di Mariavittoria Orsolato

Lui non si dimetterà mai, ma la fronda finiana, sempre più forte e volitiva, proclama in diretta tv la fine di quello che è stato il quarto Governo Berlusconi. L'annuncio lo da il capogruppo alla Camera di Futuro e Libertà, Italo Bocchino, mentre siede come ospite nell'arena di Annozero: "Aspetteremo lunedì, solo per garbo istituzionale, poi ritireremo la nostra delegazione dal Governo".

Mentre Padron' Silvio è a Seoul per l'inutile G20, nel Transatlantico si preparano le polveri per quella che aspira ad essere la congiura definitiva: dal prossimo lunedì i quattro ministri vicini alla nuova formazione del Presidente della Camera rassegneranno le dimissioni, con loro anche Giuseppe Reina, sottosegretario alle Infrastrutture in quota al Movimento Per le Autonomie del siciliano Raffaele Lombardo.

C'è però di più: sempre Bocchino, incalzato da Santoro ha buttato sul tavolo quelle che saranno le carte deputate a decretare l'agognata morte politica del Caimano: senza scadere nel cattivo gusto di una sfiducia plateale, cosa che invece Berlusconi spera vivamente, i futuristi si asterranno dal voto sulla Finanziaria - oggi nota come legge di stabilità e necessaria al mantenimento dei tassi d'interesse dei titoli azionari nazionali - riservandosi la possibilità di rispedire il cerino al mittente votando contro nel caso in cui, come annunciato ieri da Cicchitto, si dovesse procedere alla verifica parlamentare.

"Faremo una verifica parlamentare, al Senato e alla Camera, e lì si vedrà quale sarà l'orientamento della maggioranza di deputati e senatori, spiega il capogruppo Pdl a Montecitorio, se sarà un orientamento favorevole al Governo si andrà avanti. Qualora ci fosse un atteggiamento diverso - aggiunge - per noi è chiaro che l'unico sbocco democraticamente possibile è tornare davanti al popolo sovrano".

Le urne fanno gola agli ultimi kamikaze berlusconiani e perciò non sembrano la soluzione più adatta a scongiurare un Berlusconi quinto: in 16 anni di controllo pressoché totale sul Paese, il premier ha plasmato a sua immagine e somiglianza un'intera categoria di cittadini che anche oggi, nonostante i troppi bagordi sessuali e non del minuscolo Cesare, sono pronti a difendere a spada tratta il leader che ha riempito d'ovatta il loro piccolo mondo. In più, il porcellum elettorale a firma di Calderoli impedisce la formazione di strutture parlamentari stabili e, in caso di elezioni anticipate, regalerebbe di nuovo la maggioranza a Pdl e Lega a Montecitorio, mentre lascerebbe orfano di maggioranza il Senato.

Ricorrere alla consultazione popolare non prima che vengano approntate le necessarie modifiche alla legge elettorale è infatti il leitmotiv di tutte le altre formazioni politiche: lo invoca Fini, lo sottoscrivono Casini e Di Pietro, si accoda anche l'evanescente Pd, comprensibilmente terrorizzato da quello che potrebbe uscire dalle urne.

Lo scenario politico attuale è infatti fin troppo fumoso e giocare alla Sibilla sembra quantomai passabile di clamorosi errori di valutazione. Stando però a quelli che sono i nostri meccanismi democratici, costituzionalmente indicati, i futuri possibili per la politica del paese sono in buona sostanze tre e corrispondono rispettivamente alla crisi di governo con rimpasto, a quella con elezioni e all'incidente parlamentare.

Il primo caso sembra ormai già accantonato: la mediazione di Bossi per un Berlusconi bis con maggiori poteri e ministeri ai finiani è stata un clamoroso buco nell'acqua, allo stesso modo non sono valse a nulla le promesse dei Lumbard di portare su piatto d'argento le teste di La Russa e Gasparri, colpevoli di non aver defezionato dal Pdl per seguire il leader di sempre Gianfranco Fini.

I futuristi vogliono il cambio a tutti i costi e, nonostante in altre occasioni avessero propeso volentieri per il baratto di incarichi e poltrone, dopo Mirabello la linea da seguire è quella dell'etica e del rigore morale. Al rimpasto pare non volersi affidare nemmeno Berlusconi, disposto ad allargare la maggioranza all'Udc di Casini ma irremovibile per quanto riguarda l'atto delle dimissioni. Come ha giustamente sottolineato Luca Telese sul Il Fatto, l'atmosfera crepuscolare della fine del berlusconismo impone un manicheismo ostentato e dal retrogusto fascista: "O con me, o contro di me", il compromesso non è cosa onorevole per gli egoarchi agonizzanti.

