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di Alessandro Iacuelli
Probabilmente non succederà niente, dopo le elezioni in Belgio che hanno visto la vittoria del partito separatista fiammingo nelle Fiandre: un po' difficile che un Paese in piena Unione Europea giunga alla disgregazione. Nonostante questo, nel nostro Paese c'è chi ne approfitta per aprire nuove latte di benzina da gettare intorno, con un effetto più ampio ed internazionale rispetto al Belgio stesso. A gettare la benzina ci ha pensato il solito Mario Borghezio, secondo il quale il voto nelle Fiandre "è un modello per noi". Niente male, come inizio.
L'europarlamentare leghista, uno dei volti del fascismo di oggi, l'uomo che disinfettava le carrozze dei treni dove viaggiavano ragazze africane, ma anche l'uomo che diede fuoco ad un ricovero per senzatetto rumeni sotto il Ponte Mosca a Torino, in una nota ha precisato che "il successo elettorale dei partiti secessionisti fiamminghi ha, per noi Padani, un significato ben preciso. L'Europa più moderna e liberale ci indica la via da seguire per raggiungere l'obiettivo dell'autodeterminazione". La via, prosegue l'eurodeputato, "è quella della fase confederale, da raggiungersi in via civile e pacifica, per poi arrivare all'indipendenza della Padania come delle Fiandre, in un'Europa dei popoli e delle regioni". Tutto il resto, conclude, "sono pie illusioni, o quanto meno perdite di tempo prezioso".
A parte ogni discorso sul tempo che perde lui, l'eurodeputato, c'è da notare come stia cercando di cogliere la palla al balzo per trasferire verso l'Italia settentrionale - peraltro in modo piuttosto grezzo e dilettantesco - la spaccatura belga dopo le elezioni politiche. Dopo la nota scritta, Borghezio ha anche rilasciato un'intervista al quotidiano online Affaritaliani, dichiarando: "Non si vede perché non si possa fare anche da noi...". A fargli eco è stato un altro personaggio colorito e folkloristico: quel Matteo Salvini che ha subito dichiarato che si tratta di "un segnale di speranza per tutti quelli che lavorano, producono e sono vittime di sprechi e di furbate da parte altrui. È un bel segnale, insomma. In Padania, a Barcellona, a Glasgow, in Bretagna e in Baviera la gente è molto contenta che altri cittadini possano parlare e votare".
Si tratta certamente di un'occasione per dare inutilmente fiato alle bocche. D'altronde, visti i precedenti ed anche l'attualità dell'attività politica di Borghezio, c'è da comprendere come lo stesso sia alla continua ricerca di elementi per poter tornare alla ribalta. Messo in disparte dal suo stesso partito, eliminato completamente dalla politica italiana, per non cadere nel dimenticatoio ha l'esigenza stringente di mettersi in mostra, anche rinunciando a buone occasioni per tacere, togliendo quindi ogni dubbio sulla sua intelligenza e la sua buona fede.
Così, l'anno scorso, in Francia, ad un convegno di una formazione dell'estrema destra di Nizza, credendosi a microfoni spenti, o forse sapendo bene che stessero funzionando, Borghezio disse ai suoi camerati neofascisti che "occorre insistere molto sul lato regionalista del movimento. È un buon modo per non essere considerati immediatamente fascisti nostalgici, bensì come una nuova forza regionalista, cattolica; ma, dietro tutto ciò, siamo sempre gli stessi". In Francia ne discussero TV e giornali e fu l'ennesima figuraccia. Figuraccia che però va benissimo per non finire lontano dal palcoscenico della politica e della notorietà.
Quest'anno, invece, è toccato approfittare del voto belga per dar fiato alle esternazioni fuori luogo, decontestualizzate, e riportate tout court in una realtà, quella italiana, profondamente diversa da quella del Belgio. Nel Paese, infatti, il voto è regionale ed il Paese è federale: le elezioni hanno visto al nord, nelle Fiandre, la vittoria dei separatisti e al sud, in Vallonia, dei socialisti. Socialisti che diventano il primo partito del Belgio, tra l'altro.
