di Fabrizio Casari

O il voto mi piace, o il voto è ininfluente. O vinco il referendum o il referendum non ha valore. Più o meno questo, al netto di ogni imbellettamento di forma (peraltro scarso) il senso delle parole di Marchionne in relazione al referendum che dovrebbe confermare o smentire l’accordo su Mirafiori. In sostanza, il narciso Ad Fiat ripropone con uguale arroganza quanto già affermò alla vigilia del referendum a Pomigliano, conclusosi però con un 60 per cento a favore e 40 per cento contrario all’accordo sullo stabilimento campano, cioè con percentuali molto lontane da quelle sognate a Corso Marconi.

Anche a Mirafiori, dunque, la musica segue lo stesso spartito. Pomigliano o Torino cambia poco: la volontà del gruppo torinese è la stessa. Il tutto alla faccia di quanti ritenevano opportuno il consenso nella consultazione di Pomigliano, a quello che si riteneva un accordo “particolare”, in quanto dettato da esigenze locali specifiche e non riproponibile per altri impianti. Ma quando mai: il modello Marchionne si è ripresentato anche a Mirafiori.

A confermare che solo gli uomini, nel regno animale, commettono più volte lo stesso errore, il PD e una parte della Cgil ritengono che, anche in questo caso, al referendum si debba votare “si”, perché lo scambio indecente tra diritti e lavoro è frutto velenoso ma obbligato della necessità di rilanciare gli investimenti Fiat nel comparto auto. C’è da sperare che la Cgil non arrivi a una prova di forza con i suoi metalmeccanici: la Segreteria Camusso dovrà fare attenzione alle prossime mosse, giacché la Ggil Pensioni e la Funzione Pubblica, i due maggiori sindacati di categoria di Corso D’Italia, si sono già schierati con la FIOM.

Sarà quindi opportuno che la Camusso non ceda alle tentazioni verticistiche verso l’interno e alle sirene dall’esterno di chi auspica la frattura tra FIOM e CGIL: auspicare una spaccatura è un consiglio interessato da parte di chi spera in una divisione dell’unico sindacato confederale degno di tal nome, che permetta nel prossimo futuro l’esportazione agevole del modello Marchionne anche in altri comparti pubblici e privati del Paese.

Bisognerebbe accettare l’accordo in cambio degli investimenti? A parte l’assurdità di porre in contrapposizione i diritti dei lavoratori e le regole della rappresentanza con gli investimenti produttivi, di quali investimenti si parla? Non si sa, giacché Marchionne si guarda bene dallo specificarli. Di quale piano strategico si tratti idem, a meno di non voler considerare una cosa seria l’idea di vendere 30 milioni di auto in Europa nel prossimo biennio.

Come già rilevato, solo un governo come quello italiano poteva trasformare Marchionne in una guida spirituale del comando d’impresa: oltreoceano, nessuno avrebbe dato all’Ad in cachemire la possibilità di essere vago e non convincente nella proposta, indisponente nelle richieste e arrogante nelle pretese. E solo in Italia l’opposizione può rinunciare all’attività di controllo e di rappresentanza dei lavoratori per fare il controcanto a governo e Confindustria.

Sarebbe interessante allora interrompere la fanfara mediatica di laudatores (non sempre ingenui) della Fiat per porre invece alcune semplici domande. La più stringente riguarda il livello di penetrazione dei prodotti Fiat sul mercato.

E’ di ieri, infatti, la notizia che il gruppo automobilistico torinese ha venduto seicentomila vetture, collocandosi in fondo alla classifica del comparto, distanziati da diverse lunghezze da tedeschi, francesi, giapponesi e statunitensi. E allora: perché produrre di più se nemmeno quanto si produce si riesce a vendere? E se non si riesce a vendere quanto già prodotto, non sarà responsabilità del management e di chi lo guida invece che di chi le macchine le ha realizzate e finite?