Nel caso in cui il futuribile corrispondesse invece alla crisi con annesse elezioni, il calendario delle attività parlamentari non lo fisserebbe prima di venti giorni, quando la manovra finanziaria verrà approvata, previa fiducia, da entrambe le Camere. Nel caso (molto probabile) in cui il Cavaliere venisse sfiduciato, la salita al Quirinale non si trasformerebbe nello sperato riaffido del mandato ma è probabile che Napolitano preferirebbe affidare il Governo ad una personalità interna alla maggioranza.

Una maggioranza che prevede sempre l'ingresso dell'Udc ma che non potrebbe annoverare il Pd, come auspicato da i fautori del "governo tecnico di transizione": l'ipotesi di formare un Esecutivo con quelli che nel 2008 uscirono sconfitti alle urne non può essere presa in considerazione dal Capo dello Stato. Né potrebbe essere contemplata da Fini, che in questo modo offrirebbe il fianco alle accuse di abile artefice di ribaltoni che già in molti tra i banchi del Pdl gli oppongono.

Il presidente della Camera non potrebbe quindi essere il "papa nero" cui molti commentatori alludono per descrivere efficacemente la paradossale situazione di vuoto di personalità: il nuovo premier sarebbe comunque un pidiellino e sono già in molti a scommettere sullo lo yes man Giulio Tremonti, vicino quanto basta a Futuro e Libertà ma formalmente impeccabile nel ruolo di superministro dell'era Berlusconi.

La carta dell'outsider ma non troppo è auspicabile per entrambi gli schieramenti: se a Fini fa indubbiamente comodo riorganizzare le fila in vista del prossimo turno elettorale, a Berlusconi il compromesso farebbe gola in seno a quello che si vocifera sarà un salvacondotto giudiziario. Il legittimo impedimento e il Lodo Alfano non hanno più ragione di esistere se una delle cariche da scudare non è Berlusconi, ma sono ancora diversi i processi in cui il futuro ex premier dovrà sottoporsi ed un'eventuale interdizione dagli uffici pubblici per la condanna al processo Mills - che dopo la prescrizione del corrotto dovrà occuparsi del conclamato corruttore - manderebbe in fumo il progetto di Berlusconi di arrivare alla massima carica dello Stato.

Una semplice legge ordinaria, magari un riciclo bello e buono del famigerato processo breve, tutelerebbe Berlusconi, andando a incidere sui processi in corso e scansando l'etichetta di legge ad personam. Fini, dalla sua posizione di presidente della Camera, ha sempre ribadito di non voler cedere a quest'uso personalistico dell'attività parlamentare, ma se questa fosse l'unica possibilità di spodestare il vecchio sire è probabile che l'ex delfino ci penserebbe su almeno un paio di volte prima di porre il suo veto.

Il terzo ed ultimo futuro possibile contempla quello che viene chiamato "incidente parlamentare". In pratica, un conflitto giudicato insanabile all'interno delle istituzioni che si espleta nella reiterata sconfitta della maggioranza in termini di numeri: nel caso in cui il Governo andasse sotto più volte su provvedimenti di evidente rilievo economico e sociale, oppure nel caso in cui fosse formalmente sfiduciato da membri della sua stessa maggioranza in merito a provvedimenti su cui è stata apposta la fiducia.

Questa sembra essere la strada più probabile dopo le dichiarazioni di guerra di Bocchino e l'indubbio trionfo personale che Fini ha abilmente raccolto al meeting di Perugia. I tempi però non saranno così fulminei come in molti li vorrebbero: l'approvazione della Finanziaria è una priorità sottolineata da più fronti, primo fra tutti quello del Quirinale. Il testo approderà alla Camera il prossimo 16 novembre, mentre la calendarizzazione e il conseguente via libera da parte del Senato dovrebbero attestarsi tra gli ultimi giorni di novembre e i primi di dicembre.

Di fronte alla sfiducia, Berlusconi sarebbe costretto a rimettere il suo mandato a Napolitano che comunque potrebbe optare per le elezioni anticipate. Queste non potrebbero però svolgersi prima di 45 giorni dallo scioglimento delle Camere, si arriverebbe perciò a febbraio 2011 ed è a quella data che sono rivolti i pensieri e le imprecazioni degli strateghi politici nostrani.

