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di mazzetta
Ottobre è stato un mese denso di notizie importanti sulle guerre in Iraq e Afghanistan. All'inizio del mese i National Security Archives hanno pubblicato documenti governativi che dimostrano come il governo britannico e quello americano abbiano collaborato al fine esplicito di vendere la guerra all'Iraq alle opinioni pubbliche dei loro paesi e di quelli occidentali.
Numerosi incontri e contatti sono stati stabiliti tra i due paesi per costruire menzogne sulla minaccia rappresentata dall'Iraq, incontri volti esplicitamente non ad analizzare i dati raccolti dalle rispettive intelligence, ma a soddisfare l'agenda politica dei rispettivi governi. Tanto che a un certo punto i due apparati si trovarono a dover rincorrere la fuga in avanti di Bush e Cheney che avevano annunciato la capacità irachena di colpire gli Stati Uniti con armi di distruzione di massa. Dopo tali affermazioni, gli ufficiali incaricati lavorarono ventre a terra per sostenere quella che sapevano essere una clamorosa mistificazione.
Poi c'è stata la pubblicazione dei documenti da parte di Wikileaks, che hanno dimostrato come le vittime irachene siano molte di più di quelle riconosciute dalle fonti occidentali e come gli americani, anche dopo Abu Ghraib, abbiano continuato a torturare i prigionieri, sovrintendendo il lavoro sporco lasciato però a mani irachene o afgane. Cosa grave anche non ufficialmente risaputa, tanto che al Parlamento israeliano è stata presentata un'interrogazione per chiedere di discutere dei “crimini di guerra americani”.
Negli Stati Uniti la cosa ha fatto poco rumore, fonti governative hanno sminuito le notizie dicendo che si trattava di cose già note e la politica, impegnata nelle elezioni di mid-term, ha sorvolato alla grande. Eppure se sono noti crimini, essi non sono stati perseguiti da parte americana e nemmeno irachena o afgana. Identico esito nel nostro paese, nonostante alcune rivelazioni chiamino in causa l'Italia in prima persona; non c'è stata traccia di dibattito politico sul tema.
Pochi giorni dopo il britannico Guardian ha pubblicato una serie di documenti che dimostrano come la Gran Bretagna abbia fornito precise istruzioni ai proprio militari su come praticare la tortura. Anche in Gran Bretagna il dibattito è durato poco, si è alterato il liberale Clegg e poi è finita lì.
L’altro ieri invece è emerso un preciso invito della NATO rivolto alla Russia, affinchè intervenga in Afghanistan con elicotteri e supporto logistico attraverso le frontiere settentrionali. Una notiziona, non solo perché segnerebbe il ritorno dei russi in Afghanistan, ma anche per le conseguenze che l'avvicinamento della Russia alla NATO potrebbe avere sul Grande Gioco asiatico. Difficile immaginare cosa ne penseranno gli associati nello SCO (Shangai Cooperation Organization), la Cina su tutti, e ancora più difficile prevedere le reazioni di pachistani e afgani, che con i russi hanno numerosi conti aperti.
Una buona notizia per americani ed europei che vogliono disimpegnarsi da Kabul, ma che segnala un brusco ribaltamento delle politiche e delle alleanze nell'area, con gli americani che invitano le cannoniere aeree dei russi, quelle stesse che pochi anni fa contribuirono ad abbattere in gran numero fornendo agli afgani i missili antiaerei Stinger.
Ci sarebbe da discutere a lungo di questi sviluppi e soprattutto ci sarebbe da mettere il sigillo definitivo sull'invasione dell'Iraq bollandola come un crimine e cominciando ad ipotizzare processi agli autori dei crimini di guerra. Del resto la notizia é confermata dalle stesse fonti governative che si sono impegnate nella propaganda falsa delle armi di distruzione di massa e della consegna della democrazia alle popolazioni disgraziate dei due paesi.
