di Alessandro Iacuelli

A rivelarlo, durante il meeting dei popoli di Comunione e Liberazione a Rimini, è stato il sottosegretario Stefano Saglia: il decreto per la strategia nucleare, previsto per ottobre, conterrà "garanzie per le aziende", cioè indennizzi per chi investe, nel caso in cui, per un cambio di governo o "qualsiasi altro intoppo", il progetto si arresti. "Valuteremo in che modo impedire che i costi non riconducibili a inadempienze delle imprese si scarichino sulle imprese", ha dichiarato il sottosegretario. In pratica, vista la "svolta" dei finiani e visto il rischio di elezioni, il governo Berlusconi deve darsi da fare per evitare che gli industriali impegnati nella corsa al nucleare perdano qualche soldo, che gli indennizzeremo noi, tanto per cambiare.

Non c'è solo questo nell'intervento di Saglia a Rimini, ma anche qualcosa di concreto circa l'immediato futuro del programma nucleare: "A gennaio 2011, quando arriveranno le prime domande per la costruzione delle centrali nucleari, si conosceranno anche i siti, almeno i primi due, dove saranno realizzate". Ci sarà da aspettarsi una grossa fase di scontro tra gli enti locali, regioni e comuni, che magari sono anche d'accordo con la realizzazione di centrali nucleari, purché "non sul nostro territorio", e a poco serve la rassicurazione di Saglia: "il percorso con i territori deve essere di condivisione e non di impostazione militaresca".

Serve a poco perché l'imposizione delle infrastrutture ai territori è già stata praticata dalle forze politiche che fanno parte del governo attualmente in carica e la maggiore sperimentazione fu a proposito della TAV in Val di Susa, usata come vero e proprio laboratorio di sgombero dei blocchi della popolazione. Analogamente, è in corso in questo momento un altro laboratorio di sperimentazione: quello del controllo e della militarizzazione del territorio circostante gli impianti.

Il laboratorio in questione è la Campania, dove tutti gli impianti dedicati allo smaltimento dei rifiuti urbani, dai siti di stoccaggio fino all'inceneritore di Acerra, sono guardati a vista da militari, con frequenti controlli perimetrali e con il fermo immediato di chiunque si avvicini. Una sperimentazione perfetta, un'occasione di "allenamento" eccezionale per quando poi tutto questo sarà trasferito alla filiera nucleare italiana.

Abbastanza scontato il plauso del sistema industriale italiano, soprattutto quando il Governo giura che potrà avvalersi dei poteri sostitutivi. Per l'amministratore delegato di Enel, Fulvio Conti, non si può continuare a pensare che "uno sviluppo ordinato e sostenibile sia possibile senza ricorrere a tecnologie che in maniera infondata vengono considerate in maniera invasive, non corrette, nocive". E "nell'interesse generale del Paese" è necessario che il progetto venga sostenuto "da un governo centralmente molto forte" che tracci linee guida solide a lungo termine. "Immaginate cosa accadrebbe se un cambio di governo fermasse il progetto dopo che e' stato avviato?", si chiede Conti, e aggiunge a margine anche altre informazioni, magari con un occhio alle quotazioni in borsa dei titoli dell'azienda che guida.

Infatti Conti ha anche parlato del previsto collocamento sul mercato di una quota della società del gruppo per le energie rinnovabili, Enel Green Power, destinata alla quotazione in Borsa e ad un eventuale "private placement". "Andiamo avanti con l'obiettivo di chiudere la cosa entro ottobre - ha dichiarato - vogliamo raccogliere almeno 3 miliardi, questo è l'obiettivo, non abbiamo mai detto quale è la percentuale da cedere".

Anche per il presidente del consiglio di gestione di A2A, Giuliano Zuccoli, "non é più tempo per guerre ideologiche": il Paese non può rinunciare anche al nucleare in un mix di fonti. "Bisogna spiegare ai cittadini le cose come stanno, così potranno farsi una loro idea consapevole". E la scelta dei siti, aggiunge Zuccoli, sarà "il momento nodale, il punto critico, un passaggio importante: lo deve fare il Governo, non le amministrazioni locali".