Anche i partiti sono regionali, e non nazionali come da noi. Nel governo federale sono rappresentanti sia quelli espressione della comunità di lingua francese della Vallonia sia quelli di lingua fiamminga delle Fiandre. Solo nella regione di Bruxelles capitale gli elettori possono scegliere sia gli uni che gli altri. Pertanto, l'N-Va, il partito separatista delle Fiandre, mai uscirà dalle Fiandre stesse. Potrà negoziare qualcosa in parlamento, ma dovrà vedersela con un partito socialista che ha avuto una vittoria spettacolare e difficilmente riuscirà ad avere un ruolo in un futuro governo che sia pesante quanto quello che ha la Lega Nord in Italia. Pertanto, dovrebbero semmai essere i leghisti delle Fiandre, a vedere i leghisti nostrani come un esempio per loro, e non viceversa.
Borghezio questo lo sa, ma non fare le sue esternazioni sarebbe significato essere ancora assente dal mondo dei mass media che seguono la politica, e per un uomo che vive di apparizioni, non essere più chiamato da giornali e televisioni è la più grande sconfitta politica che ci possa essere. Per questo, alcuni giorni fa, interpellato dall'Adnkronos non sulla politica italiana, non su quella europea, ma solo sue preferenze calcistiche nei campionati mondiali di calcio, il poveraccio si era dovuto inventare una risposta delle sue: "Quando la Padania avrà l'autodeterminazione si potrà confrontare con le nazionali di altri paesi, però sono molto orgoglioso del fatto che la nazionale padana giochi il campionato della nazioni non riconosciute. Del resto, molte nazionali che prima non erano riconosciute, oggi partecipano ai campionati europei; quindi non penso che ci vorrà molto per vedere una nazionale padana, e allora tiferò ovviamente per quella".
E l'attività politica, per la quale è regolarmente stipendiato dall'Unione Euroea, cioè anche da noi? Borghezio è membro, come il cacio sui maccheroni, della commissione libertà civili ed immigrazione del Parlamento Europeo, ma il suo tempo da eurodeputato lo perde presentando improbabili richieste riguardanti i dischi volanti, gli extraterrestri, e in generale la desecretazione della documentazione sugli UFO.
Presentare al Parlamento Europeo una richiesta di desecretazione di documenti, di per sé non ha nulla di negativo: ma il fatto che riguardi degli extraterrestri e che Borghezio parla della sua richiesta come se si trattasse di problemi legati all’immigrazione, fa immediatamente cadere un velo di ridicolo su tutta la vicenda. Probabilmente teme un’invasione aliena, dopo quella degli africani? Difficile però, prendergli le impronte dei piedi..
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di Rosa Ana de Santis
Mentre il Paese degli azzurri appende i tricolori sui balconi per la Nazionale, torna ad essere protagonista il maltrattato inno nazionale. Solo qualche giorno fa, in occasione di Italia - Svizzera, ci aveva pensato il calciatore Marchisio - così pare dal suo labiale e dai sorrisi divertiti dei compagni di squadra - ad apostrofare “Roma Ladrona” nei versi risorgimentali di Mameli. Ora ci pensa Zaia, neo governatore della Regione Veneto, a creare il caso. All’inaugurazione di una nuova scuola elementare, nella provincia di Treviso, l’ex ministro avrebbe chiesto alla banda musicale di suonare Va pensiero al posto dell’Inno Nazionale o, in ogni caso, di non aver fatto suonare per primo - come vorrebbe il cerimoniale - Fratelli d’Italia. In una domenica soleggiata d’estate, questa notizia può diventare un caso e così è stato.
L’opposizione chiede al governatore leghista di fare chiarezza. Una distrazione, un equivoco o una regia anti-repubblicana meditata? La Russa, che utilizza la retorica patriottica solo quando deve scusare le morti dei nostri soldati in Afghanistan, questa volta non s’indigna e si dice sicuro che Zaia non abbia censurato l’Inno di Mameli, ma che, suo malgrado, ci sia stata una sottovalutazione nel cerimoniale d’inaugurazione.
La soluzione è un disegno di legge che regolamenterà in modo ufficiale l’uso obbligatorio dell’inno nazionale. Il grimaldello dell’imposizione in luogo del sentimento patriottico spontaneo è proprio la metafora di come l’Italia abbia costruito la propria unità: a freddo e dall’alto. Improvvisamente mansueto il Ministro delle Forze Armate, forse un po’ troppo anche per uno che ha preferito la Lega e il premier, alla vecchia scuola di AN.