Invece niente, qualche trafiletto sui giornali e non una sola dichiarazione da maggioranza o opposizione, nessun dibattito in televisione, nessuna campagna-stampa a chiedere conto di una truffa che ha visto il governo Berlusconi agire da protagonista, partorendo la bufala dell'acquisto da parte dell'Iraq dell'uranio nigerino. Nessuna discussione nemmeno per la richiesta (in secondo grado) di dodici anni di carcere per Nicolò Pollari, a causa del suo coinvolgimento nel rapimento di Abu Omar.
Ancora meno attenzione per la richiesta d'ergastolo (in secondo grado) per l'ex-generale Francesco Delfino e per Maurizio Tramonte, Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi, accusati della strage di Brescia. D’altra parte, identico silenzio aveva caratterizzato pochi mesi fa le pesanti accuse ad altri “servitori dello stato” autori di numerosi reati per la “macelleria messicana” in quel di Genova.
Il passato non interessa nel paese senza memoria, ma forse si è addirittura persa l'abitudine di discutere delle questioni gravi e serie, preferendo dar vita all'eterno teatrino del niente per tenere compagnia agli italiani senza turbarli troppo con questioni che in fondo non interessano a nessuno. E ancora meno alle forze politiche, tutte più o meno consenzienti all'andare in guerra e tolleranti verso i metodi illegali in essa impiegati diffusamente dai “nostri ragazzi” e da quelli dei nostri alleati.
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di Mariavittoria Orsolato
Torna alla ribalta l’inchiesta che mira a far luce una volta per tutte sulla strage di via D’Amelio e tornano i sospetti sul fatto che non sia stata tutta farina del sacco di Cosa Nostra. Nell’ennesimo interrogatorio cui è stato sottoposto, il pentito di mafia Gaspare Spatuzza avrebbe infatti indicato lo 007 Lorenzo Narracci, ex funzionario del Sisde ed attualmente in forza all’Aisi ( Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna), come l’uomo esterno a Cosa Nostra presente nel garage in cui venne imbottita di tritolo la Fiat 126 destinata ad esplodere dinanzi la casa della madre del compianto Borsellino.
Il riconoscimento sarebbe avvenuto in due fasi: una prima in cui il pentito avrebbe individuato Narracci in foto ed una seconda in un confronto all’americana avvenuto all’interno della Dia di Caltanissetta. Nonostante il condizionale sia d'obbligo, il nome di Narracci non è nuovo alla Procura di Caltanissetta.
L'ex funzionario del Sisde, braccio destro di Bruno Contrada (ex dirigente generale di pubblica sicurezza della Polizia di Stato condannato con sentenza definitiva a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa ed allora numero tre del Servizio Civile con delega all'antimafia), fu infatti iscritto nel registro degli indagati all'interno dell'inchiesta sui "mandanti esterni" delle stragi del 1992, inchiesta poi archiviata nel 2002.
Ora però i riflettori tornano su di lui, non solo grazie alle rivelazioni di u' Tignuso - nomignolo mutuato dall'incipiente calvizie del picciotto di Brancaccio - ma anche alle sibilline conferme di Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco colluso di Palermo. A detta del rampollo di don Vito, Narracci avrebbe recato visita al padre in due occasioni: la prima in un hotel di Palermo assieme al misterioso "signor Franco" - l'uomo che Ciancimino jr indica come l'anello di congiunzione tra Stato e Mafia - e la seconda direttamente nell'abitazione dell'ex sindaco.
Sebbene di nuovo indagato a Caltanissetta, Narracci al momento non è colpevole di nulla: il rischio che, 18 anni dopo, la memoria dei testimoni sia confusa è forte e più che fondato. Ma, se il doppio riconoscimento trovasse conferma, sarebbe il tassello mancante di un mosaico di “coincidenze” che lascia senza fiato, confermando di fatto l'esiziale alleanza tra Mafia e Stato.
