di Mariavittoria Orsolato

Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli: tre nomi comuni per altrettanti uomini comuni. Uomini, operai che non chiedono il posto in paradiso come preconizzava fiducioso il film di Petri ma, come il primo protagonista della pellicola Lulù Massa, ambiscono solo a macinare più pezzi possibile nella mastodontica catena della Fiat di Melfi. Erano stati sospesi l'8 luglio, poi licenziati il 13 e il 14 dello stesso mese perché, durante un corteo interno alla fabbrica, avevano bloccato un carrello che in quel momento andava a rifornire di materiale gli operai regolarmente al lavoro.

Barozzino e Lamorte sono due sindacalisti Fiom, Pignatelli un semplice iscritto. Ai licenziamenti seguono scioperi, proteste e una manifestazione della Fiom: i tre occupano per alcuni giorni il tetto della Porta Venosina, il più importante monumento nel centro storico di Melfi. Un clamore che, una volta tanto, è servito a smuovere le acque e a portare ad una sentenza con cui il giudice del lavoro di Potenza sanciva il reintegro a pieno titolo nello stabilimento Fiat per tutti e tre gli operai.

Com’è ovvio e lecito la Fabbrica Italiana Automobili Torino ha impugnato immediatamente il pronunciamento del giudice, nella (vana) speranza di veder accolta un’istanza che anche al più sprovveduto dei giuristi risulterebbe, a prima occhiata, antisindacale. Con questo spirito, lo scorso sabato i dirigenti del Lingotto hanno fatto recapitare ai tre operai un cortese e conciso telegramma nel quale si pregavano i lavoratori di esimersi dal presentarsi dinanzi ai cancelli il lunedì successivo, giorno in cui lo stabilimento avrebbe riaperto dopo le canoniche ferie estive.

Da Torino assicuravano che la sentenza sarebbe stata rispettata negli oneri economici fino al 6 ottobre - data in cui è fissata la discussione sul ricorso Fiat - ma che nel frattempo l’azienda avrebbe fatto volentieri a meno dei servigi della sua manodopera; ma i tre “parassiti” (così un certo giornalettismo ha cortesemente ribattezzato gli operai in lotta sindacale) si sono fatti trovare puntuali ai cancelli di Melfi per il turno delle 14, accompagnati dai loro avvocati e da un ufficiale giudiziario, che aveva il compito di notificare il provvedimento di reintegro del giudice del lavoro.

Poco dopo aver passato i tornelli, però, una guardia della vigilanza ha bloccato l’ingresso alla catena e ha dirottato Barozzino, Lamorte e Pignatelli nel suo prefabbricato. Meno di mezz’ora più tardi arriva la circolare aziendale: all’interno si può leggere come la Fiat abbia deciso di concedere agli operai le sole mansioni sindacali e pertanto avrebbe messo pertanto a disposizione degli operai una saletta dove passare i prossimi 43 giorni lavorativi.

Subito la Fiom ha presentato una denuncia penale, ricusando la casa automobilistica per inottemperanza della sentenza, ma in una nota la Fiat si giustifica chiosando che “la decisione di non avvalersi della sola prestazione di attività lavorativa dei tre interessati, costituisce prassi consolidata nelle cause di lavoro e ha l'obiettivo di evitare ulteriori occasioni di lite tra le parti in causa e trova, nel caso specifico - si legge ancora nella nota - ampia e giustificata motivazione nei comportamenti contestati che, in attesa del completarsi degli accertamenti processuali, si riflettono negativamente sul rapporto fiduciario fra azienda e lavoratori”.

Insomma vivere da separati in casa non piace a nessuno, se poi si tratta di sindacalisti o simpatizzanti tali, meglio isolarli prima che facciano altri danni. La devono aver pensata così Marchionne e il suo maglioncino di cachemire, alteri e sprezzanti di fronte a quella che - se ne facciano una ragione in Confindustria - è, e rimane, una legge dello Stato garantita e blindata dalla Costituzione. Quello stesso articolo 18 che per “reintegro” non intende la sola riammissione fisica sul posto di lavoro, ma prevede che al licenziato per ingiusta causa vengano restituite le stesse identiche mansioni che copriva prima dell’allontanamento.