Nel frattempo Zaia, a Sky Tg24, ribadisce che i cori sono stati due e che l’esecuzione dell’Inno c’ è stata. Che la Lega Nord, da tempo, persegua la battaglia contro l’inno che definisce la Patria “schiava di Roma” e che affonda le sue radici nella storia del Risorgimento, tanto indigeribile per la Padania, è noto. Fu proprio Bossi a proporre il Nabucco al posto di Mameli.
Quale che sia stato il programma dell’esecuzione, il problema politico non è certamente Zaia e la cronaca della scuola di turno, ma l’insidia della divisione e della secessione che il PDL coccola in grembo e che occulta, facendo finta di dimenticare che alla festa nazionale del 2 giugno fosse proprio la Lega l’unica forza politica assente. Anche questa una svista nell’agenda? Una spiegazione ufficiale non è mai arrivata.
A questo scenario pericoloso fa da controaltare un’assenza diffusa di autentico sentimento patriottico. Non quello che va di moda nell’estrema destra, ma quello sano dei nostri nonni, che la Patria l’hanno amata e difesa prima di cantarla ed esibirla. Quei testimoni che oggi, non a caso, nelle scuole vengono chiamati sempre meno. A dircelo è la cronaca di un’altra scuola: la Gioacchino Belli di Roma e la reazione della preside, irritata dal fuori programma dei suoi studenti che, nel corso di una manifestazione al Ministero dell’Istruzione, hanno intonato Bella ciao.
Forse perché i partigiani e la Resistenza non piacciono a questo governo e tra qualche anno non li troveremo più nei programmi di storia. E’ davvero l’amore per la patria che si vuole insegnare alle nuove generazioni o il timore del potere costituito? Perché non può esistere un autentico sentimento di amore per la propria patria senza il riconoscimento della storia che la riguarda e non c’è dubbio che di storia vissuta sulla pelle dell’Italia ce ne sia di più nello spontaneismo popolare del canto delle resistenza che non nel Nabucco.
Il Ministro della Difesa, La Russa, si dice sorpreso a vedere la sinistra tanto sdegnata dalla mancanza di attenzione per valori e simboli dell’unità d’Italia. Forse perché anni fa essere di sinistra significava, quasi necessariamente, non essere patriottici. Una dicotomia sbagliata nella dottrina e nella storia, soprattutto pensando che nell’amore di patria di un popolo coraggioso è contenuto il primo movente di un tirannicidio. Ma quest’orgoglio del tricolore è ormai muffa per gli archivi.
A noi rimane la bandiera delle tribune durante le parate militari o l’inno cantato dai calciatori. E’ così che tutti possono dire di sentirsi italiani. Tanto non costa né coraggio, né fatica.
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di Mario Braconi
Dopo il vergognoso "aiutino" ad evasori fiscali e cultori dell'abuso edilizio, nel teatrino horror-kitsch di un governo berlusconiano non poteva mancare il tradizionale "numero" di assalto ai diritti dei lavoratori dipendenti: è di scena in questi giorni l'attacco alle pensioni. Sempre che il bavaglio confezionato dall'esecutivo lo consenta, il governo Berlusconi si fa notare quasi quotidianamente per il suo atteggiamento disinvolto nei confronti del malaffare (il caso Scajola sembra in effetti la punta di un iceberg); inoltre, al di là dei proclami populistici, pare proprio che il confuso opportunismo finanziario e la conclamata debolezza morale che lo contraddistinguono non possano esprimere molto più che provvedimenti il cui vero obiettivo è favorire i disonesti.
Con queste premesse, appare incongrua, per non dire sospetta, la solerzia con la quale Sacconi, ministro del Welfare della nostra Repubblica, si dà un gran da fare per ripristinare l'onore dell'Italia, infangato dalla procedura di infrazione elevata dalla Corte Europea a causa della mancata equiparazione dell'età pensionabile tra dipendenti pubblici maschi e femmine: oggi, infatti, è previsto che i primi possano andare in pensione a 65 anni, cinque anni più tardi delle loro colleghe. Ora, tutto si può dire fuorché l'Italia si tiri indietro se si tratta di violare le regole comunitarie: non a caso di infrazioni ne ha collezionate oltre un centinaio. Eppure non tutte appaiono ugualmente preoccupanti agli occhi degli esecutivi nazionali.