Nel mercato italiano, dove pure Fiat gode di condizioni  privilegiate, il mercato dell’auto ha subìto una flessione del 9,2. Ma esaminando i dati di un contesto già negativo, la quota percentuale di presenza della Fiat in Italia si riduce in proporzione molto di più. Secondo il rapporto ministeriale, infatti, nel 2010 la Fiat ha perso il 16,73 della sua quota di mercato, che passa dal 32,8 al 30,1. E se gli italiani acquistano meno automobili, quelle che pure si comprano sono sempre meno Fiat. Wolkswagen? Migliora dell’8,25. Renault? Migliora del 14,99. Opel? Cresce dello 0,42. E allora?

La verità è che la Fiat produce automobili il cui valore oggettivo è molto al di sotto del valore commerciale. Al confronto con le case tedesche, francesi, giapponesi e statunitensi, una Fiat vale molto meno e costa più o meno la stessa cifra. Sarà per questo - e non per l’assenteismo, gli scioperi, le pause o le malattie dei lavoratori - che le Fiat restano invendute? Le auto progettate da Corso Marconi hanno una capacità d’innovazione di prodotto infinitamente minore delle loro simili europee e giapponesi e la gamma di modelli proposti sono solo una minima percentuale e a minor qualità di quelli della concorrenza.

Provate a misurare qualità, dotazioni e prezzi di un segmento medio di Toyota o Wolkswagen o Renault e metterla poi a raffronto con una Fiat; il risultato sarà più chiaro di migliaia di parole. Anche aver concentrato su uno o due segmenti la produzione automobilistica è stata una scelta miope, e aver concepito dei modelli che s’innovano dal precedente solo per qualche dettaglio a fronte di migliaia di euro d’aumento, ha definitivamente seppellito speranze e illusioni di una casa automobilistica che, al netto d’incentivi e aiuti di Stato di varia natura, ha dimostrato di essere incapace di stare sul mercato. Perché incapace di progettare, pianificare, realizzare e vendere.

Fiat si rivela un’azienda animata solo dalla volontà di competere attraverso il contenimento del costo per unità di prodotto invece che puntare sulla qualità dello stesso. Pensa forse d’inondare il mercato di auto proponendo vendite a prezzi di saldo? Chiede maggiore produzione ma non riesce a vendere nemmeno quanto già in stock.

Da qui la seconda domanda: è possibile prendere le lucciole della vanagloria Fiat e confonderle con le lanterne dei dati di mercato? E’ possibile, amici del PD, consegnare le chiavi delle relazioni industriali a chi non è in grado nemmeno di svolgere al meglio il lavoro per il quale è profumatamente pagato? Perché chi sogna di espellere la democrazia dai luoghi di lavoro dovrebbe dettare le regole democratiche? E’ possibile che siano i diritti costituzionali, lo Statuto dei lavoratori, la stessa funzione sociale dell’impresa a soccombere di fronte alle pretese di industriali che cominciano a sembrare più che altro dei nuovi agrari?

 

di mazzetta

Il nostro paese esce dal 2010 più povero e scassato di come vi era entrato, ma nonostante tutto ancora intero. I primi dieci anni del secolo non sono stati facili per l'Italia che, oltre a dover far spazio al sorgere dei paesi asiatici e ad altre economie ormai ruggenti, come quella del Brasile, sembra aver imboccato una pericolosa discesa verso una decadenza che va ben oltre le sofferenze dell'economia.

Una decadenza che è prima di tutto culturale, tanto che oggi parlare di cultura sembra quasi fuori posto e davvero interessare a pochi; una decadenza che sembra inarrestabile, almeno ad osservare la quasi totale assenza di ribellione e a questo tristo destino. Non è solo colpa del berlusconismo o del localismo leghista, se oggi l'Italia appare più provinciale e meno influente che mai; anche la sinistra in disfacimento ha contribuito per la sua quota-parte.

E non è solo colpa del pensiero unico, di quella globalizzazione dei capitali che ha universalizzato lo sfruttamento dei lavoratori e dei territori. Il crollo del muro di Berlino ha fatto saltare un contrappeso importante. Il trionfo sul comunismo ha dato vita a un'élite globale priva di aspirazioni che non siano la conservazione e la monetizzazione del potere, il sistema economico è  stato liberato dalle poche regole sagge che ne limitavano gli eccessi e il crollo di Wall Street e dell'economia americana sono state le ovvie e previste conseguenze di questo procedere in ordine sparso al saccheggio.