Secondo Greenpeace Italia, le dichiarazioni fatte a Rimini dal sottosegretario Saglia "smascherano definitivamente i trucchi del Governo sul nucleare. Significa che il governo Berlusconi non solo ha intenzione di decidere la costruzione di nuove centrali nonostante il parere contrario delle Regioni e della popolazione, ma vuole anche blindare questa scelta per il futuro, pur di regalare soldi ai suoi amici.

Insomma, il nucleare, comunque vada, lo pagheranno in bolletta gli italiani. Queste bollette, salate a causa della follia nuclearista del governo, Greenpeace le ha già preparate e distribuite ai cittadini italiani. E che i costi saranno stellari è sicuro, perché il reattore francese Epr, decantato come la terza generazione del nucleare, è in realtà un prototipo del quale non è chiaro nemmeno il progetto: addirittura, i ritardi nei due cantieri esistenti (nessun Epr è mai entrato in funzione a oggi) hanno affossato i bilanci di Areva (l'impresa produttrice) e costretto Edf (l'Enel francese) a chiedere un aumento delle bollette. Puntualmente ottenuto.

Senza farci false illusioni, le parole di Saglia sono abbastanza preoccupanti; sembra di sentire le parole di un governo di un Paese del Terzo Mondo che, per attirare imprese straniere a costruire centrali nucleari, assicura che i danni e i risarcimenti di eventuali gravi incidenti di percorso se li accollerà tutti lo Stato. Un incentivo assolutamente interessante per gli investimenti - e, purtroppo, le speculazioni - nella sicurezza delle centrali. Svanisce ogni concetto di responsabilità e di rischio di impresa.

Anche a tale proposito, Greenpeace sottolinea che "il nucleare si conferma come una pericolosa perdita di tempo, costosa e rischiosa. Un trucco per regalare soldi all'ennesima lobby, sottrarre investimenti a una rivoluzione energetica in cui l'Italia può essere protagonista (con un salto tecnologico ed occupazionale di prim'ordine) e rendere il nostro Paese sempre più dipendente dall'estero per le fonti energetiche: i brevetti sul nucleare sono tutti francesi, mentre l'uranio delle miniere di Areva ammazza la gente in Niger".

Ma forse è troppo tardi, perché il Governo è partito lancia in resta ed ora non lo ferma più nessuno, a parte una tornata elettorale che improbabilmente lo rovesci. Secondo quanto dichiarato dal Sottosegretario allo Sviluppo, Stefano Saglia, entro Gennaio 2011 sapremo dove verranno costruite le prime due centrali nucleari italiane, ma è lampante che una tale decisione non può essere presa nei pochi mesi che ci separano dal nuovo anno. Pertanto, per forza di cose, quei due siti sono già stati scelti, ma per ora nessun rappresentante di Governo ha il coraggio di rivelarne i nomi per non far alzare i cori di proteste, proprio ora che c'è il rischio di tornare alle urne. Sarebbero di certo un gran numero di voti persi, nel caso in cui si andasse alle elezioni prima della fine dell'anno.

Ma l'Italia è anche il Paese delle indiscrezioni e delle voci di corridoio: così sono in molti ad essere pronti a giurare che quei due siti sono due di quelli dove dove erano presenti le vecchie centrali ormai dismesse; ma Saglia ha annunciato che le bocche rimarranno cucite fino al nuovo anno. Ad ottobre, poi, il Consiglio dei Ministri redigerà un "decreto per la strategia nucleare", le cui anticipazioni fanno già venire i brividi.

Infatti, quei "poteri sostitutivi" accennati dal sottosegretario e applauditi dall'industria, altro non sono che quelli militari, mandando l’esercito a presidiare i siti per scoraggiare le proteste dei cittadini che non vogliono il nucleare sul loro territorio. Ma, se fosse vero, come Berlusconi continua a dire da mesi, che gli italiani vogliono il ritorno al nucleare, non avrebbe senso ricorrere all’esercito, alieno in un Paese normale e civile.