Vediamo il caso sorto attorno alla delibera CIP6 del 29 aprile 1992, con la quale sono stati stabiliti i prezzi incentivati dell'energia prodotta da fonti rinnovabili o "assimilate": poiché gli incentivi ai produttori "virtuosi" si riflettono in un carico per l'utente/contribuente, si tratta di un balzello, anche se, almeno inizialmente, destinato ad una giusta causa. Poiché secondo la legge italiana tra le energie rinnovabili si trova anche la "trasformazione dei rifiuti organici ed inorganici" (!), da decenni gli italiani involontariamente (e spesso inconsapevolmente) pagano un sussidio obbligatorio a favore di chi produce e gestisce inceneritori di rifiuti.
Si tratta di impianti che, a dispetto del suggestivo nome con il quale si è deciso di ribattezzarli - "termovalorizzatori" - sparano nell'atmosfera diossina ed altre porcherie tossiche. In sintesi, con la bolletta della luce gli Italiani da decenni subiscono un prelievo forzato che lo stato utilizza per aiutare famiglie amiche (Garrone, Moratti, Marcegaglia) a gestire il loro business inquinante.
Un vero capolavoro, il cui fulgore perverso è appena appannato dalla contestazione, nel corso degli anni, di ben quattro procedure di infrazione europee (2004/43/46, 2005/50/61, 2005/40/51 e 2005/23/29). Dopo 18 anni di allegro rapinare, alla fine del 2009 l'apparente salto quantico: come nota il sito del Ministero per lo Sviluppo Economico, grazie al decreto firmato il 2 dicembre 2009 dal ministro Scajola, gli incentivi "finiranno a cominciare dal 2010 con effetti benefici per i consumatori" (si noti per inciso il banditesco uso dell'Italiano).
Peccato che, come spiega la nota esplicativa del decreto, le "convenzioni CIP 6/92 aventi ad oggetto gli impianti alimentati da fonti rinnovabili e da rifiuti (altra tipologia prevista dalla normativa in essere) non sono oggetto di questo decreto e sono rinviate a eventuale provvedimento successivo". Il che vuol dire che, benché i procedimenti a carico dell'Italia risultino in qualche modo chiusi, gli incentivi per i termovalorizzatori continuano a sopravvivere e prosperare a dispetto del diritto e del buonsenso.
Tutto ciò per dire che non tutte le infrazioni europee sono uguali e che, quando un amico si fa avanti, la soluzione si trova sempre. Se invece si tratta di prendere posizioni muscolari nei confronti dei lavoratori, la musica cambia. Ed è così che il ministro Sacconi, indimenticabile protagonista di un'imbarazzante battaglia moralista sul corpo di Eluana Englaro, esce mortificato da un incandescente rendez-vouz con una Commissaria Viviane Reding versione sado-maso: stringendosi nelle spalle riconosce che l'adeguamento graduale dell'età pensionabile traguardato al 2018 non soddisfa la rigorosa cristiano-sociale lussemburghese. Si dovrà quindi innalzare in tutta fretta l'età pensionabile delle dipendenti pubbliche italiane di 5 anni, possibilmente in un'unica soluzione, nel 2012.
Quanto rigore, nei confronti dell'Italia...Eppure, analizzando le norme che disciplinano il pensionamento dei dipendenti pubblici in Europa, si scopre che, su 24 Paesi, 13 non hanno regole diversificate per genere, mentre 11 distinguono tra uomini e donne - tra questi, oltre all'Italia, Polonia, Austria, Spagna e Regno Unito – ma si noti che quest'ultimo prevede l'equiparazione solo nel 2020. Si può dunque concludere che la ragione per la quale il governo Berlusconi ha iniziato la sua "campagna" di ridimensionamento del welfare è sostanzialmente di tipo politico: si tratta, infatti, di introdurre in modo graduale il concetto dell'ineluttabilità di un innalzamento, anche consistente, dell'età pensionabile - per tutti.
Oggi, è vero, si parla delle donne che lavorano nella pubblica amministrazione; domani toccherà anche a tutti altri. Non ci si lasci illudere dalla foglia di fico dell'Europa, un comodo alibi dietro cui il pavido ministro si nasconde. Né sorprende più di tanto apprendere che sulla scrivania di un giornalista di Repubblica sia stato fatto scivolare "per caso" un dossier dal quale si evince che i sacrifici (altrui) che ha in mente il nostro esecutivo sono più pesanti e persistenti di quanto si possa immaginare.