In Italia va peggio che altrove: qui la crisi delle classi dirigenti è assoluta, non ci sono idee e non ci sono alternative al vuoto pneumatico della politica. Lo Stato è da anni in ostaggio dei problemi di Berlusconi e i suoi ministri da taverna si esibiscono senza ritegno su copioni che erano già indegni al tramonto del secolo scorso. Manca qualsiasi tensione etica, manca qualsiasi senso del limite, la calunnia e il falso sono moneta comune, la politica spettacolare ha travolto l'antica arte della mediazione democratica tra gli interessi e consegnato il paese a un continuo show che si ripete inevitabilmente uguale da anni. Uno show al riparo del quale gli interessi più forti prosperano a spese dei più deboli.

L'anno si è chiuso con il Presidente del Consiglio che si è comprato alcuni deputati alla luce del sole (pagandoli con fondi pubblici) per risolvere il problema posto dall'ammutinamento di chi ha lanciato la volata alla sua successione senza essere capace di vincerla. Il maggiore partito d'opposizione è un'informe aggregato di gente che pensa tutto e il contrario di tutto e che continua ad inseguire i voti a destra, perdendone molti di più tra i proprio sostenitori storici. Ma se poi capita che la grande speranza bianca della sinistra italiana cade dalle scale e i suoi gridino all'aggressione, ecco che si capisce come siano ridotte le speranze dei molti italiani che voterebbero volentieri un partito che sia all'altezza delle pur scolorite sinistre europee

La melma consociativa sembra sommergere il paese, il governo delle destre fa politica attaccando i comunisti che non ci sono più, i magistrati e gli immigrati, gridando contro le tasse che intanto eleva per nutrire i propri complici nel sacco della cosa pubblica. Il sistema, che si voleva riformare in senso bipartitico collassa ed esplode in mille partitini, specchio delle camarille e delle complicità nascoste sotto il velo istituzionale.

Eppure il paese resiste. Resistono eroici gli insegnanti messi all'indice dal governo che vuole demolire l'istruzione per favorire l'affermazione della politica spettacolare. Resistono i lavoratori della sanità, una delle migliori al mondo, sotto i colpi dei tagli e dei servizi giornalistici sulla “malasanità” che non esiste. Resistono i lavoratori della pubblica sicurezza, ai quali il governo sottrae il merito della lotta anticrimine e che sono mandati in piazza a rispondere con i manganelli alle domande dei cittadini, ai quali il governo non risponde mai perché è meglio schivare il merito quando non si possono dire che menzogne per difendere politiche criminali.

Un paese che ha due polizie e che manda anche la Guardia di Finanza a svolgere compiti di servizio di piazza è sicuramente che ha qualche problema strutturale, evidentemente ostaggio di corporazioni e interessi noti quanto inconfessabili; ma il potere che risponde ai cittadini esclusivamente con la polizia, è un potere destinato a non avere futuro.

Resistono anche i lavoratori che non lavorano più, resistono i cittadini ai quali il governo taglia i servizi per spendere miliardi di euro in armi che la nostra Costituzione impedirebbe di usare, per rispondere a minacce che non esistono. Quelle spacciate sono le solite minacce create dal nulla dalla grande macchina della paura che funziona un po' come il racket mafioso: prima passa qualcuno a far danni o a seminar paura e subito dopo appare il governo ad offrire la sua protezione. Passata la minaccia islamica e quella degli immigrati stupratori, ci si è dovuti accontentare di suonare l'allarme-nomadi, un calando oltre il quale non si sa cosa ci attenda.

L'italiano resiste grazie al welfare familiare, così come la cultura resiste attraverso la solidarietà di chi ancora crede che sia l'unico strumento per emanciparsi dalla barbarie e incamminarsi verso una civiltà più evoluta. Ogni mattina gli italiani si alzano indifferenti allo schifo della politica e si mettono al lavoro in condizioni sempre più precarie e scoraggianti, mentre una schiera di fenomeni che non hanno mai lavorato in vita loro gli urla che sono bamboccioni, fannulloni e parassiti, quando non addirittura teppisti, traditori o terroristi.

