italiani e senza mettere in discussione la struttura delle relazioni industriali. Invece però di passare al vaglio le abnormi responsabilità di un management incapace e di una famiglia che si è distinta anche nell’esportazione illecita di capitali all’estero, la Fiat sposta ulteriormente l’asticella con l’ennesimo ricatto che propone al paese, confidando nel governo e nella sua capacità di condizionamento dei sindacati gialli per nascondere la polvere dell’incapacità di stare sul mercato sotto il tappeto delle regole. Se Marchionne pensa di vendere 30 milioni di auto in Europa nel corso del 2011, allora più che piegare i lavoratori italiani dovrebbe piegare i consumatori europei al delirio di Corso Marconi.
Ma se l’accordo e la definitiva rottura sindacale rappresentano una tragedia, la farsa è rappresentata dal Pd. Che - si poteva dubitarne? - è diviso sulla valutazione dello stesso. Intendiamoci, il PD è ormai diviso su tutto e nemmeno sulle previsioni del tempo il suo gruppo dirigente potrebbe trovare un minimo di sintesi che facesse vagamente intravvedere brandelli di sinistra.
Bene ha fatto Landini a suggerire agli esponenti del PD di andare in fabbrica invece di stare sbracati sulle onorevoli poltrone. “Andate alla catena di montaggio e poi vedremo se continuerete a ragionare in questo modo” ha detto il leader FIOM a Fassino e Chiamparino, che si sono distinti nel lodare l’accordo. La diagnosi per il PD, più che d’incapacità a riconoscere le culture di provenienza, sembra ascrivibile ad un disturbo d’identità ormai cronico.
Ma la divisione del PD su questo è ancora più grave di quelle ormai note sui temi eticamente sensibili, sulla politica economica e su quella estera, sulle alleanze politiche e sulla natura della crisi; è più grave perché priva di sponda parlamentare e istituzionale la FIOM e tutti coloro che si oppongono a quest’accordo.
Dopo gli studenti e i precari, ora anche gli operai saranno privi di sponda politica, di rappresentanza e interlocuzione istituzionale. E il fatto che solo Nichi Vendola e Di Pietro (oltre a Ferrero) abbiano alzato la voce contro questo sfregio alla democrazia, racconta più di mille righe edotte e analitiche il futuro dell’opposizione.
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di Giuliano Luongo
Volendo riassumere l’interessante percorso della nostra politica energetica nel periodo più recente dell’era di Silvio I, si può osservare quanto le liaisons con noti personaggi del panorama politico internazionale abbiano influito sulle “nostre” scelte, più che il vero intento a cercare nuove soluzioni energetiche per un paese non esattamente benedetto dalla presenza di combustibili fossili.
Le ipotesi riguardanti l’introduzione dell’atomo tra le fonti energetiche del paese hanno ripreso a farsi sentire a partire dal secondo governo Berlusconi, come una delle tante armi di propaganda e campagna elettorale continua. Un’eventuale (re)introduzione dell’energia nucleare non veniva vista come un atto contrario alla volontà popolare, la quale - secondo l’entourage di Arcore - era stata viziata, all’epoca del referendum del 1987, dal disastroso incidente di Chernobyl.
Per chi non lo avesse a mente, ricordiamo che in Italia il processo di “nuclearizzazione” della produzione energetica era già stato avviato: dalla metà degli anni ’60 il nostro paese faceva parte di un progetto di sperimentazione anglo-americano di differenti tecniche di produzione di energia tramite centrali nucleari.
Con l’americana Westinghouse come impresa “madrina”, erano state approntate tre strutture, modelli simili a prototipi per sperimentare all’estero dei reattori capostipite delle filiere presenti rispettivamente oltremanica ed oltreoceano. La prima centrale nucleare, sita nei pressi di Latina, entrò in funzione nel 1963: nell’arco di una ventina di mesi videro la luce quelle site a Sessa Aurunca (CE) ed a Trino (VC). I lavori di costruzione della quarta centrale iniziarono il 1° gennaio del 1970 a Caorso (PC).
Durante gli anni ’70 fu studiato un piano energetico nazionale, che dava grande risalto a questa nuova fonte: esso ebbe tuttavia un rallentamento come conseguenza dell’incidente avvenuto alla centrale americana di Three Mile Island, a seguito del quale vennero ripensate molte delle procedure di sicurezza da mantenere in un impianto, in particolare riguardo ai circuiti di raffreddamento.
