di Fabrizio Casari

O il voto mi piace, o il voto è ininfluente. O vinco il referendum o il referendum non ha valore. Più o meno questo, al netto di ogni imbellettamento di forma (peraltro scarso) il senso delle parole di Marchionne in relazione al referendum che dovrebbe confermare o smentire l’accordo su Mirafiori. In sostanza, il narciso Ad Fiat ripropone con uguale arroganza quanto già affermò alla vigilia del referendum a Pomigliano, conclusosi però con un 60 per cento a favore e 40 per cento contrario all’accordo sullo stabilimento campano, cioè con percentuali molto lontane da quelle sognate a Corso Marconi.

Anche a Mirafiori, dunque, la musica segue lo stesso spartito. Pomigliano o Torino cambia poco: la volontà del gruppo torinese è la stessa. Il tutto alla faccia di quanti ritenevano opportuno il consenso nella consultazione di Pomigliano, a quello che si riteneva un accordo “particolare”, in quanto dettato da esigenze locali specifiche e non riproponibile per altri impianti. Ma quando mai: il modello Marchionne si è ripresentato anche a Mirafiori.

A confermare che solo gli uomini, nel regno animale, commettono più volte lo stesso errore, il PD e una parte della Cgil ritengono che, anche in questo caso, al referendum si debba votare “si”, perché lo scambio indecente tra diritti e lavoro è frutto velenoso ma obbligato della necessità di rilanciare gli investimenti Fiat nel comparto auto. C’è da sperare che la Cgil non arrivi a una prova di forza con i suoi metalmeccanici: la Segreteria Camusso dovrà fare attenzione alle prossime mosse, giacché la Ggil Pensioni e la Funzione Pubblica, i due maggiori sindacati di categoria di Corso D’Italia, si sono già schierati con la FIOM.

Sarà quindi opportuno che la Camusso non ceda alle tentazioni verticistiche verso l’interno e alle sirene dall’esterno di chi auspica la frattura tra FIOM e CGIL: auspicare una spaccatura è un consiglio interessato da parte di chi spera in una divisione dell’unico sindacato confederale degno di tal nome, che permetta nel prossimo futuro l’esportazione agevole del modello Marchionne anche in altri comparti pubblici e privati del Paese.

Bisognerebbe accettare l’accordo in cambio degli investimenti? A parte l’assurdità di porre in contrapposizione i diritti dei lavoratori e le regole della rappresentanza con gli investimenti produttivi, di quali investimenti si parla? Non si sa, giacché Marchionne si guarda bene dallo specificarli. Di quale piano strategico si tratti idem, a meno di non voler considerare una cosa seria l’idea di vendere 30 milioni di auto in Europa nel prossimo biennio.

Come già rilevato, solo un governo come quello italiano poteva trasformare Marchionne in una guida spirituale del comando d’impresa: oltreoceano, nessuno avrebbe dato all’Ad in cachemire la possibilità di essere vago e non convincente nella proposta, indisponente nelle richieste e arrogante nelle pretese. E solo in Italia l’opposizione può rinunciare all’attività di controllo e di rappresentanza dei lavoratori per fare il controcanto a governo e Confindustria.

Sarebbe interessante allora interrompere la fanfara mediatica di laudatores (non sempre ingenui) della Fiat per porre invece alcune semplici domande. La più stringente riguarda il livello di penetrazione dei prodotti Fiat sul mercato.

E’ di ieri, infatti, la notizia che il gruppo automobilistico torinese ha venduto seicentomila vetture, collocandosi in fondo alla classifica del comparto, distanziati da diverse lunghezze da tedeschi, francesi, giapponesi e statunitensi. E allora: perché produrre di più se nemmeno quanto si produce si riesce a vendere? E se non si riesce a vendere quanto già prodotto, non sarà responsabilità del management e di chi lo guida invece che di chi le macchine le ha realizzate e finite?

Nel mercato italiano, dove pure Fiat gode di condizioni  privilegiate, il mercato dell’auto ha subìto una flessione del 9,2. Ma esaminando i dati di un contesto già negativo, la quota percentuale di presenza della Fiat in Italia si riduce in proporzione molto di più. Secondo il rapporto ministeriale, infatti, nel 2010 la Fiat ha perso il 16,73 della sua quota di mercato, che passa dal 32,8 al 30,1. E se gli italiani acquistano meno automobili, quelle che pure si comprano sono sempre meno Fiat. Wolkswagen? Migliora dell’8,25. Renault? Migliora del 14,99. Opel? Cresce dello 0,42. E allora?

La verità è che la Fiat produce automobili il cui valore oggettivo è molto al di sotto del valore commerciale. Al confronto con le case tedesche, francesi, giapponesi e statunitensi, una Fiat vale molto meno e costa più o meno la stessa cifra. Sarà per questo - e non per l’assenteismo, gli scioperi, le pause o le malattie dei lavoratori - che le Fiat restano invendute? Le auto progettate da Corso Marconi hanno una capacità d’innovazione di prodotto infinitamente minore delle loro simili europee e giapponesi e la gamma di modelli proposti sono solo una minima percentuale e a minor qualità di quelli della concorrenza.

Provate a misurare qualità, dotazioni e prezzi di un segmento medio di Toyota o Wolkswagen o Renault e metterla poi a raffronto con una Fiat; il risultato sarà più chiaro di migliaia di parole. Anche aver concentrato su uno o due segmenti la produzione automobilistica è stata una scelta miope, e aver concepito dei modelli che s’innovano dal precedente solo per qualche dettaglio a fronte di migliaia di euro d’aumento, ha definitivamente seppellito speranze e illusioni di una casa automobilistica che, al netto d’incentivi e aiuti di Stato di varia natura, ha dimostrato di essere incapace di stare sul mercato. Perché incapace di progettare, pianificare, realizzare e vendere.

Fiat si rivela un’azienda animata solo dalla volontà di competere attraverso il contenimento del costo per unità di prodotto invece che puntare sulla qualità dello stesso. Pensa forse d’inondare il mercato di auto proponendo vendite a prezzi di saldo? Chiede maggiore produzione ma non riesce a vendere nemmeno quanto già in stock.

Da qui la seconda domanda: è possibile prendere le lucciole della vanagloria Fiat e confonderle con le lanterne dei dati di mercato? E’ possibile, amici del PD, consegnare le chiavi delle relazioni industriali a chi non è in grado nemmeno di svolgere al meglio il lavoro per il quale è profumatamente pagato? Perché chi sogna di espellere la democrazia dai luoghi di lavoro dovrebbe dettare le regole democratiche? E’ possibile che siano i diritti costituzionali, lo Statuto dei lavoratori, la stessa funzione sociale dell’impresa a soccombere di fronte alle pretese di industriali che cominciano a sembrare più che altro dei nuovi agrari?

 

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