L'arrembaggio contro le dipendenti pubbliche nasconde un'offensiva di tipo (anche) culturale: via le certezze e niente pensione fino a 70 anni per i neoassunti dal 2010 in poi. Un modo come un altro per mutare il giusto malcontento delle nuove generazioni nel cinismo della disillusione.
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di Fabrizio Casari
La legge che prova ad abolire la libertà di stampa in Italia è passata al Senato. Dovrà ora tornare alla Camera per la sua ratifica definitiva o per eventuali - ancorché limitate - modifiche al testo licenziato da Palazzo Madama. Sarà dunque Montecitorio l’ultimo appuntamento legislativo per definire i dettagli dell’imbavagliamento mediatico. Poi toccherà al referendum sancirne la sorte che merita. Le norme contenute nella legge non hanno nulla a che vedere con il rispetto della privacy degli indagati, né hanno a che vedere con il rispetto rigoroso di ruoli e responsabilità dei diversi attori ascrivibili alla violazione del segreto istruttorio.
La legge ha, al centro del suo dispositivo, norme e minacce al lavoro degli investigatori e delle procure. Mira a rendere estremamente difficile la continuità delle inchieste e, di converso, a difendere le cricche e i politici che le sostengono e che da esse, nel contempo, sono foraggiati e sostenuti, dalla diffusione pubblica del loro operato e dei loro intrecci affaristici. La legge è questa e la parte riguardante il diritto di cronaca e, prima ancora, il diritto dei cittadini ad essere informati, sono due degli elementi che compongono la triade del nuovo Minculpop.
Il primo scopo della legge è impedire d’indagare; il secondo d’impedire che si sappia su chi e cosa s’indaga, il terzo di evitare che chi legge (e poi vota) giudichi. Si deve sapere che alcuni tra i reati più orrendi della storia di questo paese, siano essi di mafia e di stragi, o di peculato e truffe sulle tragedie, non sarebbero venuti alla luce se gli investigatori non avessero potuto utilizzare le intercettazioni. Non avremmo saputo, per esempio, di sciacalli festanti per il terremoto che pregustavano il business con i corpi sotto le macerie. Ed è proprio per questo che oggi diventa tutto più difficile per chi indaga: gli intrecci e le lotte di potere per il dominio politico-affaristico del paese hanno senso solo se nascoste, segrete ai cittadini ma chiare a chi deve capire. Un codice per addetti ai lavori, che ha bisogno di cittadini ed elettori ignoranti.
Questo sito non ha mai voluto pubblicare estratti e verbali di inchieste, meno che mai requisitorie di pm sotto forma di articoli: siamo convinti che la distanza tra verità dei fatti e verità processuale vada mantenuta in uno Stato di diritto, e che i giornali (diversamente dagli attori del processo) debbano essere affezionati alla prima più che alla seconda. Superluo dire che, comunque, non obbediremo a questa legge e ci adopereremo affinché venga cancellata il prima possibile. Crediamo anche che nessuno si opporrebbe a una legge che tutelasse maggiormente la privacy delle persone, regolarmente messe alla berlina sui settimanali e quotidiani gossipari riconducibili alla proprietà del Presidente del Consiglio.
Le liste di proscrizione in prima pagina, i pedinamenti dei giudici che indagano sulle cricche, i gossip peggiori sulle celebrità non affini politicamente, come il traffico di dossier tra Palazzo Grazioli e le redazioni dei suoi giornali, destinati a colpire gli avversari politici soprattutto con dossier falsi, fanno ormai parte di una consolidata tradizione ascrivibile all’impero mediatico di chi ha voluto la legge bavaglio.
Nessuno obietterebbe niente nei confronti di norme che tutelassero la secretazione degli atti d’indagine e che impedissero la pubblicazione d’intercettazioni ininfluenti, quando non estranee, all’inchiesta in corso. In questo contesto, il rispetto della privacy sarebbe un elemento di valore aggiunto.