In ogni caso, il 1982 vide gettare le prime pietre di un ulteriore impianto, sito a Montalto di Castro (VT). Il resto è storia nota, nel 1987 passarono quattro referendum abrogativi, forieri del rifiuto della maggior parte dei cittadini italiani sui seguenti quesiti: possibilità al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) di decidere sulla localizzazione delle centrali nel caso in cui gli enti locali non decidono entro tempi stabiliti; compenso agli enti locali che avrebbero dato l’ok all’installazione di centrali nucleari o a carbone; alla norma che consente all’ENEL di partecipare ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di centrali nucleari all'estero.
Referendum quasi plebiscitario (si arrivò sull’80% dei non-consensi per uno dei quesiti), grazie al quale non si testimoniava solo il mancato apprezzamento della soluzione nucleare, ma anche un determinato modo di amministrare lo “sviluppo” energetico del territorio a livello sia locale che nazionale. Il piano energetico andò pian piano abbandonato: le centrali di Latina e Trino, progettate per funzionare 25-30 anni dall’accensione del reattore, furono lasciate spegnersi. Solo Caorso, in effetti, fu spenta in “anticipo”, senza poi dimenticare che, a causa di guasti, l’impianto di Sessa Aurunca era già KO dal 1982 e le riparazioni erano state definite “antieconomiche” e pertanto abbandonate. Le scorie radioattive prodotte sono tuttora stoccate per la maggior parte in Francia ed Inghilterra: quelle rimaste presso Trino hanno prodotto dei rilasci incontrollati nel 2006, ma al momento il sito di stoccaggio sembra pulito. Sembra.
E torniamo a noi: le prime idee lanciate dai “forzisti” erano alquanto vaghe, apparentemente legate solo alle solite logiche di propaganda neo-maccartista contro i misteriosi comunisti e le loro scarsamente applicabili idee di energie alternative. In seguito però, con lo stringersi dei legami tra Arcore e Mosca, sono state paventate ipotesi ben più “tangibili” per il ritorno all’atomo. A margine dei tanti accordi in tema di forniture di gas, Berlusconi ha allacciato con Putin numerose trattative per l’ottenimento di nuove tecnologie per la costruzione di centrali nucleari.
L’ultimo capitolo di questa avventura è alquanto recente, risalente allo scorso aprile, quando il nostro premier decretava la nuova svolta del nucleare in Italia grazie al supporto russo. L’incontro tenutosi a Lesmo ha gettato le basi per una partnership di ricerca tra i due paesi (programma Ignitor) e l’annuncio di una prima nuova centrale in tre anni. Al momento di tali dichiarazioni c’era ancora Scajola a piede libero, ergo pesate il tutto. Il premier inoltre prendeva l’esempio francese come esempio di successo “opera di convincimento” dell’opinione pubblica per far meglio accettare questo nuovo trend.
Ecco, i francesi: siamo in partnership anche la con la EdF per le tecnologie nucleari. Sarkozy è stato ed è tutt’ora uno dei più grandi sostenitori del nucleare sia in Francia che in Europa tutta: si è impegnato largamente per sabotare i progetti di approvvigionamento energetico differente (si veda il Nabucco) o semplicemente per mantenere il controllo francese sul nucleare stesso (si veda come ha fatto finire la divisione nucleare della Siemens nelle mani della russa Rosatom).
Tale genietto della geoeconomia non ha potuto fare a meno di contare Silvio nei suoi piani, e per far ciò ha siglato un’ampia intesa politica sullo sviluppo del nucleare, con particolare attenzione- almeno sulla carta - al fattore sicurezza, probabilmente nell’ottica di captatio benevolentiae dell’opinione pubblica di cui sopra.
Soffermiamoci ora un secondo a riflettere su questa duplice alleanza su due fronti opposti, partendo da quello più enigmatico, ossia quello russo. Mentre i giornali davano ovviamente molto meno risalto a Mosca rispetto a Parigi, dobbiamo far notare che la base della rinuclearizzazione viene proprio dalle steppe, incrementando ancor più la dipendenza energetica dai russi.