Riassumendo: il Governo ha tutta l'intenzione di accelerare i tempi del ritorno al nucleare, magari prima di cadere rovinosamente per qualche sgambetto parlamentare. Come già firmato e protocollato per progetti come il Ponte sullo Stretto, anche in questo caso se non se fa più niente gli investitori saranno indennizzati con soldi pubblici, che verosimilmente faranno impennare le bollette elettriche degli italiani.

Eppure, se si guarda agli ultimi sondaggi che attestano ad oltre il 60% la percentuale di popolazione contraria al ritorno al nucleare, qualcuno dovrebbe pur spiegare a questi signori che, nonostante la disinformazione e la campagna mediatica (che è appena al principio), gli italiani non vogliono il nucleare. Ma queste saranno le tematiche del prossimo autunno.

di Rosa Ana De Santis

Come ogni anno Rimini apre l’agenda politica della Chiesa e lo fa chiamando a raccolta le autorità e il governo. La lezione di questi giorni, apostrofata con idillio lirico dal ministro Sacconi che ha scomodato addirittura la mistica del dono, è quella che ricorda alla politica che la cultura cristiana è intrinsecamente legata al valore dell’accoglienza. Non esiste un concetto coerente e pieno di Europa senza quest’anima culturale e morale. In un paese come l’Italia, dove sono tristemente attuali le battaglie per il crocifisso e in cui le leggi sono modellate sulla morale religiosa cattolica, questo genere di lezione dovrebbe arrivare facilmente al legislatore.

Almeno così ci si aspetterebbe. Dovrebbe arrivare, altrettanto rapidamente, ai nostri vicini francesi, al presidente Sarkozy e alla sua benedizione per la cacciata dei rom. E ancora al nostro Ministro dell’Interno, che non pago della cacciata indiscriminata di donne e bambini in Francia, chiede all’Europa di poter cacciare tutti (perché non sembri una persecuzione ai danni dei soli rom), anche i cittadini comunitari.

Il suo livore va per il risalto mediatico che ha avuto la vicenda francese, scopiazzata dalla politica dei rimpatri del nostro governo e non, piuttosto, perché una cacciata dai confini è un rimedio preistorico che equivale a seppellire ogni sfida politica per il futuro. Peccato, arriva a dire il Ministro, non poter cacciare i rom di cittadinanza italiana che non lavorano. Perché forse dovremmo cacciare tutti i nostri disoccupati del sud. Non si rende conto, Maroni, che questo significa mettere in discussione il concetto preliminare e fondante della cittadinanza europea e di nullificarne ogni valore e ogni identità. Non se ne rende conto o non se ne cura ottemperando al preferito manifesto sull’Europa dei popoli e delle etnie tanto caro ai suoi amici del Carroccio.

L’isolamento che l’Italia, guidata da un ministro leghista, sta conquistando in Europa, in atteggiamento di aperta sfida con Bruxelles, non è affatto rassicurante e il monito che è arrivato direttamente da papa Ratzinger, in occasione dell’Angelus, sembra rimanere inascoltato. Va bene la voce del Papa per le staminali e per gli embrioni, per l’aborto e il matrimonio gay e per tutto quello che serve a preservare una cultura patriarcale e di controllo sociale; non va più bene - a quanto sembra -  quando in ballo c’è la difesa della nazionalità nemmeno come valore culturale, ma più banalmente come criterio di dominio e sfruttamento internazionale.

E’ evidente quanto sia stato sempre strumentale il richiamo del governo all’autorità della Chiesa, dalla vicenda Englaro al crocifisso nelle scuole, all’ora di religione, così come è evidente quanto la chiesa non abbia smesso un giorno di fare politica e di esercitare un ruolo di ispirazione morale della legge pubblica come risarcimento de facto per il perduto e rimpianto potere temporale. Del resto questo era stato il messaggio di Rimini nel 2009 e da allora la cronaca italiana ci ha documentato, passo dopo passo, quanto questo sposalizio con la politica sia riuscito.