Con la pretesa di aggirare furbescamente l’ostacolo legale, la grande azienda di Torino si spinge per la prima volta oltre il limite consentito dall’ordinamento e dal buon gusto, ma dovrebbe sapere che l’inottemperanza verso una sentenza di Tribunale, non è consentita a nessuno. Marchionne, probabilmente, ritiene di essere al di sopra della legge, tranne quando essa favorisce le sue operazioni d’ingegneria debitoria sulle spalle dei contribuenti.

Dimentica forse che la Fiat è un’araba fenice che risorge imperitura dalle sue ceneri solo grazie agli ingenti aiuti statali cui noi cittadini tutti contribuiamo lautamente. Sarebbe bene, quindi, che la politica ricordasse al sovrano del Lingotto che nessuno può sottrarsi - meno che mai un’azienda che sopravvive solo grazie all’aiuto pubblico - dal rispetto delle norme che costituiscono l’alberatura delle relazioni industriali. Ma - ahinoi - la politica ha tutt’altro a cui pensare in questa calda estate.

 

di Rosa Ana De Santis

La conoscenza della grammatica italiana, grazie al decreto Maroni, diventerà uno dei punti principali nella famosa patente d’integrazione, balzello burocratico necessario per rimanere in Italia. Agli stranieri che vogliono stare nel nostro Paese per più di cinque anni, secondo quanto stabilito dal decreto del Ministero dell’Interno del 4 giugno 2010, verrà richiesto di sottoporsi ad un test d’italiano.

L’opportunità di rendere la lingua come criterio dirimente per essere integrati o esclusi è folle già nella sostanza, ma ancora più imbarazzante - e fuori dai canoni europei - è il metodo attraverso cui il decreto Maroni dovrebbe attuarsi. Mentre nel resto d’Europa, infatti, sono previsti corsi di lingua messi a disposizione dallo Stato, in Italia quest’opportunità è del tutto assente.

Diventa difficile capire come un lavoratore straniero, magari con famiglia, potrebbe permettersi di pagare un corso privato per sostenere un esame che è invece lo Stato a rendere obbligatorio. Un’incoerenza e una lacuna istituzionale davvero ingiustificabile o, forse, soltanto una trappola ben congegnata. E’ il mondo del volontariato, Caritas in testa, che finora ha cercato di sanare questa mancanza e da molto tempo prima che lo Stato italiano partorisse questo decreto. Insegnare l’italiano agli stranieri significava, infatti, aiutarli ad inserirsi meglio, a potersi difendere, ad esprimere bisogni e diritti e ad avere maggiori opportunità nell’occupazione professionale. Un modo di insegnare la nostra lingua che non sembra essere lo stesso che lo Stato impone attraverso la legge.

Delle 340 mila persone candidate al test di lingua obbligatorio, solo una minima parte riceverà offerta formativa gratuita. E tutti gli altri? I sicuri non idonei, quelli che avranno il bollino rosso all’integrazione, non saranno piuttosto il segno di un’impreparazione istituzionale a gestire questa necessità di integrazione? In Francia, ad esempio, lo Stato si fa carico di corsi da 600 o 800 ore per l’insegnamento della lingua. Ma la cronaca italiana, più probabilmente, tenderà a raccontare di stranieri incapaci di inserirsi e rispettare la nostra cultura. Sembra già di leggere i titoli padani.

A questa mancanza istituzionale si associa poi una seconda questione, che attiene al metodo prescelto per la somministrazione dei test. Il livello richiesto ai candidati, secondo i parametri stabiliti dal Ministero dell’Istruzione, è quello A2. Ovvero, si richiede la capacità di comunicare e scrivere in modo corretto dialoghi frequenti e di senso immediato che attengano alla propria identità, famiglia, occupazione.

Molti stranieri però, che parlano e comprendono bene l’italiano, spesso anche in costruzioni sintattiche elaborate, non sanno scriverlo. Per di più molti sono gli immigrati analfabeti. Un po’ come i nonni italiani che partirono per le Americhe e costruirono un americano contaminato di accenti ed espressioni dialettali. Il livello richiesto sembra essere quindi sovradimensionato per il reale bisogno della vita relazionale degli stranieri e la loro integrazione. Sembra difficile, in ultimo, non considerare il livello di stress imposto all’immigrato candidato al test, dal momento che l’esame si svolgerà nelle questure. Una scena quasi grottesca.