Le centrali Rosatom hanno inoltre la peculiarità di fungere solo tramite combustibile prodotto dalla TVEL, altra ditta russa: come hanno imparato a proprie spese gli ucraini in sede di molte centrali riattivate, rifornirsi da una delle due compagnie russe impone di farlo anche dall’altra, vista l’incompatibilità critica dei prodotti di queste imprese con quelli di altre (specie con la Westinghouse).
Pare che per bilanciare questo problemino sia stata fatta l’apertura ai francesi, ma è evidente che stiamo solo cercando di dividerci tra due cresi dell’energia che sfrutteranno solamente il nostro territorio come sede di sperimentazioni tecniche e per fare oggettivamente soldi a palate. Tutto questo senza dimenticare le eventuali difficoltà di installazione di centrali sul suolo italiano, vista la legislazione fallace sul tema e la pioggia di clamorosi NO venuti da un po’ tutte le amministrazioni locali in tema di localizzazione impianti, anche da quelle ufficialmente sotto l’egida del Cavaliere.
Senza dimenticare quanto stia divenendo sempre più bipartisan l’idea del revival atomico: dal caro Veronesi fino a Morando, persino la pseudo sinistra nostrana mostra un’apertura, segnale del fatto che la torta da spartire sembra appetitosa e realizzabile. Dunque, possibilità predatorie non stop? Siamo in Italia, non facciamo domande retoriche.
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di Mario Braconi
“La crisi economica attuale si deve soprattutto a un'eclissi etico-culturale che ha inciso in modo determinante sull'economia e sulla finanza mondiale”. Così Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello IOR, a margine di un convegno su “La questione economica come questione culturale e morale”, organizzato dalla Fondazione Lepanto lo scorso 23 novembre. Parole forse condivisibili, ma a patto di non andare ad approfondirle troppo.
Preludono, infatti, ad un insensato peana alla crescita demografica incontrollata) ma che, alla luce dei recenti incidenti giudiziari occorsi al brillante finanziere “di Dio”, si rivelano fastidiosamente moralistiche. Dal 21 settembre scorso Gotti Tedeschi, assieme al Direttore Generale dello IOR Paolo Cipriani, è indagato per violazione delle leggi antiriciclaggio della Repubblica Italiana.
La pietra dello scandalo è una doppia transazione, del valore complessivo di 23 milioni di euro, che lo IOR avrebbe disposto verso la banca JP Morgan di Francoforte e la banca del Fucino tramite il Credito Artigiano (controllato dal Credito Valtellinese, il cui presidente, Giovanni De Censi, siede anche nel Consiglio di Sovrintendenza dello IOR).
Ironicamente, sembra che la denuncia che ha messo nei guai i due alti dirigenti dello IOR sia stata effettuata proprio da De Censis, mentre è verosimile che l’operazione, fortissimamente voluta da Cipriani a dispetto della sua evidente pericolosità, potrebbe essere stata veicolata attraverso una banca “amica” proprio nella speranza di poter beneficiare di un’interpretazione blanda della legge.
Il danno per la banca vaticana è stato doppio: al gravissimo colpo all’immagine subìto (Gotti Tedeschi avrebbe dovuto far dimenticare tutte le malefatte di Marcinkus e soci, ma sembra che la Banca del Vaticano non riesca a tenersi lontana da corruzione e malaffare), si aggiunge il sequestro dell’intera somma da parte delle autorità giudiziarie.
Il 20 dicembre il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi ed il PM Stefano Rocco Fava, argomentano il loro reciso “niet” alla richiesta di dissequestro dei 23 milioni, presentata dagli avvocati della banca del Vaticano: sono parole precise ed attente, le loro, come si conviene in questi casi, ma che gettano una seria ipoteca sulla buona fede dell’Istituto. Secondo i legali dello IOR il denaro che affluisce sui conti di corrispondenza dello IOR è per definizione di proprietà dello IOR stesso: questa interpretazione giustificherebbe la mancata segnalazione in Banca d’Italia delle transazioni rilevanti. Non a caso Gotti Tedeschi si è difeso sin dall’inizio sostenendo che le operazioni incriminate fossero semplici girofondi, ovvero trasferimenti in cui ordinante e beneficiario coincidono.