Accogliere - facile fare previsioni - significa anche accogliere la vita umana in tutte le sue fasi e manifestazioni. Così come meno Stato e più società, come suggerito da Sacconi, può significare soltanto mettere a rischio la laicità e l’universalità della legge in un sistema come quello italiano, in cui la morale laica e quella religiosa tendono ancora ad essere un unicum. Forse solo la rivendicazione di uno Stato forte può preservarci: grottesca soluzione all’italiana.

Se l’accoglienza fosse quella indicata dalla Chiesa del duemila, diventeremmo probabilmente una grande comunità cristiana, illiberale e totalitaria ma buona nella sostanza morale; se diventiamo, come stiamo diventando, un Paese in cui si può cacciare un bambino in carne ed ossa e non un embrione, diventiamo soltanto un’appendice del Vaticano. Un binomio bizzarro fatto di cattolicità senza cristianità, un paese falsamente democratico, fondato su un sistema di profonda ingiustizia e di conclamata immoralità politica.

Quello che Rimini non ha detto è che la cristianità può far franare irrimediabilmente la costruzione della cattolicità tanto cara al nostro governo e al potere della Santa Sede. E’ questa doppia identità che può renderci cristiani ed europei, senza alcun bisogno di essere cattolici. Chissà se CL ci ha pensato. L’appuntamento è per il concilio vaticano terzo. 

 

di Mariavittoria Orsolato

Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli: tre nomi comuni per altrettanti uomini comuni. Uomini, operai che non chiedono il posto in paradiso come preconizzava fiducioso il film di Petri ma, come il primo protagonista della pellicola Lulù Massa, ambiscono solo a macinare più pezzi possibile nella mastodontica catena della Fiat di Melfi. Erano stati sospesi l'8 luglio, poi licenziati il 13 e il 14 dello stesso mese perché, durante un corteo interno alla fabbrica, avevano bloccato un carrello che in quel momento andava a rifornire di materiale gli operai regolarmente al lavoro.

Barozzino e Lamorte sono due sindacalisti Fiom, Pignatelli un semplice iscritto. Ai licenziamenti seguono scioperi, proteste e una manifestazione della Fiom: i tre occupano per alcuni giorni il tetto della Porta Venosina, il più importante monumento nel centro storico di Melfi. Un clamore che, una volta tanto, è servito a smuovere le acque e a portare ad una sentenza con cui il giudice del lavoro di Potenza sanciva il reintegro a pieno titolo nello stabilimento Fiat per tutti e tre gli operai.

Com’è ovvio e lecito la Fabbrica Italiana Automobili Torino ha impugnato immediatamente il pronunciamento del giudice, nella (vana) speranza di veder accolta un’istanza che anche al più sprovveduto dei giuristi risulterebbe, a prima occhiata, antisindacale. Con questo spirito, lo scorso sabato i dirigenti del Lingotto hanno fatto recapitare ai tre operai un cortese e conciso telegramma nel quale si pregavano i lavoratori di esimersi dal presentarsi dinanzi ai cancelli il lunedì successivo, giorno in cui lo stabilimento avrebbe riaperto dopo le canoniche ferie estive.

Da Torino assicuravano che la sentenza sarebbe stata rispettata negli oneri economici fino al 6 ottobre - data in cui è fissata la discussione sul ricorso Fiat - ma che nel frattempo l’azienda avrebbe fatto volentieri a meno dei servigi della sua manodopera; ma i tre “parassiti” (così un certo giornalettismo ha cortesemente ribattezzato gli operai in lotta sindacale) si sono fatti trovare puntuali ai cancelli di Melfi per il turno delle 14, accompagnati dai loro avvocati e da un ufficiale giudiziario, che aveva il compito di notificare il provvedimento di reintegro del giudice del lavoro.

Poco dopo aver passato i tornelli, però, una guardia della vigilanza ha bloccato l’ingresso alla catena e ha dirottato Barozzino, Lamorte e Pignatelli nel suo prefabbricato. Meno di mezz’ora più tardi arriva la circolare aziendale: all’interno si può leggere come la Fiat abbia deciso di concedere agli operai le sole mansioni sindacali e pertanto avrebbe messo pertanto a disposizione degli operai una saletta dove passare i prossimi 43 giorni lavorativi.