Se è vero che la lingua è un canale importante di integrazione, la formula italiana è la più carente e la peggiore versione con cui questo processo potesse essere incoraggiato dallo Stato. La questione della lingua non è mai soltanto un tema di ordine culturale e letterario. Proprio la storia d’Italia ce l’insegna in modo paradigmatico. Nel caso del nostro Paese infatti, l’operazione che ha condotto al battesimo di una lingua comune, superiore ai volgari regionali, avvenne attraverso la famosa sciacquatura dei panni in Arno con cui il Manzoni volle modellare l’italiano su quello parlato dai fiorentini. Fu un’operazione autenticamente politica, iniziata ancora prima con Dante Alighieri e la riabilitazione del volgare rispetto al latino. In un mosaico di principati e di dialetti lontanissimi, costruire l’italiano significò costruire un paese.

Ora la questione della lingua ritorna ancora una volta come questione etica e politica. A svelare come questo paese racconta e presenta la propria identità nazionale agli stranieri che vivono dentro i nostri confini; a come sa (o, meglio ancora, non sa) collocarsi in un panorama nazionale caratterizzato dal multiculturalismo.

Mutuando la celebre frase del liberale D’Azeglio, potremmo dire che ora che l’italiano è fatto, è proprio il caso di fare gli italiani. E capire se la lingua nata per renderci uguali non stia diventando un orrendo strumento di discriminazione, snaturando se stessa e le sue nobili origini.

di Mariavittoria Orsolato

Ci sono voluti due anni ma alla fine l’ormai famigerata riforma Gelmini è arrivata a toccare anche gli atenei. Un percorso lento, incidentato dalla rumorosa protesta degli studenti e dei precari dell’istruzione, ma che grazie alla pazienza della sua firmataria ed alla fortissima pressione di Confindustria, ha finalmente raggiunto l’approdo della promulgazione. Lo scorso giovedì, infatti, un Senato in balia della querelle interna al Pdl ha approvato il testo scritto a quattro mani con il ministro Brunetta con 152 voti favorevoli, 94 contrari e un astenuto. Fondamentali all’approvazione sono stati i si portati in dote dall’API (Alleanza Per l’Italia), la nuova formazione centrista capitanata da quello stesso Francesco Rutelli che negli anni ‘70 battagliava per la libertà dei saperi e per l’emancipazione della cultura dal dio denaro: ça va sans dire.

Se da una parte quindi si plaude alla tenacia e alla lungimiranza della ministra, dall’altra si lista a lutto l’autonomia che, nel bene e nel male, ha sempre caratterizzato l’istruzione superiore italiana: in nome del risparmio, infatti, le risorse verranno pesantemente tagliate e i consigli di amministrazione degli atenei verranno implementati dalla presenza di rappresentanti del “capitale”. Questi ultimi promettono di investire nella ricerca, sollevando così lo Stato dal peso dei contributi; ma sono in molti a leggere queste nuove dinamiche nell’ottica di un impoverimento dei saperi e delle competenze che verranno fisiologicamente inficiate dalle esigenze economiche delle aziende.

Per la ministra è tutto oro che cola: “L'università sarà più meritocratica, trasparente, competitiva e internazionale. Il ddl segna la fine delle vecchie logiche corporative: sarà premiato solo chi se lo merita. L'approvazione di questo provvedimento costituisce la base per il rilancio del sistema universitario italiano, finalmente si potrà competere con le grandi realta' internazionali”.

Ma andiamo a  vedere quali saranno questi cambiamenti “epocali”. In primis, dicevamo, l’autonomia: con la riforma, l’assunto tutelato dall’articolo 33 della Costituzione - “Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”- verrà appunto accantonato. La nuova legge di Stato prevede, infatti, un’intromissione ben poco felpata nell’organizzazione e nell’ordinamento dei singoli atenei: si ridefiniscono integralmente ruoli e funzioni degli organi universitari (rettore, senato accademico, consiglio di amministrazione, ecc.); si fissa il limite del numero di mandati del rettore (due) e la durata massima dell’incarico (otto anni complessivi); sono previste ipotesi di incompatibilità e si ridefinisce integralmente l’articolazione interna delle università, sopprimendo le facoltà e creando macro-dipartimenti che dovranno svolgere sia le attività inerenti alla ricerca che quelle relative alla didattica.