Secondo gli inquirenti, è proprio il modo in cui lo IOR intende la natura dei conti di corrispondenza a creare condizioni favorevoli al loro impiego per veicolare “operazioni di assai dubbia liceità”. Come ogni altra banca, lo IOR intrattiene infatti con le varie banche italiane rapporti di conto corrente di corrispondenza; conti tecnici, cioè, che vengono impiegati per regolare le transazioni intercorse giornalmente tra un istituto e l’altro.
Il fatto è che lo IOR utilizzerebbe detti conti in modo libero, per non dire spregiudicato: secondo la Guardia di Finanza, essi, oltre ad accogliere il riflesso contabile delle operazioni effettivamente concluse dai clienti dello IOR, vengono spesso usati per “parcheggiare” giacenze provenienti da assegni, bonifici eccetera, per periodi di tempo indeterminato, circostanza che cozza con “la transitorietà che dovrebbe caratterizzare i conti di corrispondenza”. Insomma, sembra che i conti di corrispondenza dello IOR siano uno strano ibrido, a metà tra il conto corrente di corrispondenza classico e un normale conto corrente ordinario.
La questione potrà anche apparire eccessivamente tecnica, ma è d’importanza essenziale: è infatti l’incredibile interpretazione che l’alta dirigenza dello IOR ha creduto di dare al funzionamento dei suoi conti di corrispondenza dell’Istituto che potrebbe consentire una situazione come quella che segue: se dalla filiale di Al-Quaeda di Piazza Mazzini di Roma parte un bonifico da un milione di euro destinato ad un conto presso lo IOR, a Dio piacendo, quel milione potrebbe diventare “formalmente” di proprietà dello IOR, che non sarebbe tenuto a spiegare da dove provenga e potrebbe disporne come meglio crede.
Ed in effetti, la transazione da 23 milioni su cui sono inciampati Gotti Tedeschi e Cipriani, alla luce dei dati snocciolati dalla Guardia di Finanza, rischia di essere la proverbiale punta dell’iceberg: sembra infatti che in due anni (dal dicembre 2007 al novembre 2009) siano ben 116 i milioni “senza padrone” transitati attraverso Banca del Vaticano in spregio alla legge (e anche al buonsenso). Insomma, ancora una volta le parole pronunciate da Gotti Tedeschi al convegno citato in apertura si rivelano (involontariamente) profetiche: “(...) non esiste in sé una “finanza etica” [...]: è soltanto l’uomo che la rende tale.” Appunto.
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di Mariavittoria Orsolato
Gli scontri romani dello scorso 14 dicembre non hanno spostato di una virgola la cocciutaggine del Governo, che nel pomeriggio di ieri ha approvato in Senato - con 161 si, 98 no e 6 astenuti - la tanto contestata riforma dell’università. Il voto era previsto per martedì pomeriggio ma i lavori a Palazzo Madama hanno subito un blocco quando si è scoperto che nel testo un provvedimento modificato veniva poi abolito pochi commi oltre.
Dopo il rifiuto dell’esecutivo di emendare il testo, facendolo tornare per la quarta volta alla Camera e lasciando scorrere così altro tempo prezioso, è subentrato l’ostruzionismo dell’opposizione, che finalmente si degna di adempiere al proprio compito. Tempo sprecato perché purtroppo l’aritmetica delle alleanze e del cerchiobottismo, in questo esecutivo esangue, la fanno comunque da padrone.
Nel frattempo gli studenti medi ed universitari sono tornati in piazza. Roma non è andata di nuovo in fiamme e le manifestazioni in giro per la penisola si sono rivelate pacifiche e composte, anche se a Palermo e a Milano si sono registrati scontri e tafferugli tra i ragazzi e le forze dell’ordine. La giornata è però stata resa significativa dal presidente Napolitano, che ha accettato di ricevere una delegazione di studenti per aver modo di tastare il polso agli umori e alle rivendicazioni dell’Onda studentesca.
La prima carica dello Stato diventa così l’interlocutore unico degli studenti e si dice pronto ad esaminare le alternative che i ragazzi propongono ai tagli indiscriminati e alle nuove lobbies introdotte dalla riforma.