Con l'attuale legge si riprodurrebbe lo scenario che ha già visto scendere a compromessi le maggiori forze politiche tedesche e inglesi: un governo tecnico a maggioranza allargata, a questo punto, rimarrebbe l'unico salvagente a cui appigliarsi per sperare di cambiare la legge elettorale ed affrontare finalmente gli enormi scogli economici che stanno affondando il Titanic Italia.

Resterebbe però il paradosso del governo tecnico dopo le urne e non prima, come la logica suggerirebbe; ma dopo 16 anni in balia del più stralunato circo equestre, la caduta e la fine all'insegna del paradosso sono una tappa praticamente obbligata. 

 

 

 

di Rosa Ana De Santis

E’ in corso in questi giorni la seconda conferenza nazionale “Famiglia: storia e futuro di tutti”, organizzata dal Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, guidato dal Sottogretario Giovanardi. L’ouverture a questo importante appuntamento istituzionale sembrava esser iniziata già nei giorni scorsi, quando il Papa, dalla Basilica della Sagrada Familia, aveva ricordato la sacralità del legame matrimoniale uomo-donna come unica e immodificabile forma di famiglia naturale. Oggi da Milano è invece lui, Giovanardi, il padrone di casa, a rincarare il messaggio del conservatorismo, del rifiuto delle differenze e della chiusura culturale a ogni trasformazione apportata dal progresso della scienza e dall’evoluzione del costume.

Nel centro del mirino ci sono le biotecnologie, la tecnica della fecondazione in vitro in modo particolare, disciplinata in Italia da una legge incompleta e punitiva, la deriva delle separazioni e dei divorzi. Un minestrone di argomenti che ha come unico fine quello di creare un’opposizione tra la scienza e la relazione d’amore su cui deve essere fondata la famiglia. Gli interventi della scienza, secondo Giovanardi, nel modo di concepire e mettere al mondo figli, potrebbero danneggiare la comunità d’amore in cui i figli vengono a nascere.

Non è chiaro il legame secondo il quale due persone animate dal desiderio di diventare genitori, che ricorrono alla scienza per riparare o superare limiti o deficit naturali, dovrebbero, in questo modo, inficiare la relazione d’amore e di valore che li lega e li guida in questo progetto di genitorialità. E’ così, evidentemente, che si vuole instillare terrore e sospetto tra i comuni cittadini, nei riguardi dei progressi scientifici e dei cambiamenti. Sennò la Chiesa come campa? Ogni mercantilismo di geni, ogni rischio di eugenetica non ha a che vedere con la legge 40, basta leggerla per rendersene conto. E non è in ogni caso con il divieto che si preverranno certi scenari. Anche perché a pochi chilometri dai nostri confini, basta avere un po’ di soldi, per fare tutto.

Al Dipartimento della Famiglia dovrebbe interessare piuttosto il monitoraggio delle novità scientifiche, lo studio e le analisi dei rischi, la salute delle donne madri (così duramente danneggiate dai criteri d’impianto della legge 40), le strategie di educazione e sensibilizzazione al corretto modo di usare le tecniche e non il ricorso al divieto come unico strumento di educazione culturale. Ma ve lo immaginate Giovanardi alle prese con questi problemi?

Si è parlato anche di quoziente familiare per aiutare le famiglie più numerose, teorema del fisco, che da Parma a Roma, é di recente molto in voga, almeno nei buoni propositi dei tavoli regionali. Ma basterebbe non togliere di continuo soldi dalle casse del welfare e non svuotare i servizi e i diritti assistenziali per aiutare le famiglie. I figli non si fanno perchè costano troppo e la precarietà da condizione solo economica si è trasformata in una categoria di vita individuale e sociale. A fare il resto ci pensa la crisi economica dilagante e un governo inerte.

Questo lo scenario di paralisi che questa Conferenza non ha il coraggio di denunciare, preferendo i capri espiatori delle tecniche e delle derive immorali. Il generale per non parlare del particolare, o meglio l’ideologia reazionaria per non parlare del progresso. Quel quotidiano e sistematico insieme di ostacoli che impedisce a due giovani di metter su casa e famiglia.