Una rivoluzione in tutti i sensi, che lega a doppio filo le decisioni degli organi accademici ai diktat di un bilancio disastrato e di un altrettanto disastrato tesoriere (non importa chi, i conti italiani saranno sempre e comunque in rosso). E’ infatti la sola logica del risparmio a muovere le scelte dei legislatori: non c’è nulla di razionale nel voler disarticolare le facoltà - già di per sé più che oberate dalla mole di lavoro e dall’ordinaria amministrazione - per agglomerarle in grandi dipartimenti, in onere di provvedere praticamente a tutto.

Se infatti si pensa che la divisione delle strutture è una conditio sine qua non per l’efficienza e l’efficacia delle attività didattiche, ben si comprenderà come dietro alla suddetta volontà di ottimizzazione stia in realtà solo l’imperativo del taglio, della riduzione del personale.

E qui si arriva al secondo punto fondamentale di questa “epocale riforma”, ovvero la celebrazione del precariato più spinto. Scompare la figura del ricercatore a tempo indeterminato: l’articolo 12 del testo prevede infatti la infatti, che per svolgere attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti, le università potranno stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo pieno e determinato. Le nuove leve saranno selezionate mediante procedure pubbliche riservate ai soli possessori del titolo di dottore di ricerca o titolo equivalente, del diploma di specializzazione, ovvero della laurea magistrale o equivalente, unitamente ad un curriculum scientifico professionale adatto allo svolgimento di attività di ricerca, e degli specifici requisiti individuati con decreto del Ministro.

Questi contratti, che altro non sono se non una farsa, avranno durata triennale e potranno essere rinnovati soltanto per una volta. Se alla scadenza del termine complessivo di sei anni i ricercatori non avranno conseguito l’idoneità di professore associato e non verranno chiamati da alcuna università, dovranno tornarsene mesti a casa, facendo mea culpa per la loro “improduttività”.

In tutto ciò una domanda sorge spontanea: che fine ha fatto l’Onda? La stessa Onda che nell’autunno caldo del 2008 minacciò le barricate se la legge 133 avesse trovato riscontro nella pratica legislativa? Non pervenuta. Le ferie di agosto sono ferie anche per i rivoluzionari e i ribelli e, ad ora, le poche reazioni suscitate dalla notizia dell’approvazione della riforma Gelmini sono calendarizzate per settembre.

 

 

di Mariavittoria Orsolato

E’ un Pdl alla resa dei conti quello che sta animando le cronache politiche di questi ultimi giorni. Il divorzio tra l’ala finiana è i fedelissimi del premier non è più un’ipotesi ventilabile, ma una realtà  cui manca solo il suggello definitivo. Il gotha del Popolo delle Libertà, riunito in summit a palazzo Grazioli ha decretato la sua fumata nera sull’offerta di tregua che Fini ha affidato al Foglio: “Resettiamo tutto e fermiamo le tifoserie”, questo il messaggio distensivo del presidente della Camera.

Probabilmente perché il capo non era abbastanza coperto di cenere, nella notte di ieri lo stato maggiore dei berluscones - composto dai tre coordinatori nazionali Bondi, Verdini e La Russa, dai capigruppo alle Camere Gasparri e Cicchitto e dall’immancabile Quagliariello - ha decretato la sospensione per un periodo da tre a sei mesi dei “ribelli” finiani. Non c’è quindi l’espulsione paventata fino a qualche giorno fa e fortemente voluta da Berlusconi, ma solo una “dura censura” che l’articolo 48 dello statuto del Pdl prevede in seno alle risoluzioni dei conflitti interni. Poi si vedrà.

Stando alle indiscrezioni sarebbero ormai venute a mancare le condizioni per rimanere nello stesso schieramento e perciò la “scomunica” è da addebitare esclusivamente al discostamento politico che negli ultimi mesi ha caratterizzato l’atteggiamento dei tre irriducibili Bocchino, Briguglia e Granata. Se però questi ultimi sono da considerasi outsider a tutti gli effetti, sono già 33 i deputati vicini a Fini a voler seguire la sorte (buona o cattiva, de gustibus) dei colleghi di scranno: ad ascoltare le voci provenienti da Montecitorio, c’è già un documento pronto in cui si fa esplicita richiesta per la costituzione di un nuovo gruppo parlamentare.