Subito la Fiom ha presentato una denuncia penale, ricusando la casa automobilistica per inottemperanza della sentenza, ma in una nota la Fiat si giustifica chiosando che “la decisione di non avvalersi della sola prestazione di attività lavorativa dei tre interessati, costituisce prassi consolidata nelle cause di lavoro e ha l'obiettivo di evitare ulteriori occasioni di lite tra le parti in causa e trova, nel caso specifico - si legge ancora nella nota - ampia e giustificata motivazione nei comportamenti contestati che, in attesa del completarsi degli accertamenti processuali, si riflettono negativamente sul rapporto fiduciario fra azienda e lavoratori”.

Insomma vivere da separati in casa non piace a nessuno, se poi si tratta di sindacalisti o simpatizzanti tali, meglio isolarli prima che facciano altri danni. La devono aver pensata così Marchionne e il suo maglioncino di cachemire, alteri e sprezzanti di fronte a quella che - se ne facciano una ragione in Confindustria - è, e rimane, una legge dello Stato garantita e blindata dalla Costituzione. Quello stesso articolo 18 che per “reintegro” non intende la sola riammissione fisica sul posto di lavoro, ma prevede che al licenziato per ingiusta causa vengano restituite le stesse identiche mansioni che copriva prima dell’allontanamento.

Con la pretesa di aggirare furbescamente l’ostacolo legale, la grande azienda di Torino si spinge per la prima volta oltre il limite consentito dall’ordinamento e dal buon gusto, ma dovrebbe sapere che l’inottemperanza verso una sentenza di Tribunale, non è consentita a nessuno. Marchionne, probabilmente, ritiene di essere al di sopra della legge, tranne quando essa favorisce le sue operazioni d’ingegneria debitoria sulle spalle dei contribuenti.

Dimentica forse che la Fiat è un’araba fenice che risorge imperitura dalle sue ceneri solo grazie agli ingenti aiuti statali cui noi cittadini tutti contribuiamo lautamente. Sarebbe bene, quindi, che la politica ricordasse al sovrano del Lingotto che nessuno può sottrarsi - meno che mai un’azienda che sopravvive solo grazie all’aiuto pubblico - dal rispetto delle norme che costituiscono l’alberatura delle relazioni industriali. Ma - ahinoi - la politica ha tutt’altro a cui pensare in questa calda estate.

 

di Rosa Ana De Santis

La conoscenza della grammatica italiana, grazie al decreto Maroni, diventerà uno dei punti principali nella famosa patente d’integrazione, balzello burocratico necessario per rimanere in Italia. Agli stranieri che vogliono stare nel nostro Paese per più di cinque anni, secondo quanto stabilito dal decreto del Ministero dell’Interno del 4 giugno 2010, verrà richiesto di sottoporsi ad un test d’italiano.

L’opportunità di rendere la lingua come criterio dirimente per essere integrati o esclusi è folle già nella sostanza, ma ancora più imbarazzante - e fuori dai canoni europei - è il metodo attraverso cui il decreto Maroni dovrebbe attuarsi. Mentre nel resto d’Europa, infatti, sono previsti corsi di lingua messi a disposizione dallo Stato, in Italia quest’opportunità è del tutto assente.

Diventa difficile capire come un lavoratore straniero, magari con famiglia, potrebbe permettersi di pagare un corso privato per sostenere un esame che è invece lo Stato a rendere obbligatorio. Un’incoerenza e una lacuna istituzionale davvero ingiustificabile o, forse, soltanto una trappola ben congegnata. E’ il mondo del volontariato, Caritas in testa, che finora ha cercato di sanare questa mancanza e da molto tempo prima che lo Stato italiano partorisse questo decreto. Insegnare l’italiano agli stranieri significava, infatti, aiutarli ad inserirsi meglio, a potersi difendere, ad esprimere bisogni e diritti e ad avere maggiori opportunità nell’occupazione professionale. Un modo di insegnare la nostra lingua che non sembra essere lo stesso che lo Stato impone attraverso la legge.