È davvero un grande paese quello che riesce a non andare in pezzi in queste condizioni, non è solo fortuna e non è solo la famosa arte di arrangiarsi, ci dev'essere per forza qualcosa di più. Forse un antico retaggio dell'età comunale, che insegnò agli italiani che si poteva vivere e ci si poteva organizzare senza attendere le decisioni di signori lontani o di imperi che governavano per procura.

Non è detto che basti per sopravvivere alla decadenza delle classi dirigenti e a quella dell'economia nazionale. Così come non è detto che, sparito Berlusconi e il suo seguito di nani e ballerine, questa forza sia sufficiente ad invertire la tendenza ormai radicata a buttare alle ortiche le grandi conquiste culturali e sociali che tanto sangue sono costate nel secolo scorso.

Occorre però avere un minimo di fiducia nella capacità degli italiani e delle italiane. Se non si vuole gettare la spugna e abbandonarsi alla malinconia e alla rassegnazione di un lento declino che a molti appare inevitabile, occorre rinnovare agli italiani quella fiducia tradita dalle classi dirigenti e rifiutare la politica del potere che prospera sulle divisioni e sulle contrapposizioni, che lavora incessantemente per costruire e mantenere.

Siamo un grande paese, nonostante chi ci rappresenta non valga la metà di un signorotto feudale dei tempi che furono, è bene ricordarlo e anche bene crederci, almeno fino a che si può. Come cittadini forse ci meritiamo molto di quello che ci sta succedendo, ma non ci meritiamo anche di peggio; sta a ciascuno di noi contribuire con parte delle rispettive qualità e attività a fare in modo che la decadenza si arresti e il peggio non si materializzi. Sappiamo benissimo di non poter contare sui leader, sui partiti, sui sindacati o sui media e sappiamo che il nostro futuro e quello dei nostri discendenti è solo nelle nostre mani. Non resta che augurarci reciprocamente buon lavoro e mettersi all'opera.

di Fabrizio Casari

L’accordo con la Newco Fiat, siglato ieri dai sindacati governativi guidati da Bonanni e Angeletti con la benedizione di un esultante Sacconi, che coglie così la sua vendetta covata da anni contro la Cgil, rappresenta la quintessenza del nuovo modello di relazioni industriali. Che possono, sostanzialmente, essere così riassunte: il comando d’impresa sostituisce la dialettica tra le componenti sociali e il governo del Paese abbandona definitivamente il ruolo terzo per entrare a piedi uniti nel piatto di una vendetta ideologica sognata da decenni.

L’interesse delle imprese diventa l’unico riferimento della società, la quale perde ogni funzione di rappresentanza degli interessi generali per trasformarsi in fornitrice silente di braccia a basso costo e menti sgombre da diritti di qualsivoglia natura. Il contratto nazionale di lavoro, che sancisce la sintesi tra i diversi bisogni delle parti sociali, viene nei fatti abolito per assegnare alla contrattazione d’impresa il luogo unico della decisionalità in quanto luogo unico dell’affermazione d’interessi.

E’ uno strappo violento e volgare alle regole stabilite, che scavalca le organizzazioni di categoria da un lato e il ruolo del governo dall’altro, che ferisce nel profondo la democrazia italiana, già gravemente malata. Marchionne gongola, perfettamente cosciente che negli stessi States, pedissequamente citati come fonte ispiratrice dei suoi modelli industriali, nessuna amministrazione, nemmeno repubblicana, avrebbe mai permesso un accordo di questo tipo. Perché quanto siglato non ha nessuna attinenza con la necessità di attrezzare un gruppo industriale alla sfida della concorrenza internazionale, è solo una dichiarazione di guerra contro il sindacato. Cioè contro la Cgil e, più significativamente, contro la Fiom, principale organizzazione dei metalmeccanici.

Questo è il senso dell’accordo: lo scambio vergognoso tra lavoro e diritti. Non c’è nessuna idea di come reinventare e riprogrammare la produzione industriale nell’era della globalizzazione e della crisi profonda del turbo capitalismo. Semplicemente, si ritiene il comando d'impresa come l'alfa e l'omega delle politiche del lavoro. S’instaura quindi una lettura delle politiche industriali che, guardandosi bene dal proporre cosa e quanto produrre in relazione al fabbisogno interno ed alle strategie di import-export, si concentra sul come, proponendosi di fronte alla competizione internazionale con una equazione semplice: salari e diritti da terzo mondo per reazlizzare profitti da primo mondo.