Tornando ai massimi sistemi sociali e culturali sarà il caso che, prima o poi, siano le Istituzioni, come è loro dovere fare, a riconoscere le nuove famiglie. Non bisogna inventarsi una nuova idea o un modello fantasioso, surreale. Esistono già. Separati, genitori single, omosessuali, famiglie allargate, unione miste. Bisognerà attrezzarsi per il duro lavoro di tradurre in riconoscimento di diritti qualcosa che esiste già. Cioè la relazione di cura e di amore, la responsabilità di guidare i figli, la tutela del loro bene e la ricerca della loro felicità, a prescindere dal proprio stato di famiglia, dai propri gusti sessuali e dalla presenza o meno di un contratto di matrimonio. Ma bisognerà aspettare un nuovo governo e un uomo che non sia Giovanardi.

Quanto al tormentone delle biotecnologie, viene da chiedersi come si faccia a non capire che utilizzare le tecniche e la scienza per evitare che un figlio nasca con una malattia o con un deficit invalidante è lo stesso amore che durante tutta la vita una madre e un padre provano nel proteggere il figlio dai rischi e curandolo dalle malattie. Perché questo amore diventa sacro solo dopo la nascita? Perché questo dice la Chiesa e perché la famiglia della Presidenza del Consiglio è quella di Nazareth.

Perché allora, non vietare l’amniocentesi, questo “abuso” della scienza ormai diffuso tra le donne, che porta molte a decidere di non far nascere figli down o affetti da gravi patologie genetiche? Quale altro miglioramento della nostra vita finirà sotto processo nella prossima agenda di questa inquisizione delle relazioni e degli affetti?

Proponiamo a Giovanardi una visita ad Avetrana. Nel cuore della famiglia normale. Quella delle garanzie e degli affetti sicuri, benedetta dal Papa e dalle Istituzioni. Basta andare lì, nella galleria degli orrori, per vedere che non solo la famiglia non esiste, ma che non è mai esistita. Ad esistere sono i sentimenti e i valori. Le madri e i padri. I padri che fanno le madri. Le madri sole che fanno tutto. Le loro scelte e i loro gesti d’amore. Solo questo rende riconoscibili le famiglie reali e i buoni genitori. Non ci sono tabelle, né garanzie. Le relazioni autentiche sono per definizioni fatte di libertà.
Una benedizione l’assenza del presidente Berlusconi. Ha tolto almeno ai poveri Tettamanzi e Giovanardi l’imbarazzo di non poter usare lo stesso rigore morale con il papi nazionale. Che si sa, è caritatevole ed attento alle parentele.

di mazzetta

Ottobre è stato un mese denso di notizie importanti sulle guerre in Iraq e Afghanistan. All'inizio del mese i National Security Archives hanno pubblicato documenti governativi che dimostrano come il governo britannico e quello americano abbiano collaborato al fine esplicito di vendere la guerra all'Iraq alle opinioni pubbliche dei loro paesi e di quelli occidentali.

Numerosi incontri e contatti sono stati stabiliti tra i due paesi per costruire menzogne sulla minaccia rappresentata dall'Iraq, incontri volti esplicitamente non ad analizzare i dati raccolti dalle rispettive intelligence, ma a soddisfare l'agenda politica dei rispettivi governi. Tanto che a un certo punto i due apparati si trovarono a dover rincorrere la fuga in avanti di Bush e Cheney che avevano annunciato la capacità irachena di colpire gli Stati Uniti con armi di distruzione di massa. Dopo tali affermazioni, gli ufficiali incaricati lavorarono ventre a terra per sostenere quella che sapevano essere una clamorosa mistificazione.

Poi c'è stata la pubblicazione dei documenti da parte di Wikileaks, che hanno dimostrato come le vittime irachene siano molte di più di quelle riconosciute dalle fonti occidentali e come gli americani, anche dopo Abu Ghraib, abbiano continuato a torturare i prigionieri, sovrintendendo il lavoro sporco lasciato però a mani irachene o afgane. Cosa grave anche non ufficialmente risaputa, tanto che al Parlamento israeliano è stata presentata un'interrogazione per chiedere di discutere dei “crimini di guerra americani”.

Negli Stati Uniti la cosa ha fatto poco rumore, fonti governative hanno sminuito le notizie dicendo che si trattava di cose già note e la politica, impegnata nelle elezioni di mid-term, ha sorvolato alla grande. Eppure se sono noti crimini, essi non sono stati perseguiti da parte americana e nemmeno irachena o afgana. Identico esito nel nostro paese, nonostante alcune rivelazioni chiamino in causa l'Italia in prima persona; non c'è stata traccia di dibattito politico sul tema.

Pochi giorni dopo il britannico Guardian ha pubblicato una serie di documenti che dimostrano come la Gran Bretagna abbia fornito precise istruzioni ai proprio militari su come praticare la tortura. Anche in Gran Bretagna il dibattito è durato poco, si è alterato il liberale Clegg e poi è finita lì.