L’incontro è stato preceduto da una lettera che gli studenti avevano inoltrato, oltre che a Napolitano, anche al sindaco Alemanno, al prefetto e al questore di Roma. Solo l’inquilino del Quirinale si è però degnato di rispondere alla gentile richiesta. Il colloquio si è svolto nel clima di conciliazione che dall’avvento di Napolitano caratterizza, forse fin troppo, la Presidenza della Repubblica: gli studenti si sono detti soddisfatti dell’udienza, pur essendo consapevoli che loro è solo una delle istanze impellenti che caratterizzano lo sfacelo di questa seconda repubblica, e hanno definito Napolitano “L‘unico interlocutore istituzionale credibile“.
L’appello al Presidente della Repubblica non è una novità nell’Italia dei disegni di legge votati a suon di fiducia. Già in altre occasioni si è chiesto accoratamente di non firmare questa o quella legge, ma finora l’unico colpo di reni del Quirinale si è registrato sulla legge che mirava ad abolire i diritti sanciti dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Per poter rimandare un testo alle Camere, Napolitano deve infatti rilevarne vizi di costituzionalità e, data la diabolica parsimonia con cui gli scribacchini berlusconiani dosano i loro attacchi alla Costituzione, è improbabile che vengano riscontrati nel ddl Gelmini evidenti segni di incoerenza con il nostro testo fondamentale.
Il gesto di Napolitano è comunque da lodare in seno alla volontà di aprire un dialogo che non sia scandito da zone rosse e manganelli ed è da lodare soprattutto nella misura in cui ha destato dal suo torpore la giovane ministra della Gioventù Giorgia Meloni. Praticamente non pervenuta nel dibattito che in questi due anni ha infiammato il mondo giovanile - eccezion fatta per l’ormai nota “legge Balilla” che vedeva 20 milioni di euro stanziati al fine di organizzare pittoreschi tour di tre settimane in caserme dell’Arma e dell’Esercito - la ministra voluta da Fini ma poi passata all’idolatria per Padron’ Silvio, ha sentito di dover far valere la sua voce istituzionale.
In un’accorata lettera al Presidente della Repubblica, la Meloni infatti chiesto a Napolitano che dopo gli studenti in protesta vengano sentiti dal Colle anche “gli studenti democraticamente eletti nelle consultazioni universitarie nazionali”. Dopo essersi dilungata in apprezzamenti sulla funzione distensiva del Quirinale “segno di dialogo tra le istituzioni e la società”, l’ex presidente di Azione Studentesca (che, ricordiamolo, nel 1992 protestava a gran voce contro la riforma della pubblica istruzione voluta e mai attuata da Rosa Russo Iervolino) vuole mettere in evidenza “il rischio che un’attività parziale di ascolto, che si indirizzi unicamente nei confronti di chi assume posizioni più spiccate di contestazione e dà vita a forme di dura protesta, offra una rappresentazione parziale e quindi distorta della complessiva realtà universitaria”.
Insomma la Meloni pretende che al Quirinale viga la stessa par condicio che ha asfissiato il programma di Fazio e Saviano: un contraddittorio tra gli studenti riottosi e quelli che invece siedono nelle consulte accademiche, probabilmente conscia del fatto che la stragrande maggioranza di questi ultimi appartiene all’area di centro-destra e quindi avrebbe un’opinione del tutto diversa dai ragazzi ricevuti l’altro giorno. Ormai però c’è poco di cui discutere e ancor meno da conciliare: la disarticolazione dell’università pubblica ha ottenuto il sigillo istituzionale tanto agognato e anche se il risultato segna già la crisi del cosiddetto Terzo Polo ( Fli, Udc e Api hanno votato in discordanza), il voto di oggi va aggiungersi alla lunga serie di immeritati successi di un esecutivo sempre arroccato sulle sue assurde posizioni e sempre più distante dalla società civile.
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di Rosa Ana De Santis
Era già accaduto nell’agosto 2009, con la notizia del divorzio dalla mamma Veronica e lo scandalo freschissimo di Noemi di Casoria. Barbara ritorna a parlare di privato e di politica dalle pagine di Vanity Fair. Giovane mamma, neo laureata in filosofia, con gli occhi azzurri di sua madre e i lunghi capelli biondi, anche questa volta svela più di quello che dice apertamente sui segreti di famiglia. Il ritratto che fa di suo padre non è inclemente, ma precisi e duri sono gli affondi sugli errori e le leggerezze private. In particolare una: quella sommersa e silenziata sul Ministro Carfagna.