In quel terribile 19 luglio del 92, l'agente del Sisde Narracci si trovava infatti su una barca, a largo di Palermo, assieme a Contrada, ad un comandante dei carabinieri e a Gianni Valentino, un commerciante di abiti da sposa in contatto con il boss Raffaele Ganci (condannato in via definita all’ergastolo per le stragi del '92). In uno dei verbali del processo che ha portato alla condanna di Contrada, l'imputato dichiarò che quel giorno, poco dopo pranzo, Valentino ricevette una telefonata dalla figlia in cui lo avvisava che a Palermo c'era stato un attentato. Contrada aggiunse che immediatamente dopo la notizia, Narracci chiamò l'ufficio palermitano del Sisde per avere ulteriori informazioni ed ebbe conferma che una bomba aveva sventrato via D'Amelio, indirizzo di residenza della madre del giudice Borsellino.
In questa deposizione nulla sembrerebbe pendere a scapito dei due uomini dello Stato, ma le ricostruzioni sui tabulati telefonici elaborate del super consulente Gioacchino Genchi smentiscono clamorosamente le dichiarazioni di Contrada, aggravando sia la sua posizione che quella di Narracci. Secondo i dati riportati dall'Osservatorio geosismico, il momento esatto della deflagrazione che ha disarticolato Borsellino e i cinque uomini della sua scorta è da fissarsi alle 16, 58 minuti e 20 secondi. Alle 17 in punto, 100 secondi dopo l’esplosione, Narracci chiama dal suo cellulare il centro Sisde di via Roma. Ma, fra lo scoppio e la chiamata, c’è almeno un’altra telefonata: quella che ha avvertito Gianni Valentino dell’esplosione.
Insomma in poco più di un minuto e mezzo accade praticamente di tutto: esplode la Fiat 126, la figlia di Valentino chiama il padre in barca, il commerciante informa i convitati alla gita in barca, Narracci telefona all'ufficio del Sisde che, per quanto sia domenica, si ritrova ad essere aperto e stranamente gremito di agenti informatissimi sull'accaduto appena accaduto.
Come accennato sopra, il condizionale è d'obbligo ma alcune domande sorgono spontanee: come facevano la figlia di Valentino e gli uomini del Sisde a sapere, a pochi istanti dallo scoppio, di quello che Contrada riferisce come "attentato"? Le prime volanti arrivarono sul luogo della strage solo un quarto d'ora dopo l'esplosione e le prime notizie cominciarono a circolare alle 17.30, esattamente 32 minuti dopo, e parlavano di un generico scoppio in zona Fiera.
A voler pensar male si potrebbe dire che i natanti a largo delle coste palermitane siano stati informati in presa diretta perché direttamente interessati e perché in contatto con chi da Castel Utveggio (ufficio occulto del Sisde, certificato dagli incroci telefonici di Genchi) aveva una visuale privilegiata su via D'Amelio. Se così fosse, l'innocua gita in barca cui partecipò anche lo 007 Narracci, assumerebbe tutta un'altra prospettiva. Ahinoi, la misteriosa telefonata della figlia di Valentino proveniva da un telefono fisso (in quanto tale non rintracciabile dai tabulati di Genchi) e in questi 18 anni il commerciante di abiti da sposa amico del boss Ganci è passato a miglior vita, impedendo un incidente probatorio che potrebbe spazzar via tutti i se e i ma che Spatuzza e Ciancimino jr. si portano dietro a causa della loro storia personale.
Se le connivenze di Contrada sono state accettate e ratificate da ben due sentenze in appello, per Narracci le accuse sono ancora tutte da verificare. A suo sfavore pende però il giudizio negativo del Copasir ( Comitato per la Sicurezza Interna della Repubblica) che, riunito in seduta lo scorso 13 ottobre, ha interrogato il direttore dell'Aisi, Giorgio Piccirillo, sollecitando la rimozione di Narracci dall'incarico. Una rimozione sui cui si premeva già precedentemente, quando a inizio luglio il comitato affrontò il caso di fronte al direttore del Dipartimento di Sicurezza Interna, Gianni De Gennaro.