L’altro ieri invece è emerso un preciso invito della NATO rivolto alla Russia, affinchè intervenga in Afghanistan con elicotteri e supporto logistico attraverso le frontiere settentrionali. Una notiziona, non solo perché segnerebbe il ritorno dei russi in Afghanistan, ma anche per le conseguenze che l'avvicinamento della Russia alla NATO potrebbe avere sul Grande Gioco asiatico. Difficile immaginare cosa ne penseranno gli associati nello SCO (Shangai Cooperation Organization), la Cina su tutti, e ancora più difficile prevedere le reazioni di pachistani e afgani, che con i russi hanno numerosi conti aperti.

Una buona notizia per americani ed europei che vogliono disimpegnarsi da Kabul, ma che segnala un brusco ribaltamento delle politiche e delle alleanze nell'area, con gli americani che invitano le cannoniere aeree dei russi, quelle stesse che pochi anni fa contribuirono ad abbattere in gran numero fornendo agli afgani i missili antiaerei Stinger.

Ci sarebbe da discutere a lungo di questi sviluppi e soprattutto ci sarebbe da mettere il sigillo definitivo sull'invasione dell'Iraq bollandola come un crimine e cominciando ad ipotizzare processi agli autori dei crimini di guerra. Del resto la notizia é confermata dalle stesse fonti governative che si sono impegnate nella propaganda falsa delle armi di distruzione di massa e della consegna della democrazia alle popolazioni disgraziate dei due paesi.

Invece niente, qualche trafiletto sui giornali e non una sola dichiarazione da maggioranza o opposizione, nessun dibattito in televisione, nessuna campagna-stampa a chiedere conto di una truffa che ha visto il governo Berlusconi agire da protagonista, partorendo la bufala dell'acquisto da parte dell'Iraq dell'uranio nigerino. Nessuna discussione nemmeno per la richiesta (in secondo grado) di dodici anni di carcere per Nicolò Pollari, a causa del suo coinvolgimento nel rapimento di Abu Omar.

Ancora meno attenzione per la richiesta d'ergastolo (in secondo grado) per l'ex-generale Francesco Delfino e per Maurizio Tramonte, Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi, accusati della strage di Brescia. D’altra parte, identico silenzio aveva caratterizzato pochi mesi fa le pesanti accuse ad altri “servitori dello stato” autori di numerosi reati per la “macelleria messicana” in quel di Genova.

Il passato non interessa nel paese senza memoria, ma forse si è addirittura persa l'abitudine di discutere delle questioni gravi e serie, preferendo dar vita all'eterno teatrino del niente per tenere compagnia agli italiani senza turbarli troppo con questioni che in fondo non interessano a nessuno. E ancora meno alle forze politiche, tutte più o meno consenzienti all'andare in guerra e tolleranti verso i metodi illegali in essa impiegati diffusamente dai “nostri ragazzi” e da quelli dei nostri alleati.

di Mariavittoria Orsolato

Torna alla ribalta l’inchiesta che mira a far luce una volta per tutte sulla strage di via D’Amelio e tornano i sospetti sul fatto che non sia stata tutta farina del sacco di Cosa Nostra. Nell’ennesimo interrogatorio cui è stato sottoposto, il pentito di mafia Gaspare Spatuzza avrebbe infatti indicato lo 007 Lorenzo Narracci, ex funzionario del Sisde ed attualmente in forza all’Aisi ( Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna), come l’uomo esterno a Cosa Nostra presente nel garage in cui venne imbottita di tritolo la Fiat 126 destinata ad esplodere dinanzi la casa della madre del compianto Borsellino.

Il riconoscimento sarebbe avvenuto in due fasi: una prima in cui il pentito avrebbe individuato Narracci in foto ed una seconda in un confronto all’americana avvenuto all’interno della Dia di Caltanissetta. Nonostante il condizionale sia d'obbligo, il nome di Narracci non è nuovo alla Procura di Caltanissetta.

L'ex funzionario del Sisde, braccio destro di Bruno Contrada (ex dirigente generale di pubblica sicurezza della Polizia di Stato condannato con sentenza definitiva a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa ed allora numero tre del Servizio Civile con delega all'antimafia), fu infatti iscritto nel registro degli indagati all'interno dell'inchiesta sui "mandanti esterni" delle stragi del 1992, inchiesta poi archiviata nel 2002.