La donna che Berlusconi, disse pubblicamente, avrebbe sposato subito. A lui, è noto, piacciono le donne dalle forme evidenti (come quelle dei tempi dei calendari della Carfagna) e i seni esuberanti. Parola della Cuccarini che con la sua seconda misura scarsa non è mai stata nelle grazie erotiche del capo.
Barbara, devota e grata a un padre che le ha sistemato bene il futuro e che la vede già rossonera per professione, elogia il padre premier, il politico, ma soprattutto difende la regola aurea del consenso elettorale come criterio incontrovertibile di legittimità del sistema democratico. Arrivano però le note stonate. Quelle che lei chiama “debolezze e superficialità private”. Le donnine che escono dalle auto blu (“un serio danno d’immagine per il Paese”) e che comunque gli italiani hanno votato.
Questo il dato più raccapricciante. Il pattume contro cui Veronica Lario, moglie tradita, si era scagliata. Ma nessuna illusione. Barbara deve “credere alle verità del padre”. Sembra quasi un’interpretazione post moderna del quarto comandamento “Onora il padre e la madre”, fatta bene e con molto gusto tattico, o il tentativo ben pianificato di far riprendere punti a un Berlusconi un po’ acciaccato, che torna ad essere baldanzoso e senza rughe giusto nei monologhi patinati di Matrix, in cui il conduttore porge soavemente le battute al proprietario della rete ospitante.
Un solo passaggio esce fuori dal registro equilibrato di tutta l’intervista. Quello del severo attacco a Mara Carfagna. Definita come una che non si può “lagnare”, dato che dai Telegatti è passata al Parlamento. Una bacchettata irriverente e in grande stile che riesce ad accreditare le voci e i pettegolezzi. In poche righe esce fuori tutta la rabbia di una figlia sincera e di una difesa accorata per sua madre. Anzi sembra di sentire proprio lei, nonna Veronica.
Ed è proprio la figlia del premier, o almeno così pare, ad accreditare voci e pettegolezzi sulla liaison a luci rossissime tra Berlusconi e Mara Carfagna. Il tradimento presunto, la declamazione pubblica di un amore che sarebbe stato coronato benvolentieri da nozze qualora Berlusconi fosse stato celibe, e infine il premio. Per una carriera rampante e immediata faticosamente rattoppata con la laurea e l’impegno politico affannosamente rivendicato da Mara in ogni intervista possibile.
Ma dai Telegatti alla politica c’è un vuoto che non ammette parole, tantomeno lamentele e che Barbara evidenzia con soddisfazione tutta femminile, perché forse si possono perdonare molte cose al padre amato, ma non quella donna, il divorzio passato soltanto come effetto collaterale del compleanno di Noemi Letizia, e non per quel posto in Parlamento.
Anche in questa intervista Berlusconi non esce male, tutt’altro. Ma del resto non si può chiedere un’operazione di verità a dei figli, meno che mai a dei figli che devono ogni fortuna al proprio padre. Interessanti sono le foto a corredo dell’intervista. Barbara bellissima, in una versione stile Sex and The City buca le pagine e funziona. Come donna, come manager rampante e come immagine candida di casa Berlusconi. Il marchio di fabbrica della buona comunicazione è un portato di famiglia. Soprattutto è proprio lei, critica e stizzita sulle debolezze private, a diventare la portavoce ufficiale di casa Berlusconi e ad assolvere papà Silvio.
E’ lei a riabilitarlo con moderazione e persino nel bonario rimprovero. Lo promuove come politico e come premier. Ma anche come padre. Unico neo quelle debolezze di marito e di uomo. Quelle, anzi in particolare quella caduta di stile esibita e dolorosa, che non ha nemmeno l’eleganza di tacere e che in Parlamento, con il colletto alto e senza un filo di trucco, apostrofa le altre come “vaiasse”. L’arringa di rito per mamma Veronica è perfetta e Papi Silvio correrà a complimentarsi per questo capolavoro di bellezza e perfetta oratoria. Un fantastico prodotto Mediaset.