Quest’accordo sancisce che lo Statuto dei lavoratori, come fosse una Multipla, viene rottamato. I diritti, sanciti dalla Costituzione e dalla giurisprudenza del lavoro, diventano un pallido ricordo. La funzione sociale dell’impresa, prevista dalla Carta, diviene un fastidioso orpello da cancellare magari per via legislativa; non appena si presentassero le condizioni per una riforma costituzionale sarà certamente tra i primi articoli della Carta ad essere sbianchettato.

La storiella dell’adeguamento ai tempi di crisi dei diritti viene spacciata pressocchè all’unanimità, ma è palesemente fumo negli occhi. Perché la questione non è se la Fiat continua o no ad investire in Italia. L’Italia ha garantito alla Fiat, per oltre mezzo secolo, privilegi e sostegni finanziari senza i quali l’azienda torinese avrebbe chiuso. Senza i pesanti costi sociali sostenuti dalla fiscalità generale, l’azienda della famiglia Agnelli non avrebbe avuto la possibilità di sbagliare tutta la sua politica di crescita e sviluppo industriale e rimanere comunque a drenare risorse e accantonamenti.

Devono allora essere dei marziani i manager tedeschi della Wolkswagen, che continuano a tenere la leadership del mercato e ad aumentare i profitti, pur pagando salari di gran lunga superiori a quelli italiani e senza mettere in discussione la struttura delle relazioni industriali. Invece però di passare al vaglio le abnormi responsabilità di un management incapace e di una famiglia che si è distinta anche nell’esportazione illecita di capitali all’estero, la Fiat sposta ulteriormente l’asticella con l’ennesimo ricatto che propone al paese, confidando nel governo e nella sua capacità di condizionamento dei sindacati gialli per nascondere la polvere dell’incapacità di stare sul mercato sotto il tappeto delle regole. Se Marchionne pensa di vendere 30 milioni di auto in Europa nel corso del 2011, allora più che piegare i lavoratori italiani dovrebbe piegare i consumatori europei al delirio di Corso Marconi.

Ma se l’accordo e la definitiva rottura sindacale rappresentano una tragedia, la farsa è rappresentata dal Pd. Che - si poteva dubitarne? - è diviso sulla valutazione dello stesso. Intendiamoci, il PD è ormai diviso su tutto e nemmeno sulle previsioni del tempo il suo gruppo dirigente potrebbe trovare un minimo di sintesi che facesse vagamente intravvedere brandelli di sinistra.

Bene ha fatto Landini a suggerire agli esponenti del PD di andare in fabbrica invece di stare sbracati sulle onorevoli poltrone. “Andate alla catena di montaggio e poi vedremo se continuerete a ragionare in questo modo” ha detto il leader FIOM a Fassino e Chiamparino, che si sono distinti nel lodare l’accordo. La diagnosi per il PD, più che d’incapacità a riconoscere le culture di provenienza, sembra ascrivibile ad un disturbo d’identità ormai cronico.

Ma la divisione del PD su questo è ancora più grave di quelle ormai note sui temi eticamente sensibili, sulla politica economica e su quella estera, sulle alleanze politiche e sulla natura della crisi; è più grave perché priva di sponda parlamentare e istituzionale la FIOM e tutti coloro che si oppongono a quest’accordo.

Dopo gli studenti e i precari, ora anche gli operai saranno privi di sponda politica, di rappresentanza e interlocuzione istituzionale. E il fatto che solo Nichi Vendola e Di Pietro (oltre a Ferrero) abbiano alzato la voce contro questo sfregio alla democrazia, racconta più di mille righe edotte e analitiche il futuro dell’opposizione.

di Giuliano Luongo

Volendo riassumere l’interessante percorso della nostra politica energetica nel periodo più recente dell’era di Silvio I, si può osservare quanto le liaisons con noti personaggi del panorama politico internazionale abbiano influito sulle “nostre” scelte, più che il vero intento a cercare nuove soluzioni energetiche per un paese non esattamente benedetto dalla presenza di combustibili fossili.