Da Caltanissetta però si richiama alla prudenza. Il procuratore capo Sergio Lari tiene a sottolineare come Spatuzza abbia si riconosciuto Narracci in foto ma abbia anche espresso dubbi sul fatto che fosse la stessa persona “estranea a Cosa Nostra” presente nel garage mentre veniva preparata la Fiat 126 utilizzata per la strage di via D’Amelio. Secondo Lari, le notizie circolate in serata perciò “non sono esatte” ma, dato il segreto istruttorio, non ha potuto aggiungere altro.
In attesa che il filo di questa pantagruelica matassa si dipani, il dubbio che lo Stato e i suoi occulti colletti bianchi siano implicati in una delle pagine pagine più buie della nostra Repubblica, resta e si rafforza.
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di Giuliano Luongo
"Senza l’Italia faremmo meglio”. Dopo una marea di convenevoli alquanto inutili, il caro Sergio Marchionne ha espresso la citata dichiarazione durante un’intervista di Fabio Fazio alla trasmissione “Che Tempo che Fa” della passata domenica. Senza cambiare espressione, senza battere ciglio, ha candidamente ammesso che la casa automobilistica che anni or sono ha messo le ruote all’Italia...non ha bisogno dell’Italia.
O meglio, ha bisogno di non avere l’Italia. Marchionne si riferiva alla quota di produzione fatta nel nostro Paese, costosa e generalmente antieconomica rispetto a quelle prodotte all’estero: inoltre parlava della scarsa attrattività dell’Italia per gli investimenti stranieri, vista la costante situazione di instabilità economica e politica mista ad un clima sindacale troppo teso.
Dunque pare che il bisogno fondamentale dell’Ad Fiat non sia solo una terapia d’urto dal dentista, ma soprattutto una cura di fosforo: il fatto che il decesso della sua compagnia sia stato evitato dal governo italiano con i soldi dei contribuenti italiani innumerevoli volte sembra totalmente evaporato dalla sua memoria, senza parlare dell’importante ruolo degli incentivi statali sulla quota di vendite. Il suo intervento televisivo è proseguito con una serie di pretesti che a sua detta avrebbero dovuto spiegare la momentanea cattiva situazione della Fiat, del tutto imputabile a decisioni delle gestioni precedenti, ai sindacati, alla diretta concorrenza.
Le reazioni del mondo politico a questa esternazione atipica, degna del peggior Cossiga beccato durante una sbornia euforica, sono state alquanto eterogenee. Riportiamo la reazione dell’ormai suo funzionario sindacale Bonanni: senza smentire le sue posizioni recenti, ha appoggiato con vigore le posizioni dell’Ad, viste come realtà inconfutabili. L’uomo “contro” del momento, Gianfranco Fini, si è posto invece contro Marchionne, evidenziando le citate gravi amnesie di quest’ultimo sul recente passato del bilancio della sua società.
In disaccordo ma più neutrale invece Angeletti. Dal PD toccano problemi più strettamente industriali: il responsabile economico Fassina ricorda come Marchionne dovrebbe prima pensare a ristrutturare le carenze della sua azienda in termini di progettazione, politiche di investimenti ed organizzazione del lavoro, prima di sparare a zero su tutto e tutti.
Al di là della polemica strettamente politica, la cosa migliore è dirigere lo sguardo verso i problemi legati all’industria stessa, dalla qualità dei prodotti lanciati sul mercato sino ai piani più complessi della struttura organizzativa. La bagarre politica, come al solito, distoglie l’attenzione dalle carenze prettamente di gestione.