Delle 340 mila persone candidate al test di lingua obbligatorio, solo una minima parte riceverà offerta formativa gratuita. E tutti gli altri? I sicuri non idonei, quelli che avranno il bollino rosso all’integrazione, non saranno piuttosto il segno di un’impreparazione istituzionale a gestire questa necessità di integrazione? In Francia, ad esempio, lo Stato si fa carico di corsi da 600 o 800 ore per l’insegnamento della lingua. Ma la cronaca italiana, più probabilmente, tenderà a raccontare di stranieri incapaci di inserirsi e rispettare la nostra cultura. Sembra già di leggere i titoli padani.

A questa mancanza istituzionale si associa poi una seconda questione, che attiene al metodo prescelto per la somministrazione dei test. Il livello richiesto ai candidati, secondo i parametri stabiliti dal Ministero dell’Istruzione, è quello A2. Ovvero, si richiede la capacità di comunicare e scrivere in modo corretto dialoghi frequenti e di senso immediato che attengano alla propria identità, famiglia, occupazione.

Molti stranieri però, che parlano e comprendono bene l’italiano, spesso anche in costruzioni sintattiche elaborate, non sanno scriverlo. Per di più molti sono gli immigrati analfabeti. Un po’ come i nonni italiani che partirono per le Americhe e costruirono un americano contaminato di accenti ed espressioni dialettali. Il livello richiesto sembra essere quindi sovradimensionato per il reale bisogno della vita relazionale degli stranieri e la loro integrazione. Sembra difficile, in ultimo, non considerare il livello di stress imposto all’immigrato candidato al test, dal momento che l’esame si svolgerà nelle questure. Una scena quasi grottesca.

Se è vero che la lingua è un canale importante di integrazione, la formula italiana è la più carente e la peggiore versione con cui questo processo potesse essere incoraggiato dallo Stato. La questione della lingua non è mai soltanto un tema di ordine culturale e letterario. Proprio la storia d’Italia ce l’insegna in modo paradigmatico. Nel caso del nostro Paese infatti, l’operazione che ha condotto al battesimo di una lingua comune, superiore ai volgari regionali, avvenne attraverso la famosa sciacquatura dei panni in Arno con cui il Manzoni volle modellare l’italiano su quello parlato dai fiorentini. Fu un’operazione autenticamente politica, iniziata ancora prima con Dante Alighieri e la riabilitazione del volgare rispetto al latino. In un mosaico di principati e di dialetti lontanissimi, costruire l’italiano significò costruire un paese.

Ora la questione della lingua ritorna ancora una volta come questione etica e politica. A svelare come questo paese racconta e presenta la propria identità nazionale agli stranieri che vivono dentro i nostri confini; a come sa (o, meglio ancora, non sa) collocarsi in un panorama nazionale caratterizzato dal multiculturalismo.

Mutuando la celebre frase del liberale D’Azeglio, potremmo dire che ora che l’italiano è fatto, è proprio il caso di fare gli italiani. E capire se la lingua nata per renderci uguali non stia diventando un orrendo strumento di discriminazione, snaturando se stessa e le sue nobili origini.

di Mariavittoria Orsolato

Ci sono voluti due anni ma alla fine l’ormai famigerata riforma Gelmini è arrivata a toccare anche gli atenei. Un percorso lento, incidentato dalla rumorosa protesta degli studenti e dei precari dell’istruzione, ma che grazie alla pazienza della sua firmataria ed alla fortissima pressione di Confindustria, ha finalmente raggiunto l’approdo della promulgazione. Lo scorso giovedì, infatti, un Senato in balia della querelle interna al Pdl ha approvato il testo scritto a quattro mani con il ministro Brunetta con 152 voti favorevoli, 94 contrari e un astenuto. Fondamentali all’approvazione sono stati i si portati in dote dall’API (Alleanza Per l’Italia), la nuova formazione centrista capitanata da quello stesso Francesco Rutelli che negli anni ‘70 battagliava per la libertà dei saperi e per l’emancipazione della cultura dal dio denaro: ça va sans dire.