Ora però i riflettori tornano su di lui, non solo grazie alle rivelazioni di u' Tignuso - nomignolo mutuato dall'incipiente calvizie del picciotto di Brancaccio - ma anche alle sibilline conferme di Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco colluso di Palermo. A detta del rampollo di don Vito, Narracci avrebbe recato visita al padre in due occasioni: la prima in un hotel di Palermo assieme al misterioso "signor Franco" - l'uomo che Ciancimino jr indica come l'anello di congiunzione tra Stato e Mafia - e la seconda direttamente nell'abitazione dell'ex sindaco.

Sebbene di nuovo indagato a Caltanissetta, Narracci al momento non è colpevole di nulla: il rischio che, 18 anni dopo, la memoria dei testimoni sia confusa è forte e più che fondato. Ma, se il doppio riconoscimento trovasse conferma, sarebbe il tassello mancante di un mosaico di “coincidenze” che lascia senza fiato, confermando di fatto l'esiziale alleanza tra Mafia e Stato.

In quel terribile 19 luglio del 92, l'agente del Sisde Narracci si trovava infatti su una barca, a largo di Palermo, assieme a Contrada, ad un comandante dei carabinieri e a Gianni Valentino, un commerciante di abiti da sposa in contatto con il boss Raffaele Ganci (condannato in via definita all’ergastolo per le stragi del '92). In uno dei verbali del processo che ha portato alla condanna di Contrada, l'imputato dichiarò che quel giorno, poco dopo pranzo, Valentino ricevette una telefonata dalla figlia in cui lo avvisava che a Palermo c'era stato un attentato. Contrada aggiunse che immediatamente dopo la notizia, Narracci chiamò l'ufficio palermitano del Sisde per avere ulteriori informazioni ed ebbe conferma che una bomba aveva sventrato via D'Amelio, indirizzo di residenza della madre del giudice Borsellino.

In questa deposizione nulla sembrerebbe pendere a scapito dei due uomini dello Stato, ma le ricostruzioni sui tabulati telefonici elaborate del super consulente Gioacchino Genchi smentiscono clamorosamente le dichiarazioni di Contrada, aggravando sia la sua posizione che quella di Narracci. Secondo i dati riportati dall'Osservatorio geosismico, il momento esatto della deflagrazione che ha disarticolato Borsellino e i cinque uomini della sua scorta è da fissarsi alle 16, 58 minuti e 20 secondi. Alle 17 in punto, 100 secondi dopo l’esplosione, Narracci chiama dal suo cellulare il centro Sisde di via Roma. Ma, fra lo scoppio e la chiamata, c’è almeno un’altra telefonata: quella che ha avvertito Gianni Valentino dell’esplosione.

Insomma in poco più di un minuto e mezzo accade praticamente di tutto: esplode la Fiat 126, la figlia di Valentino chiama il padre in barca, il commerciante informa i convitati alla gita in barca, Narracci telefona all'ufficio del Sisde che, per quanto sia domenica, si ritrova ad essere aperto e stranamente gremito di agenti informatissimi sull'accaduto appena accaduto.

Come accennato sopra, il condizionale è d'obbligo ma alcune domande sorgono spontanee: come facevano la figlia di Valentino e gli uomini del Sisde a sapere, a pochi istanti dallo scoppio, di quello che Contrada riferisce come "attentato"? Le prime volanti arrivarono sul luogo della strage solo un quarto d'ora dopo l'esplosione e le prime notizie cominciarono a circolare alle 17.30, esattamente 32 minuti dopo, e parlavano di un generico scoppio in zona Fiera.

A voler pensar male si potrebbe dire che i natanti a largo delle coste palermitane siano stati informati in presa diretta perché direttamente interessati e perché in contatto con chi da Castel Utveggio (ufficio occulto del Sisde, certificato dagli incroci telefonici di Genchi) aveva una visuale privilegiata su via D'Amelio. Se così fosse, l'innocua gita in barca cui partecipò anche lo 007 Narracci, assumerebbe tutta un'altra prospettiva. Ahinoi, la misteriosa telefonata della figlia di Valentino proveniva da un telefono fisso (in quanto tale non rintracciabile dai tabulati di Genchi) e in questi 18 anni il commerciante di abiti da sposa amico del boss Ganci è passato a miglior vita, impedendo un incidente probatorio che potrebbe spazzar via tutti i se e i ma che Spatuzza e Ciancimino jr. si portano dietro a causa della loro storia personale.