Il problema centrale è evidente: per Marchionne il solo modo per far risollevare l’azienda passa per l’abbassamento dei costi di produzione tagliando dal lato dei salari, peggiorando direttamente le condizioni dei lavoratori sul nostro suolo oppure spostando gli stabilimenti nel più vicino e conveniente paese slavo o latino americano. Non dimentichiamo che la Serbia è solo l’ultimo in termini cronologici: la produzione Fiat è presente in Polonia - non dimentichiamo il malcontento degli operai a Tychy, che hanno dovuto sudare parecchio per un mensile di 500 euro - Brasile, India e Russia.
L’importante è trovare un paese con manodopera disorganizzata a basso costo, magari al di fuori delle mura comunitarie dove non arrivano gli standard sulle condizioni di lavoro, e dove magari vi sono facili incentivi per le imprese straniere. Nonostante nel nostro paese ormai due terzi delle principali sigle sindacali siano molto più che malleabili, ciò non è ancora sufficiente per il manager: per l’attuale gestione l’idea di relazioni industriali serene si concretizza nell’imposizione di condizioni inique per il lavoratore che ha diritto solo a stare in silenzio. Il pensiero di Marchionne è evidente: la colpa della situazione attuale è esclusivamente dei lavoratori “recalcitranti”, che da egoisti non accettano condizioni più dure per il bene dell’azienda, inasprendo il clima e rendendo l’impresa poco appetibile per gli investitori esteri.
Sarebbe poi utile concentrarsi sulla mera qualità delle auto prodotte. Marchionne incolpa gli incentivi statali anche per auto straniere (su 10 auto comprate, solo 3 sono italiane): ma si è chiesto perché le preferenze si spostano sui prodotti esteri? Il primo problema è che la qualità Fiat è oggettivamente bassa, con avarie frequenti e componenti fragili, a fronte di un prezzo elevato per la fascia di riferimento.
In secondo luogo, si veda il problema dell’innovazione. Si rilanciano sul mercato modelli obsoleti, resi “nuovi” grazie al totale snaturamento degli stessi, con conseguente cambio di target commerciale. Si pensi alla Panda, da utilitaria a pseudo 4WD per signore, o alla 500, veicolo nato storicamente per motorizzare i meno abbienti e divenuto mini super car per fighetti dalle facoltà mentali ridotte ma dai capienti portafogli.
E in entrambi in casi, un prezzo di partenza per lo più elevato, taglia fuori la fascia bassa di utenza, quella sulla quale la Fiat ha fatto la propria gloria nei “bei” tempi andati. Si noti che questi due modelli sono stati anche particolarmente “ingannevoli” per le sorti dell’azienda: dopo un iniziale successo - dovuto peraltro ad un battage pubblicitario assordante - sono finiti nel dimenticatoio (e nei reparti “usato” dei concessionari) molto presto, per la serie di motivi appena elencati.
Il problema dell’innovazione non si lega esclusivamente ai modelli: ricerca e sviluppo di nuove tecnologie rimangono spesso a livello embrionale. L’Opel già installava motori Euro 4 nel 2003, oggi in Francia si corre verso l’auto elettrica, ma dalle nostre parti si rimane al palo: non che la cosa ci stupisca, visto che qui si ritiene ancora che il nucleare sia una fonte energetica moderna e pulita. Già, la concorrenza francese in particolare. Marchionne ha sostenuto che la Fiat ha fatto l’errore di specializzarsi nella produzione di auto piccole a basso valore aggiunto, che concedono profitti minori, a differenza ad esempio della Germania, che produce principalmente auto di lusso.
Ma proprio nel settore utilitarie low cost i francofoni ci stracciano. E come mai? Perché noi produciamo low cost costose: abbiamo perso la nostra fascia ideale e per di più la qualità dei componenti si attesta su livelli nettamente inferiori. Concentrare risorse nella progettazione invece che nelle follie di marketing, tra campagne pubblicitarie milionarie e linee d’abbigliamento indesiderate sarebbe un passo importante da fare.