Se da una parte quindi si plaude alla tenacia e alla lungimiranza della ministra, dall’altra si lista a lutto l’autonomia che, nel bene e nel male, ha sempre caratterizzato l’istruzione superiore italiana: in nome del risparmio, infatti, le risorse verranno pesantemente tagliate e i consigli di amministrazione degli atenei verranno implementati dalla presenza di rappresentanti del “capitale”. Questi ultimi promettono di investire nella ricerca, sollevando così lo Stato dal peso dei contributi; ma sono in molti a leggere queste nuove dinamiche nell’ottica di un impoverimento dei saperi e delle competenze che verranno fisiologicamente inficiate dalle esigenze economiche delle aziende.

Per la ministra è tutto oro che cola: “L'università sarà più meritocratica, trasparente, competitiva e internazionale. Il ddl segna la fine delle vecchie logiche corporative: sarà premiato solo chi se lo merita. L'approvazione di questo provvedimento costituisce la base per il rilancio del sistema universitario italiano, finalmente si potrà competere con le grandi realta' internazionali”.

Ma andiamo a  vedere quali saranno questi cambiamenti “epocali”. In primis, dicevamo, l’autonomia: con la riforma, l’assunto tutelato dall’articolo 33 della Costituzione - “Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”- verrà appunto accantonato. La nuova legge di Stato prevede, infatti, un’intromissione ben poco felpata nell’organizzazione e nell’ordinamento dei singoli atenei: si ridefiniscono integralmente ruoli e funzioni degli organi universitari (rettore, senato accademico, consiglio di amministrazione, ecc.); si fissa il limite del numero di mandati del rettore (due) e la durata massima dell’incarico (otto anni complessivi); sono previste ipotesi di incompatibilità e si ridefinisce integralmente l’articolazione interna delle università, sopprimendo le facoltà e creando macro-dipartimenti che dovranno svolgere sia le attività inerenti alla ricerca che quelle relative alla didattica.

Una rivoluzione in tutti i sensi, che lega a doppio filo le decisioni degli organi accademici ai diktat di un bilancio disastrato e di un altrettanto disastrato tesoriere (non importa chi, i conti italiani saranno sempre e comunque in rosso). E’ infatti la sola logica del risparmio a muovere le scelte dei legislatori: non c’è nulla di razionale nel voler disarticolare le facoltà - già di per sé più che oberate dalla mole di lavoro e dall’ordinaria amministrazione - per agglomerarle in grandi dipartimenti, in onere di provvedere praticamente a tutto.

Se infatti si pensa che la divisione delle strutture è una conditio sine qua non per l’efficienza e l’efficacia delle attività didattiche, ben si comprenderà come dietro alla suddetta volontà di ottimizzazione stia in realtà solo l’imperativo del taglio, della riduzione del personale.

E qui si arriva al secondo punto fondamentale di questa “epocale riforma”, ovvero la celebrazione del precariato più spinto. Scompare la figura del ricercatore a tempo indeterminato: l’articolo 12 del testo prevede infatti la infatti, che per svolgere attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti, le università potranno stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo pieno e determinato. Le nuove leve saranno selezionate mediante procedure pubbliche riservate ai soli possessori del titolo di dottore di ricerca o titolo equivalente, del diploma di specializzazione, ovvero della laurea magistrale o equivalente, unitamente ad un curriculum scientifico professionale adatto allo svolgimento di attività di ricerca, e degli specifici requisiti individuati con decreto del Ministro.

Questi contratti, che altro non sono se non una farsa, avranno durata triennale e potranno essere rinnovati soltanto per una volta. Se alla scadenza del termine complessivo di sei anni i ricercatori non avranno conseguito l’idoneità di professore associato e non verranno chiamati da alcuna università, dovranno tornarsene mesti a casa, facendo mea culpa per la loro “improduttività”.

In tutto ciò una domanda sorge spontanea: che fine ha fatto l’Onda? La stessa Onda che nell’autunno caldo del 2008 minacciò le barricate se la legge 133 avesse trovato riscontro nella pratica legislativa? Non pervenuta. Le ferie di agosto sono ferie anche per i rivoluzionari e i ribelli e, ad ora, le poche reazioni suscitate dalla notizia dell’approvazione della riforma Gelmini sono calendarizzate per settembre.

 

 


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