Ma la verità è che la legge si guarda bene dal difendere questi elementari diritti di chi è indagato, essendo invece solo mirata a minacciare editori e giornalisti dalla pubblicazione di quanto altri soggetti - avvocati, cancellieri, magistrati - offrono ai cronisti di giudiziaria. Dunque la legge non punisce un comportamento illecito degli attori del processo (ma anche lecito, quando è fatto nei modi e nei tempi stabiliti dall’ordinamento, visto che gli atti depositati, come i processi, sono costituzionalmente pubblici) ma solo la loro pubblicazione sui media.
La verità è che l’incontinenza verbale degli affaristi e l’inevitabile uso del telefono per collegare soggetti diversi situati in luoghi diversi, è divenuta una fonte primaria d’indagine che colpisce i grandi reati, non certo la microcriminalità. Per questo viene limitato l’uso delle intercettazioni, per questo viene messa in mora la possibilità di acquisire prove tramite le stesse. Se si fossero intercettati solo i ladruncoli e la microcriminalità, nessuno avrebbe pensato ad una legge bavaglio, se ne può essere certi.
Quanto ai media, il tentativo é quello di riportare i giornali sotto il controllo militare degli editori, minacciati da multe pesantissime. In sostanza, l'obiettivo, nemmeno celato, é quello di scavalcare il ruolo dei direttori e dei giornalisti, imponendo le ragioni di opportunità degli editori sulla libertà di stampa. Come dire: non importa se quello che c'é scritto é vero, importa solo quello che ti costa scriverlo.
L’intimidazione ai giornalisti è evidente: la concezione che i potenti hanno dei giornalisti è quella che prevede microfoni e telecamere rincorrere i leader e i peones sui corridoi, così da essere utilizzati per l’invio di messaggi auto promozionali e offerte o minacce ad amici e avversari. Li vogliono ridenti e soddisfatti, intenti a confezionare il nulla con la fuffa, compiaciuti dell’aver registrato per primi la banalità del giorno, comprimari di quel penoso spettacolo che ci offrono i tg. Sarebbe ora che tutti noi giornalisti cominciassimo a riflettere su quello che facciamo come categoria per meritarci il rispetto ed il timore del potere.
Magari la categoria decidesse una sola, piccola iniziativa: si prendano nomi e cognomi di deputati e senatori che votano la legge bavaglio e si stabilisca che in nessun giornale, mai più avranno l’onore di una citazione, di una foto, di una battuta riportata, men che mai di un’intervista. Questo, l’anonimato de facto, è ciò che li terrorizza più del loro capo. La loro vanità è notevolmente superiore allo spirito di servizio verso le istituzioni. Bisognerebbe quindi annunciare trasversalmente a chi non vuole che i giornalisti scrivano, che proprio di loro non scriveranno. Avremo tale e tanto rispetto della privacy che non li nomineremo più per quanto attiene alla loro attività politica.
Quello consumatosi ieri al Senato è un reato contro la dignità di un paese. L’aula non è più "sorda e grigia", ma urlante e nera, e vota la fiducia ad una legge che porta in sé un tanfo insopportabile di ventennio. Il fatto che l’abbia presentata Gasparri, evidenzia, almeno, un tributo alla coerenza.
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di Mariavittoria Orsolato
E’ ormai un bulldozer pronto a sbaragliare gli avversari, il ddl sulle intercettazioni, altresì noto come legge bavaglio, che dopo anni di annunci e minacce approda in questi giorni al Senato, dopo l’approvazione all’unanimità ricevuta dall’ufficio di presidenza del Pdl. Giornalisti, magistrati, società civile: sono tantissimi quelli che vedono le nuove disposizioni come un mastodontico regalo alla criminalità organizzata e un’utile pezza alle disastrose figure che nomi importanti del governo e delle élites istituzionali hanno fatto dinanzi al Paese.
Quello del Governo Berlusconi è in effetti un colpo di spugna magistrale sulla prassi consolidata della clientela e del malaffare, e in più ha l’ineguagliabile merito di ferire a morte l’operato quotidiano di magistrati e giornalisti. Un capolavoro di azzecca-garbuglismo che in soli 5 articoli e 9 commi riesce a blindare la pratica e il ricorso all’intercettazione, limitandone i termini giuridici ed impedendone la pubblicazione con la minaccia di multe salatissime agli editori.
