di Fabrizio Casari

Lui ci ha messo il folklore, altri i baciamano, altri ancora grida manzoniane. Ma cosa fosse più fuori luogo in questo variopinto menù che ha fatto da sfondo alla visita di Moammar Gheddafi a Roma, è difficile dirlo. Chi invece da questa due giorni romana ha ottenuto quello che voleva, è stato certamente il leader libico. Che qualcuno ora definisce un satrapo, mentre anni addietro lo si definiva un pazzoide. Ma che, dal 1 settembre del 1969, governa ininterrottamente la Libia.

La visita ha definitivamente sancito lo sdoganamento libico nell'arena europea e, affinché il concetto sia ancor più chiaro, le proposte di accordi commerciali e politici avanzate dal Colonnello sono di rilievo tutt’altro che trascurabile. Mettono fine alla politica italiana delle fumose concessioni e di qualche regalìa presentate in passato come risarcimenti per gli orrori dell’epoca coloniale. Risarcimenti che, pure, sarebbero dovuti; é bene leggere quanto ha scritto Del Boca sul genocidio italiano in Libia, se ci si vuole proprio vergognare di qualcosa.

Sul fronte degli affari, la Libia offre mercati, appalti e commesse per la modernizzazione del paese e, come in qualunque contesto, se le relazioni politiche e commerciali sono positive, più semplice sarà aggiudicarsi i lavori. D’altra parte, la stessa Libia partecipa ormai in forma contundente in alcuni grandi asset dell’economia e della finanza italiana, nonostante le proteste padane. Dunque, per quanto la parata di padroncini e AD delle principali aziende italiane possa essere risultata poco bella a vedersi, essa è solo la versione mediatizzata e pubblica di quanto di solito avviene nei palazzi governativi esteri e, prima ancora, nelle rispettive ambasciate, che preparano modalità e contenuti delle missioni commerciali all’estero.

Che alcuni paesi europei abbiano storto la bocca e che gli stessi Stati Uniti non vedano di buon occhio il protagonismo italiano negli affari con Tripoli, non è una novità. Ci sono solo due possibili letture per interpretare il fenomeno: quella ingenua, che ritiene che la disapprovazione sia causata da autentico sdegno ideologico, politico o religioso, oppure quella un po’ più smaliziata e cinica, ma molto più verosimile, che inserisce i riferiti dissensi occidentali nella pura competizione sui mercati.

Giova ricordare, peraltro, che gli Usa che minacciavano l’Italia quando manteneva rapporti con Tripoli sotto embargo Onu, erano il paese che, insieme alla Francia, accumulava contratti commerciali con società libiche attraverso giochetti di scatole cinesi che, come d’incanto, trasformavano società statunitensi in società canadesi o lussemburghesi. E gli stessi spagnoli, con la Repsol in particolare, non si lasciavano sfuggire lauti affari con la Libia mentre le sanzioni contro Tripoli venivano ulteriormente rinforzate anche con il voto di Madrid. Business is business, certo, ma predicare in un modo e razzolare nell’altro non assegna patenti di coerenza a chi lo fa e obbligo di condivisione per chi ascolta.

D’altra parte, ogni qualvolta la politica estera italiana ha assunto un’iniziativa che non sia la mera applicazione del dettato statunitense, si è sempre assistito a polemiche e scontri. Da Mattei ad Andreotti, passando per la gestione del nostro contingente militare in Libano nei primi anni ’80 e al Craxi di Sigonella, da sempre l’Italia viene criticata aspramente appena tenta di intrecciare relazioni politiche, diplomatiche e commerciali con i paesi del Mediterraneo come espressioni di un’autonoma politica estera. Così avvenne con la Libia quando Andreotti si recava sotto la tenda del Colonnello o con l’Iran, quando il governo Prodi inviò Dini per primo a Teheran.

E così avvenne (in forme meno sfacciate ma concretissime) quando il secondo Governo Prodi, su iniziativa di Massimo D’Alema, svolse una funzione straordinaria di mediazione sulla guerra in Libano. Molti ricorderanno D’Alema sottobraccio con esponenti di Hezbollah e le polemiche che ne seguirono; molti, ma non tutti: tra i dimenticatori a tempo determinato ci sono molti adepti del predellino che allora criticavano l’ex Ministro degli Esteri per aver incontrato Hezbollah, e ora sono in fila indiana a cercarsi uno spazio per la foto con Gheddafi e Berlusconi. Dunque ben vengano accordi per forniture e appalti in Libia. La condizione delle nostre imprese, soprattutto dal punto di vista dell'occupazione, non consente ironie o sottovalutazioni.

Certo, la kermesse delle fanciulle in ascolto (arruolate per 80 Euro al giorno) degli inviti all’islamizzazione non sono spettacolo consueto; ma qui, appunto, siamo nel folklore di un copione ad uso e consumo dell’ego del Rais libico. Peraltro, andrebbe ricordato a chi teme un'improbabile islamizzazione via Tripoli, che proprio Gheddafi detiene il record dell’impiccagione dei fondamentalisti islamici. La Libia, infatti, nel corso degli anni ha stabilito una regola chiara: la religione si occupi delle anime, che il governo si preoccupa della cosa pubblica; quando l’integralismo religioso ha cercato una via per fare politica, la risposta é stata durissima.

E’ semmai proprio sul terreno dei diritti umani che la guardia non può essere abbassata. E qui ci si riferisce alla politica repressiva verso i flussi migratori che spostano colonne di disperati dall’Africa verso l’Europa. Senza tanti infingimenti, Gheddafi ha ricordato che il problema è del vecchio Continente, non il suo. E che quindi, se si vuole che la Libia svolga un ruolo da secondino dell’immensa prigione di miseria che si muove tra i due continenti, si sappia che non è disposta a farlo gratis. Del resto - afferma Tripoli - le politiche di governo dei flussi migratori di Italia, Francia, Spagna, non prevedono forse il respingimento alle frontiere?

Su questo, allora, sarebbe bene esser chiari. Quello che fa la Libia è indegno di un paese civile, è insopportabile per chiunque non abbia cuore e mente offuscati. La repressione nei confronti di migliaia di esseri umani che cercano con ogni mezzo di arrivare in Europa è al di fuori e contro qualunque norma internazionale. I suoi campi di detenzione somigliano maledettamente a dei lager.

Ma Gheddafi agisce per proprio conto o per conto dei governi europei che glielo chiedono? Beh, difficile avere dubbi in proposito. Se si vuole dunque scegliere un terreno di relazione franca e diretta con Tripoli, la questione della gestione dell’immigrazione nel rispetto dei principi più elementari dei diritti umani non può risultare una variabile secondaria nel rapporto tra Roma (e l’Europa in generale) e la Libia.

Siamo abbastanza certi, però di non aver colto né nei colloqui governativi, né tanto meno in quelli d’affari, il benché minimo cenno al riguardo. Sarebbe invece il caso di proporre - e non solo con la Libia - una clausola etica e sociale sui diritti umani come precondizione per ogni qual si voglia rapporto bilaterale. Anche solo per non fare la figura barbina di chi impone a Cuba una ridicola “posizione comune Ue” per l’arresto di qualche decina di mercenari, mentre consente invece a Pechino e a Tripoli, all’Indonesia e a tanti altri dittatorelli in Africa, di firmare contratti con mani sporche di sangue.

 

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