Ma il desiderio della brigata finiana, nel momento in cui si concretizzasse nello scisma tanto auspicato da entrambe le parti, rischia di creare ben più di un grattacapo a Berlusconi e i suoi. Allo stato attuale la maggioranza di governo è di 341 deputati e 175 senatori a fronte di una maggioranza necessaria, rispettivamente di 316 a Montecitorio e 162 a palazzo Madama. L’ala finiana alla Camera può contare, ad oggi, su 33 deputati: Bocchino, Briguglio, Granata, Raisi, Barbareschi, Proietti, Divella, Buonfiglio, Barbaro, Siliquini, Perina, Angela Napoli, Bellotti, Di Biagio, Lo Presti, Scalia, Conte, Della Vedova, Urso, Tremaglia, Bongiorno, Paglia, Lamorte, Rubens, Menia, Angeli, Ronchi, Moffa, Cosenza, Patarino. A palazzo Madama invece la terza carica dello Stato ha dalla sua almeno una quindicina di senatori.

I numeri per dare vita ad un gruppo autonomo ci sono tutti ed in entrambe le sedi una scissione degli ex An farebbe precipitare i numeri della maggioranza, costringendo il Governo a boccheggiare praticamente su ogni provvedimento da varare. Com’è ovvio il Premier sta già corteggiando nuove comparse provenienti dall’Mpa, dai Liberaldemocratici, dai Repubblicani e dagli autonomisti. Si vocifera che al momento le conquiste del tombeur Silvio siano a quota 5, una cifra comunque insufficiente ad affrontare in sede di votazione la fronda finiana.

Tutto sembra remare contro la longevità istituzionale di Berlusconi e della sua quarta performance governativa: se meno di due settimane fa l’esasperazione e l’insofferenza verso i ribelli  “embedded” aveva spinto a dichiarazioni poco caute e ancor meno lucide sulla possibilità di elezioni anticipate a settembre, il piglio deciso di padron’ Silvio sembra prospettare ora una soluzione diversa. In sedici anni di sopravvivenza giudiziaria il nostro ha dalla sua un cinismo ed un’arguzia che, seppur adombrate dalle modalità illecite con cui vengono praticati, potrebbero portare ad una conclusione ben diversa dalla morte politica che ormai in troppi gli augurano.

In questo momento il Paese si trova in momento di poca lucidità e completo spaesamento di fronte all’inesorabile concatenarsi di scandali politici, economici e sociali - la nuova P2 dei quattro sfigati, tra cui figura anche il coordinatore Verdini, ne è solo l’ultimo e più eclatante esempio - eppure “la massa” appare catatonica, incapace di reagire e far sussultare i cardini di un potere deleterio e apparentemente inesauribile. Se il divorzio da Fini è necessario per Berlusconi, é perché il presidente della Camera, seppur con molto ritardo, si è accorto della deriva che la sua maggioranza sta inevitabilmente imboccando nei confronti del Paese. Come giustamente ha affermato Italo Bocchino in una recente intervista, “la differenza tra Berlusconi e Fini è quel senso di responsabilità che discerne lo statista dal politicante”.

Fini ha dimostrato di aver preso molto sul serio la sua carica e ad ha agito di conseguenza, nel rispetto di quel comandamento istituzionale che impone alle cariche dello Stato l’imparzialità e il senso critico, necessari a mitigare lo scontro politico. Il suo è un richiamo all’etica, alla trasparenza e a lavorare per i problemi del paese, che di certo non sono le intercettazioni telefoniche né tanto meno gli scudi giudiziari per gli “amici di”.

Un contraltare così ingombrante, e per giunta in casa, è ovvio che abbia mandato fuori dai gangheri il premier e le sue velleità da ducetto. La separazione, a questo punto, è un’obbligo; resta da vedere se sarà consensuale o se quella a cui stiamo assistendo si rivelerà a breve un capolavoro di sgambetti come nella migliore “guerra dei Roses”.

 

di Rosa Ana de Santis

Oltre 90 mila documenti top secret sono finiti nelle mani di tutti e la rete dei rapporti e delle operazioni di intelligence sullo sfondo della guerra dell’oppio è sempre più chiara. Wikileak, il sito della clamorosa fuga di notizie, ha sgombrato il campo della retorica politica dalla teoria della guerra necessaria o dalla versione italiana e tutta televisiva della pace armata. La guerra della tv ha svelato i suoi cadaveri nascosti. Le operazioni militari mai raccontate, i dossier scomodi, le liberazioni osteggiate e le stragi taciute. Molti i documenti che riguardano casa nostra.