Detto questo, non rimane che fare alcune considerazioni. Il problema è strettamente produttivo, ma si cerca di buttarla sul piano politico, a metà tra le responsabilità del “governo ladro” e soprattutto dei lavoratori, i veri bersagli dell’attuale gestione, vittime del nuovo maccartismo italiano: la coscienza di classe e la fame di diritti viene bollata come mentalità sovversiva e va appianata per il raggiungimento del profitto. Non vengono viste strade alternative. Come nota Landini, Marchionne riesce solo a parlare di “sfascio”, senza spendere una parola su investimenti, rinnovo del piano industriale o qualsivoglia strategia. Perché non c’è nulla di tutto questo. C’è solo la ferma intenzione a comandare un’impresa col pugno di ferro verso l’obiettivo del profitto familiare, senza curarsi di chi costituisce davvero l’ossatura dell’azienda. Come quando la rivoluzione industriale era appena iniziata.
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di Giovanni Gnazzi
A centinaia di migliaia scendono in piazza e, di rimando, qualcuno sale in cattedra. Se una straordinaria manifestazione di popolo (talmente pacifica da trasformare in figuraccia i desideri di Maroni) pone l’accento sull’organizzazione del lavoro, sull’equità fiscale e sulla ricetta giusta per uscire dalla crisi, alcuni personaggi sentono il bisogno di rimarcare la loro assenza con un sussulto di presenze davanti alle telecamere.
Succede spesso, purtroppo; in questo sgangherato paese i Tg vengono confezionati così: un minuto ai settecentomila in piazza, due minuti ai censori e tre a quelli che in piazza non ci sono andati. In un ribaltamento penoso delle notizie, la priorità non viene assegnata all’iniziativa, ma a quelli che si pronunciano in opposizione alla stessa.
Ovviamente, quando si tratta dell’azione di governo, le priorità si ribaltano: al governo va il 75% dello spazio, a chi denuncia le sue malefatte va il 25%. La teoria del "panino" dei Tg subisce quindi una metamorfosi a seconda delle occasioni. Gira che ti rigira, cambia la farcitura del panino, ma il risultato è che il governo ha spazio, l’opposizione molto meno. Fin qui, si dirà, niente di nuovo, ce lo si aspettava e non c’era certo bisogno di Minzolini per assistere a tutto questo. Ma la proiezione televisiva della manifestazione indetta dalla Fiom ha superato le attese.
Intanto, giornalisticamente parlando, aveva quattro caratteristiche che la rendevano importante. La prima è rappresentata dalla scelta del maggiore sindacato italiano dei metalmeccanici di scendere in piazza a difesa del Contratto collettivo Nazionale, ribaltando la teoria fondamentale di Marchionne e dei suoi seguaci, per la quale si deve scegliere: prima il lavoro poi i diritti. Come se il lavoro non fosse un diritto, il primo, fondamentale diritto cui devono seguire tutti gli altri previsti dalla Carta, dallo Statuto dei lavoratori e dalla giurisprudenza giuslavorista.
La seconda è che la manifestazione è presto diventata una marcia dell’opposizione contro il governo; non stupisca l’assenza del PD, semmai la cosa conferma l’affermazione precedente. La terza, invece, è tutta politica; la manifestazione della Fiom ha messo in luce come il sindacato dei metalmeccanici abbia preso non solo un’iniziativa al di fuori dei partiti dell’opposizione “ufficiale” (e indifferente alle sue lacerazioni interne) ma che abbia lanciato un segnale forte a tutto il movimento sindacale e last but no least, anche al prossimo congresso della Cgil.
La quarta, per i palati sociologicamente più fini, è che la manifestazione ha rimesso al centro della vicenda politica l’esistenza delle tute blu; sì, gli operai, quelli di cui con dotte analisi sulla composizione del mercato del lavoro si nega ormai non solo la centralità, ma l’esistenza stessa.