Le ipotesi riguardanti l’introduzione dell’atomo tra le fonti energetiche del paese hanno ripreso a farsi sentire a partire dal secondo governo Berlusconi, come una delle tante armi di propaganda e campagna elettorale continua. Un’eventuale (re)introduzione dell’energia nucleare non veniva vista come un atto contrario alla volontà popolare, la quale - secondo l’entourage di Arcore - era stata viziata, all’epoca del referendum del 1987, dal disastroso incidente di Chernobyl.

Per chi non lo avesse a mente, ricordiamo che in Italia il processo di “nuclearizzazione” della produzione energetica era già stato avviato: dalla metà degli anni ’60 il nostro paese faceva parte di un progetto di sperimentazione anglo-americano di differenti tecniche di produzione di energia tramite centrali nucleari.

Con l’americana Westinghouse come impresa “madrina”, erano state approntate tre strutture, modelli simili a prototipi per sperimentare all’estero dei reattori capostipite delle filiere presenti rispettivamente oltremanica ed oltreoceano. La prima centrale nucleare, sita nei pressi di Latina, entrò in funzione nel 1963: nell’arco di una ventina di mesi videro la luce quelle site a Sessa Aurunca (CE) ed a Trino (VC). I lavori di costruzione della quarta centrale iniziarono il 1° gennaio del 1970 a Caorso (PC).

Durante gli anni ’70 fu studiato un piano energetico nazionale, che dava grande risalto a questa nuova fonte: esso ebbe tuttavia un rallentamento come conseguenza dell’incidente avvenuto alla centrale americana di Three Mile Island, a seguito del quale vennero ripensate molte delle procedure di sicurezza da mantenere in un impianto, in particolare riguardo ai circuiti di raffreddamento.

In ogni caso, il 1982 vide gettare le prime pietre di un ulteriore impianto, sito a Montalto di Castro (VT). Il resto è storia nota, nel 1987 passarono quattro referendum abrogativi, forieri del rifiuto della maggior parte dei cittadini italiani sui seguenti quesiti: possibilità al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) di decidere sulla localizzazione delle centrali nel caso in cui gli enti locali non decidono entro tempi stabiliti; compenso agli enti locali che avrebbero dato l’ok all’installazione di centrali nucleari o a carbone; alla norma che consente all’ENEL di partecipare ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di centrali nucleari all'estero.

Referendum quasi plebiscitario (si arrivò sull’80% dei non-consensi per uno dei quesiti), grazie al quale non si testimoniava solo il mancato apprezzamento della soluzione nucleare, ma anche un determinato modo di amministrare lo “sviluppo” energetico del territorio a livello sia locale che nazionale. Il piano energetico andò pian piano abbandonato: le centrali di Latina e Trino, progettate per funzionare 25-30 anni dall’accensione del reattore, furono lasciate spegnersi. Solo Caorso, in effetti, fu spenta in “anticipo”, senza poi dimenticare che, a causa di guasti, l’impianto di Sessa Aurunca era già KO dal 1982 e le riparazioni erano state definite “antieconomiche” e pertanto abbandonate. Le scorie radioattive prodotte sono tuttora stoccate per la maggior parte in Francia ed Inghilterra: quelle rimaste presso Trino hanno prodotto dei rilasci incontrollati nel 2006, ma al momento il sito di stoccaggio sembra pulito. Sembra.

E torniamo a noi: le prime idee lanciate dai “forzisti” erano alquanto vaghe, apparentemente legate solo alle solite logiche di propaganda neo-maccartista contro i misteriosi comunisti e le loro scarsamente applicabili idee di energie alternative. In seguito però, con lo stringersi dei legami tra Arcore e Mosca, sono state paventate ipotesi ben più “tangibili” per il ritorno all’atomo. A margine dei tanti accordi in tema di forniture di gas, Berlusconi ha allacciato con Putin numerose trattative per l’ottenimento di nuove tecnologie per la costruzione di centrali nucleari.