Se le connivenze di Contrada sono state accettate e ratificate da ben due sentenze in appello, per Narracci le accuse sono ancora tutte da verificare. A suo sfavore pende però il giudizio negativo del Copasir ( Comitato per la Sicurezza Interna della Repubblica) che, riunito in seduta lo scorso 13 ottobre, ha interrogato il direttore dell'Aisi, Giorgio Piccirillo, sollecitando la rimozione di Narracci dall'incarico. Una rimozione sui cui si premeva già precedentemente, quando a inizio luglio il comitato affrontò il caso di fronte al direttore del Dipartimento di Sicurezza Interna, Gianni De Gennaro.

Da Caltanissetta però si richiama alla prudenza. Il procuratore capo Sergio Lari tiene a sottolineare come Spatuzza abbia si riconosciuto Narracci in foto ma abbia anche espresso dubbi sul fatto che fosse la stessa persona “estranea a Cosa Nostra” presente nel garage mentre veniva preparata la Fiat 126 utilizzata per la strage di via D’Amelio. Secondo Lari, le notizie circolate in serata perciò “non sono esatte” ma, dato il segreto istruttorio, non ha potuto aggiungere altro.

In attesa che il filo di questa pantagruelica matassa si dipani, il dubbio che lo Stato e i suoi occulti colletti bianchi siano implicati in una delle pagine pagine più buie della nostra Repubblica, resta e si rafforza.

 

di Giuliano Luongo

"Senza l’Italia faremmo meglio”. Dopo una marea di convenevoli alquanto inutili, il caro Sergio Marchionne ha espresso la citata dichiarazione durante un’intervista di Fabio Fazio alla trasmissione “Che Tempo che Fa” della passata domenica. Senza cambiare espressione, senza battere ciglio, ha candidamente ammesso che la casa automobilistica che anni or sono ha messo le ruote all’Italia...non ha bisogno dell’Italia.

O meglio, ha bisogno di non avere l’Italia. Marchionne si riferiva alla quota di produzione fatta nel nostro Paese, costosa e generalmente antieconomica rispetto a quelle prodotte all’estero: inoltre parlava della scarsa attrattività dell’Italia per gli investimenti stranieri, vista la costante situazione di instabilità economica e politica mista ad un clima sindacale troppo teso.

Dunque pare che il bisogno fondamentale dell’Ad Fiat non sia solo una terapia d’urto dal dentista, ma soprattutto una cura di fosforo: il fatto che il decesso della sua compagnia sia stato evitato dal governo italiano con i soldi dei contribuenti italiani innumerevoli volte sembra totalmente evaporato dalla sua memoria, senza parlare dell’importante ruolo degli incentivi statali sulla quota di vendite. Il suo intervento televisivo è proseguito con una serie di pretesti che a sua detta avrebbero dovuto spiegare la momentanea cattiva situazione della Fiat, del tutto imputabile a decisioni delle gestioni precedenti, ai sindacati, alla diretta concorrenza.

Le reazioni del mondo politico a questa esternazione atipica, degna del peggior Cossiga beccato durante una sbornia euforica, sono state alquanto eterogenee. Riportiamo la reazione dell’ormai suo funzionario sindacale Bonanni: senza smentire le sue posizioni recenti, ha appoggiato con vigore le posizioni dell’Ad, viste come realtà inconfutabili. L’uomo “contro” del momento, Gianfranco Fini, si è posto invece contro Marchionne, evidenziando le citate gravi amnesie di quest’ultimo sul recente passato del bilancio della sua società.

In disaccordo ma più neutrale invece Angeletti. Dal PD toccano problemi più strettamente industriali: il responsabile economico Fassina ricorda come Marchionne dovrebbe prima pensare a ristrutturare le carenze della sua azienda in termini di progettazione, politiche di investimenti ed organizzazione del lavoro, prima di sparare a zero su tutto e tutti.

Al di là della polemica strettamente politica, la cosa migliore è dirigere lo sguardo verso i problemi legati all’industria stessa, dalla qualità dei prodotti lanciati sul mercato sino ai piani più complessi della struttura organizzativa. La bagarre politica, come al solito, distoglie l’attenzione dalle carenze prettamente di gestione.

Il problema centrale è evidente: per Marchionne il solo modo per far risollevare l’azienda passa per l’abbassamento dei costi di produzione tagliando dal lato dei salari, peggiorando direttamente le condizioni dei lavoratori sul nostro suolo oppure spostando gli stabilimenti nel più vicino e conveniente paese slavo o latino americano. Non dimentichiamo che la Serbia è solo l’ultimo in termini cronologici: la produzione Fiat è presente in Polonia - non dimentichiamo il malcontento degli operai a Tychy, che hanno dovuto sudare parecchio per un mensile di 500 euro - Brasile, India e Russia.