E invece, dopo trenta secondi d’immagini della folla oceanica che riempie Piazza San Giovanni, ci tocca vedere e sentire Sacconi e Bonanni dire rispettivamente che si è trattato di una manifestazione con parole d’ordine del secolo scorso, insomma anacronistica (Sacconi) e che l’unità sindacale su queste posizioni è una chimera (Bonanni). per carità, dichiarazioni scontate, si potrebbe osservare: però quello che risulta insopportabile è che l'informazione non ha ritenuto - salvo rarissime eccezioni - di approfondire questo spaccato del Paese, la sua nuova identità, il suo essersi messo di traverso rispetto all'aria montante della fine del lavoro.
E’ bene allora far presente a Sacconi e ai suoi suggeritori che a essere ascrivibili al secolo scorso sono le sue proposte di restaurazione del mondo del lavoro. Il Ministro berlusconiano, nell’odio ossessivo per le organizzazioni sindacali degli operai, propone ricette che da 30 anni almeno sono state superate in tutta Europa. Sacconi è un pessimo esempio di come la politica possa diventare ossessione patologica. Quanto a Bonanni, meglio avrebbe fatto a tacere.
Sarebbe bene, infatti, che il segretario della Cisl tenesse presente come l’unità sindacale - bene preziosissimo - sia stata distrutta dalla scelta (sua e di Angeletti) di firmare accordi separati dalla Cgil e di sedersi a tavoli di confronto con il governo senza la presenza del maggior sindacato italiano. Risultato, questo, dalla progressiva politicizzazione della Cisl e della Uil in chiave di sostegno al centrodestra italiano, che da sedici anni in qua, con scarse soluzioni di continuità, ha fatto ogni cosa in suo potere per ridurre le relazioni industriali ad un confronto tra le pistole e le tempie.
Bonanni, del resto, contento non poteva essere: la manifestazione di Roma ha reso ancor più evidente la differenza tra l’essere popolare ai tavoli del governo e l’essere decisivo nelle fabbriche e nelle piazze. Lui ed Angeletti potranno andare anche mille volte da Vespa o a Ballarò, ma nelle fabbriche la situazione è ben diversa. E' la Fiom che rappresenta oggi il coagulo del mondo del lavoro, non certo la Cisl o, tantomeno, la Uil.
Non si hanno, invece, notizie di Maroni; silente prima dell’assalto ultrà allo stadio di Genova in occasione della partita tra Italia e Serbia, aveva ritenuto in cambio di lanciare l’allarme sulla manifestazione Fiom. A Genova, ovviamente, era successo di tutto; a Roma, invece, niente. A dirla tutta, la minaccia di possibili incidenti era sembrata da subito come un auspicio più che un timore: l'organizzazione del servizio d'ordine della Fiom e, prima ancora, l'assoluta assenza di pulsioni suicide da parte di chiunque, hanno reso le "avvertenze" del Ministro dell'Interno parole senza tempo e senza senso. Se Maroni suonasse il sax a tempo pieno, invece d’intestardirsi con la politica, avremmo più musica e meno provocazioni. L’Italia intera se ne gioverebbe.
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di Carlo Musilli
Quattro italiani muoiono in Afganistan. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa è a Milano. Dopo le dichiarazioni di cordoglio, gli insulti: chiedere il ritiro delle truppe sarebbe “sciacallaggio”. Ma una giornata del genere non si può lasciar passare così. La Russa convoca una conferenza stampa e sale su un aereo per Roma. Si fa riprendere in ministero, circondato da generali. “Non bisogna lasciar nulla d’intentato per proteggere i nostri ragazzi”. Cioè servono nuove armi. Parla di mezzi corazzati come i “fenice” e i “lince”, disturbatori elettronici, rinforzi aerei. Poi la butta lì: “Chiederò alle commissioni parlamentari di valutare la possibilità di armare i nostri caccia di bombe”.