L’ultimo capitolo di questa avventura è alquanto recente, risalente allo scorso aprile, quando il nostro premier decretava la nuova svolta del nucleare in Italia grazie al supporto russo. L’incontro tenutosi a Lesmo ha gettato le basi per una partnership di ricerca tra i due paesi (programma Ignitor) e l’annuncio di una prima nuova centrale in tre anni. Al momento di tali dichiarazioni c’era ancora Scajola a piede libero, ergo pesate il tutto. Il premier inoltre prendeva l’esempio francese come esempio di successo “opera di convincimento” dell’opinione pubblica per far meglio accettare questo nuovo trend.

Ecco, i francesi: siamo in partnership anche la con la EdF per le tecnologie nucleari. Sarkozy è stato ed è tutt’ora uno dei più grandi sostenitori del nucleare sia in Francia che in Europa tutta: si è impegnato largamente per sabotare i progetti di approvvigionamento energetico differente (si veda il Nabucco) o semplicemente per mantenere il controllo francese sul nucleare stesso (si veda come ha fatto finire la divisione nucleare della Siemens nelle mani della russa Rosatom).

Tale genietto della geoeconomia non ha potuto fare a meno di contare Silvio nei suoi piani, e per far ciò ha siglato un’ampia intesa politica sullo sviluppo del nucleare, con particolare attenzione- almeno sulla carta - al fattore sicurezza, probabilmente nell’ottica di captatio benevolentiae dell’opinione pubblica di cui sopra.

Soffermiamoci ora un secondo a riflettere su questa duplice alleanza su due fronti opposti, partendo da quello più enigmatico, ossia quello russo. Mentre i giornali davano ovviamente molto meno risalto a Mosca rispetto a Parigi, dobbiamo far notare che la base della rinuclearizzazione viene proprio dalle steppe, incrementando ancor più la dipendenza energetica dai russi.

Le centrali Rosatom hanno inoltre la peculiarità di fungere solo tramite combustibile prodotto dalla TVEL, altra ditta russa: come hanno imparato a proprie spese gli ucraini in sede di molte centrali riattivate, rifornirsi da una delle due compagnie russe impone di farlo anche dall’altra, vista l’incompatibilità critica dei prodotti di queste imprese con quelli di altre (specie con la Westinghouse).

Pare che per bilanciare questo problemino sia stata fatta l’apertura ai francesi, ma è evidente che stiamo solo cercando di dividerci tra due cresi dell’energia che sfrutteranno solamente il nostro territorio come sede di sperimentazioni tecniche e per fare oggettivamente soldi a palate. Tutto questo senza dimenticare le eventuali difficoltà di installazione di centrali sul suolo italiano, vista la legislazione fallace sul tema e la pioggia di clamorosi NO venuti da un po’ tutte le amministrazioni locali in tema di localizzazione impianti, anche da quelle ufficialmente sotto l’egida del Cavaliere.

Senza dimenticare quanto stia divenendo sempre più bipartisan l’idea del revival atomico: dal caro Veronesi fino a Morando, persino la pseudo sinistra nostrana mostra un’apertura, segnale del fatto che la torta da spartire sembra appetitosa e realizzabile. Dunque, possibilità predatorie non stop? Siamo in Italia, non facciamo domande retoriche.

 

 

di Mario Braconi

“La crisi economica attuale si deve soprattutto a un'eclissi etico-culturale che ha inciso in modo determinante sull'economia e sulla finanza mondiale”. Così Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello IOR, a margine di un convegno su “La questione economica come questione culturale e morale”, organizzato dalla Fondazione Lepanto lo scorso 23 novembre. Parole forse condivisibili, ma a patto di non andare ad approfondirle troppo.

Preludono, infatti, ad un insensato peana alla crescita demografica incontrollata) ma che, alla luce dei recenti incidenti giudiziari occorsi al brillante finanziere “di Dio”, si rivelano fastidiosamente moralistiche. Dal 21 settembre scorso Gotti Tedeschi, assieme al Direttore Generale dello IOR Paolo Cipriani, è indagato per violazione delle leggi antiriciclaggio della Repubblica Italiana.

La pietra dello scandalo è una doppia transazione, del valore complessivo di 23 milioni di euro, che lo IOR avrebbe disposto verso la banca JP Morgan di Francoforte e la banca del Fucino tramite il Credito Artigiano (controllato dal Credito Valtellinese, il cui presidente, Giovanni De Censi, siede anche nel Consiglio di Sovrintendenza dello IOR).