L’importante è trovare un paese con manodopera disorganizzata a basso costo, magari al di fuori delle mura comunitarie dove non arrivano gli standard sulle condizioni di lavoro, e dove magari vi sono facili incentivi per le imprese straniere. Nonostante nel nostro paese ormai due terzi delle principali sigle sindacali siano molto più che malleabili, ciò non è ancora sufficiente per il manager: per l’attuale gestione l’idea di relazioni industriali serene si concretizza nell’imposizione di condizioni inique per il lavoratore che ha diritto solo a stare in silenzio. Il pensiero di Marchionne è evidente: la colpa della situazione attuale è esclusivamente dei lavoratori “recalcitranti”, che da egoisti non accettano condizioni più dure per il bene dell’azienda, inasprendo il clima e rendendo l’impresa poco appetibile per gli investitori esteri.

Sarebbe poi utile concentrarsi sulla mera qualità delle auto prodotte. Marchionne incolpa gli incentivi statali anche per auto straniere (su 10 auto comprate, solo 3 sono italiane): ma si è chiesto perché le preferenze si spostano sui prodotti esteri? Il primo problema è che la qualità Fiat è oggettivamente bassa, con avarie frequenti e componenti fragili, a fronte di un prezzo elevato per la fascia di riferimento.

In secondo luogo, si veda il problema dell’innovazione. Si rilanciano sul mercato modelli obsoleti, resi “nuovi” grazie al totale snaturamento degli stessi, con conseguente cambio di target commerciale. Si pensi alla Panda, da utilitaria a pseudo 4WD per signore, o alla 500, veicolo nato storicamente per motorizzare i meno abbienti e divenuto mini super car per fighetti dalle facoltà mentali ridotte ma dai capienti portafogli.

E in entrambi in casi, un prezzo di partenza per lo più elevato, taglia fuori la fascia bassa di utenza, quella sulla quale la Fiat ha fatto la propria gloria nei “bei” tempi andati. Si noti che questi due modelli sono stati anche particolarmente “ingannevoli” per le sorti dell’azienda: dopo un iniziale successo - dovuto peraltro ad un battage pubblicitario assordante - sono finiti nel dimenticatoio (e nei reparti “usato” dei concessionari) molto presto, per la serie di motivi appena elencati.

Il problema dell’innovazione non si lega esclusivamente ai modelli: ricerca e sviluppo di nuove tecnologie rimangono spesso a livello embrionale. L’Opel già installava motori Euro 4 nel 2003, oggi in Francia si corre verso l’auto elettrica, ma dalle nostre parti si rimane al palo: non che la cosa ci stupisca, visto che qui si ritiene ancora che il nucleare sia una fonte energetica moderna e pulita. Già, la concorrenza francese in particolare. Marchionne ha sostenuto che la Fiat ha fatto l’errore di specializzarsi nella produzione di auto piccole a basso valore aggiunto, che concedono profitti minori, a differenza ad esempio della Germania, che produce principalmente auto di lusso.

Ma proprio nel settore utilitarie low cost i francofoni ci stracciano. E come mai? Perché noi produciamo low cost costose: abbiamo perso la nostra fascia ideale e per di più la qualità dei componenti si attesta su livelli nettamente inferiori. Concentrare risorse nella progettazione invece che nelle follie di marketing, tra campagne pubblicitarie milionarie e linee d’abbigliamento indesiderate sarebbe un passo importante da fare.

Detto questo, non rimane che fare alcune considerazioni. Il problema è strettamente produttivo, ma si cerca di buttarla sul piano politico, a metà tra le responsabilità del “governo ladro” e soprattutto dei lavoratori, i veri bersagli dell’attuale gestione, vittime del nuovo maccartismo italiano: la coscienza di classe e la fame di diritti viene bollata come mentalità sovversiva e va appianata per il raggiungimento del profitto. Non vengono viste strade alternative. Come nota Landini, Marchionne riesce solo a parlare di “sfascio”, senza spendere una parola su investimenti, rinnovo del piano industriale o qualsivoglia strategia. Perché non c’è nulla di tutto questo. C’è solo la ferma intenzione a comandare un’impresa col pugno di ferro verso l’obiettivo del profitto familiare, senza curarsi di chi costituisce davvero l’ossatura dell’azienda. Come quando la rivoluzione industriale era appena iniziata.

 

 


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