Se, al principio, l’opposizione del presidente della Camera Fini rappresentava una flebile speranza di modifica, ieri, con l’approvazione dell’innalzamento di proroga delle intercettazioni ogni 72 ore (anziché ogni 48), anche i fedelissimi di Gianfranco hanno mestamente capitolato. E’ bastato poco, insomma, per accontentare i “fratellastri” del Pdl, rintuzzati da Padron’Silvio sul fatto che le modifiche apportate sono ora definitive e che in sede di votazione alla Camera non saranno tollerati dissensi di alcun genere o sorta.
Una votazione che già nelle premesse pare sarà blindata dalla doppia fiducia, ma che potrebbe trovare uno scoglio in Napolitano: nel corso del weekend, il Quirinale ha passato di nuovo al setaccio la legge, ha confermato i suoi dubbi e li ha prontamente segnalati ai berluscones, paventando il rischio che, se il testo rimane così com’è, potrebbe anche non essere firmato.
Al di là delle dialettiche politiche che fanno da corollario a questo scempio legislativo, è importante valutare quelle che saranno le effettive conseguenze delle nuove norme. Per prima cosa le intercettazioni dovranno essere disposte da un tribunale collegiale composto da almeno 3 membri e avranno una durata massima di 75 giorni; solo in casi decretati come straordinari i pm potranno fare ricorso a 72 ore di proroga. Si è poi deciso che nel caso in cui le intercettazioni provassero reati estranei a quelli dell’inchiesta, queste non possano essere utilizzate ai fini della dimostrazione di colpa, nemmeno nel caso in cui i reati accertati dall’ascolto siano più gravi di quelli dell’imputazione.
Più volte l’Associazione Nazionale Magistrati ha tentato di denunciare che, con questi paletti, rischia di diventare impossibile scoprire i colpevoli di reati gravissimi come omicidi, rapine, estorsioni, usura, bancarotte milionarie e corruzioni, ma per Berlusconi la privacy è sacra: “Finora se avevi 15 fidanzate - ironizza il premier - finivano tutte intercettate per un tempo indeterminato” e poco importa se in nome della sacra privacy soggetti come quelli della “cricca” o delle équipes mediche del Santa Rita sarebbero ora liberi di continuare nei loro misfatti.
Ma i limiti imposti dalla legge bavaglio non interessano solo le intercettazioni telefoniche: secondo il testo infatti, le forze dell’ordine non potranno più servirsi di microspie da piazzare in ambienti privati; d’ora in poi gli indagati potranno essere video-registrati solo in flagranza di reato.
Con questo punto si disintegrano quindi le basi di tutte le inchieste anti-mafia, operazioni imperniate proprio sull’ascolto delle conversazioni in luoghi in cui i malavitosi credono di essere al sicuro: interventi magistrali come quelli svolti in casa Guttadauro, con un presidente di regione (Totò Cuffaro) che personalmente informa il boss sulle indagini a suo carico, saranno quindi cancellate dagli annali della magistratura.
Dopo aver disarmato la giustizia ci si concentra poi sull’informazione non gradita: si sancisce il carcere fino a tre anni per i giornalisti “colpevoli” di pubblicare stralci di conversazioni penalmente irrilevanti nel nome del pubblico interesse, e si comminano multe fino a 775.000 euro agli editori, i quali dovrebbero, in seno al pareggio di bilancio, evitare che si verifichino le condizioni per tali ammanchi.
Affinché poi la stampa capisca che la sua funzione è obsoleta nel regno dell’etere di Padron’ Silvio, il ddl Alfano impedisce l’uscita di qualsiasi atto giudiziario fino alla fine delle indagini e dell’udienza preliminare. Grazie a questa misura un giornale come Il fatto quotidiano dovrebbe immediatamente chiudere i battenti, mentre l’opinione pubblica sarebbe informata con anni di ritardo su fatti di scottante attualità come furono le scalate bancarie dei “furbetti del quartierino” o le liason coattate da Giampi Tarantini.
Scampata invece la possibilità di allargare a piacimento il segreto di Stato: un comma rimosso all’ultimo momento prevedeva infatti che gli uomini dei servizi potessero opporsi davanti ai giudici, anche quelli anti-mafia, in nome della riservatezza istituzionale.
Questi in sintesi i cambiamenti che entreranno in vigore subito dopo l’approvazione del ddl Alfano, modifiche blindate e che blinderanno l’impunità dei molti, troppi, che per giustizia e libertà intendono solo quella personale.