Ironicamente, sembra che la denuncia che ha messo nei guai i due alti dirigenti dello IOR sia stata effettuata proprio da De Censis, mentre è verosimile che l’operazione, fortissimamente voluta da Cipriani a dispetto della sua evidente pericolosità, potrebbe essere stata veicolata attraverso una banca “amica” proprio nella speranza di poter beneficiare di un’interpretazione blanda della legge.

Il danno per la banca vaticana è stato doppio: al gravissimo colpo all’immagine subìto (Gotti Tedeschi avrebbe dovuto far dimenticare tutte le malefatte di Marcinkus e soci, ma sembra che la Banca del Vaticano non riesca a tenersi lontana da corruzione e malaffare), si aggiunge il sequestro dell’intera somma da parte delle autorità giudiziarie.

Il 20 dicembre il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi ed il PM Stefano Rocco Fava, argomentano il loro reciso “niet” alla richiesta di dissequestro dei 23 milioni, presentata dagli avvocati della banca del Vaticano: sono parole precise ed attente, le loro, come si conviene in questi casi, ma che gettano una seria ipoteca sulla buona fede dell’Istituto. Secondo i legali dello IOR il denaro che affluisce sui conti di corrispondenza dello IOR è per definizione di proprietà dello IOR stesso: questa interpretazione giustificherebbe la mancata segnalazione in Banca d’Italia delle transazioni rilevanti. Non a caso Gotti Tedeschi si è difeso sin dall’inizio sostenendo che le operazioni incriminate fossero semplici girofondi, ovvero trasferimenti in cui ordinante e beneficiario coincidono.

Secondo gli inquirenti, è proprio il modo in cui lo IOR intende la natura dei conti di corrispondenza a creare condizioni favorevoli al loro impiego per veicolare “operazioni di assai dubbia liceità”. Come ogni altra banca, lo IOR intrattiene infatti con le varie banche italiane rapporti di conto corrente di corrispondenza; conti tecnici, cioè, che vengono impiegati per regolare le transazioni intercorse giornalmente tra un istituto e l’altro.

Il fatto è che lo IOR utilizzerebbe detti conti in modo libero, per non dire spregiudicato: secondo la Guardia di Finanza, essi, oltre ad accogliere il riflesso contabile delle operazioni effettivamente concluse dai clienti dello IOR, vengono spesso usati per “parcheggiare” giacenze provenienti da assegni, bonifici eccetera, per periodi di tempo indeterminato, circostanza che cozza con “la transitorietà che dovrebbe caratterizzare i conti di corrispondenza”. Insomma, sembra che i conti di corrispondenza dello IOR siano uno strano ibrido, a metà tra il conto corrente di corrispondenza classico e un normale conto corrente ordinario.

La questione potrà anche apparire eccessivamente tecnica, ma è d’importanza essenziale: è infatti l’incredibile interpretazione che l’alta dirigenza dello IOR ha creduto di dare al funzionamento dei suoi conti di corrispondenza dell’Istituto che potrebbe consentire una situazione come quella che segue: se dalla filiale di Al-Quaeda di Piazza Mazzini di Roma parte un bonifico da un milione di euro destinato ad un conto presso lo IOR, a Dio piacendo, quel milione potrebbe diventare “formalmente” di proprietà dello IOR, che non sarebbe tenuto a spiegare da dove provenga e potrebbe disporne come meglio crede.

Ed in effetti, la transazione da 23 milioni su cui sono inciampati Gotti Tedeschi e Cipriani, alla luce dei dati snocciolati dalla Guardia di Finanza, rischia di essere la proverbiale punta dell’iceberg: sembra infatti che in due anni (dal dicembre 2007 al novembre 2009) siano ben 116 i milioni “senza padrone” transitati attraverso Banca del Vaticano in spregio alla legge (e anche al buonsenso). Insomma, ancora una volta le parole pronunciate da Gotti Tedeschi al convegno citato in apertura si rivelano (involontariamente) profetiche: “(...) non esiste in sé una “finanza etica” [...]: è soltanto l’uomo che la rende tale.” Appunto.


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