In realtà potrebbe decidere in autonomia, ma è meglio che la responsabilità se la prenda tutto il Parlamento. La Russa continua a parlare di ‘missione di pace’ perfino mentre propone di adottare la misura più pericolosa per la popolazione, il bombardamento aereo. Può darsi che il massacro quotidiano di civili in Afghanistan (in aumento rispetto agli anni passati, secondo dati Onu) non faccia più notizia. Forse è semplicemente trascurabile. In ogni caso, è tempo di armare i caccia. Perché? Per “proteggere i nostri ragazzi”?
No. Il pericolo più grave per i soldati è quello delle imboscate e le bombe sparate dal cielo non proteggono da questo genere d’attacco. Sempre che il ministro non immagini di bombardare a tappeto ogni singola strada prima di farla attraversare dai beneamati “lince”. A ben vedere, i nostri caccia Amx sono gli unici privi di bombe di tutta la missione Isaf e questo ci crea un po’ d’imbarazzo davanti alla Nato. Tant’è vero che il segretario generale Anders Fogh Rasmussen si è affrettato a farci presente che “armare i caccia con le bombe non è in contraddizione con la missione Isaf”. Sarebbe a dire, datevi una mossa.
Rimane oscuro come tutto questo si concili con il ritiro delle truppe entro il 2011. Un termine che lo stesso La Russa continua a ripetere, salvo poi specificare che “la guerra vera in Afghanistan è cominciata da poco” e che “nelle ultime fasi del confitto i talebani si sono rafforzati”. Per così dire. In realtà, i talebani non sono mai stati così forti e il meccanismo che li ha rianimati è in moto da qualche anno. In molti, oggi, parlano di neo-talebani.
Quasi scomparsi dopo la caduta del regime nel novembre del 2001, gli studenti coranici si riorganizzano in Pakistan, nelle aree tribali pashtun. Le fila s’ingrossano: non solo si affiancano uomini di Al Qaeda, ma anche islamisti di vario tipo provenienti dall’Asia centrale. Gli stati Uniti fanno pressioni sul Pakistan perché contrasti i gruppi talebani nelle cosiddette Fata (Federal administrated tribal areas), ma ottengono l’effetto opposto a quello sperato. Le popolazioni pakistane della zona finiscono con l’avvicinarsi ai talebani, visti come difensori dell’identità pashtun contro il demone americano. Intanto Islamabad non si lascia piegare e tiene la situazione in bilico, senza opporsi in maniera davvero decisa né ai talebani, né alle incursioni militari Usa.
Se esiste un’uscita d’emergenza per risolvere lo stallo, forse l’ha intuita Hamid Karzai. In un’intervista alla Cnn, il presidente afgano ha confermato quello che il Washington Post aveva anticipato qualche giorno prima. Da diversi mesi sono in corso negoziati segreti fra il governo di Kabul e i delegati autorizzati della Quetta Shura, il gruppo di talebani afgani nascosti in Pakistan e guidati dall’evanescente mullah Omar.“Non si tratta di comunicazioni regolari - ha spiegato Karzai - ma di contatti personali, non ufficiali”. Grazie all’alto consiglio per la pace, il neonato organo di governo destinato ad aprire le trattative con i ribelli, il presidente auspica “che questi negoziati continuino in modo ufficiale e rigoroso”.
Ora, i talebani di Omar hanno sempre detto che avrebbero rifiutato ogni dialogo finché le truppe infedeli avessero occupato il suolo afgano. Perché alla fine hanno deciso di trattare? Secondo fonti del Washington Post, gli uomini di Omar sono alla ricerca di un accordo per evitare di essere scavalcati alla guida del movimento talebano dal clan più radicale degli Haqqani, un gruppo vicino ai servizi segreti pakistani, escluso da ogni negoziato.
La Quetta Shura pretende il ritiro completo delle truppe straniere, dopo di che si accontenterebbe di qualche poltrona per i suoi leader in un successivo governo d’unità nazionale. Probabilmente Karzai sarebbe disponibile a concessioni di questo tipo. Ma sembra impensabile che la Nato e soprattutto gli Stati Uniti possano accettare una soluzione del genere. Non dopo nove anni di guerra.