Obama rilancia con la consueta strategia della paura nazionale, diffonde l’allarme per la minaccia che ora incombe sulla sicurezza degli americani, mentre il Pentagono prepara la maxi inchiesta. Ancora più difficile spiegare questo lato marcio della guerra in Afghanistan in Italia, dove l’occupazione militare è passata alla cronaca ufficiale esclusivamente come operazione di difesa.

L’intolleranza popolare al sacrificio dei nostri caduti non è troppo lontana dalla denuncia della morte ingiusta degli innocenti afghani. Questa guerra è per tutti, qui, un orrore insopportabile, ma necessario. Non c’è ardore nazionale, né patriottismo all’americana ad alimentarne la difesa. E’ questo forse a spiegare il nervosismo che il nostro Ministro della Difesa ha spesso trattenuto a fatica, anche davanti alle telecamere, a chiunque gli ricordasse quanto lunga e penosa fosse la conta dei morti. Da tutte le parti.

La prima bugia è quella dei militari e dei rinforzi inviati. Non andava detto pubblicamente, questa la condizione posta dall’Italia, ma dovevano aumentare. E poi la lista degli incidenti, delle stragi e della propaganda di cui non abbiamo letto da nessuna parte. Il caso più clamoroso, tra i dossier svelati, è quello del rapimento del giornalista Daniele Mastrogiacomo. Una liberazione voluta a tutti i costi dal governo e considerata un pericoloso precedente dal governo estone per lo scambio che l’Italia decise di fare con i prigionieri talebani, utilizzando come mediatore Rahmatullah Hanefi, manager dell’ospedale di Emergency a Lashkar Gah, subito dopo arrestato. Compaiono inoltre numerosi casi documentati di incidenti, finora ignoti, avvenuti nella provincia di Herat durante le operazioni militari di routine delle nostre truppe.

Esce molto rafforzata, invece, l’immagine di Emergency. L’unica ad aver sempre raccontato la guerra in Afghanistan tutta intera, senza censure. Una Ong, come si legge nelle carte, divenuta insopportabile per gli americani. Così Gino Strada, il suo fondatore, il pacifista ingenuo dalla dialettica poetica, diventa l’icona della denuncia della vera guerra. Di quella più cruda e più spietata. Quella che non abbiamo visto, né letto. Processi sommari a qualsiasi talebano, uccisioni di massa, collaborazioni scomode tra servizi segreti pakistani e talebani, distruzione di mine italiane affinché non cadessero in mani talebane. Mine, proprio loro. Dopo anni di messa al bando tornano nella semina della morte e della mutilazione. Quella che i medici di Gino Strada guardano in faccia ogni giorno.

Wikileak assicura che non sono a rischio i paesi coinvolti o le loro truppe. Non sono state svelate posizioni e riferimenti sul territorio. Ma il piatto della guerra giusta è avvelenato. E il danno agli interessi sporchi che vi sono dietro, forse, è ben più grave. Il pericolo è una guerra che non doveva cominciare e che deve rapidamente finire. Una guera che incombe anche su tutti i morti senza divisa che avremo ancora e che ancora saranno seppelliti di notte, al riparo delle nostre coscienze.

Al nostro Ministro della Difesa spetterebbe il compito di accompagnare le sue dimissioni con due parole di spiegazione che tolgano il disturbo dell’imbarazzo televisivo finora dissimulato. Va detto agli italiani che siamo andati in guerra. Un conflitto che non è più pulito di altri, che è marcio negli scopi e che si nutre della solita propaganda di guerra. Che manda a morire i “nostri ragazzi” come li chiama il Ministro negli spot, sapendo benissimo di non mandarli in alcuna missione di pace. Una guerra che non risparmia donne e bambini, che non conosce e riconosce divise e nemici, ma che è lì per conquistare tutto. Dalla terra al cielo. Una razzìa che non ci rende più buoni o meno colpevoli degli altri. Le nostre mine e i nostri fucili uccidono come quelli di tutti. Solo che finora non lo abbiamo raccontato a nessuno. E un fatto non raccontato, semplicemente sembrava non fosse accaduto.


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