di Ilvio Pannullo

In un momento in cui al bilancio dello Stato viene imposto un dimagrimento forzoso di 25 miliardi di euro come richiesto dall’Europa, la stabilità del governo è appesa ad un filo. Secondo voci lasciate serpeggiare fuori dai palazzi del potere, infatti, la prossima tornata di decreti attuativi sul federalismo fiscale, dopo quello demaniale approvato prima di Natale, è attesa proprio per il mese di giugno. Mancano i soldi per la sanità, per la scuola, per la cultura, ma per evitare la caduta del governo si dovranno trovare quelli necessari per sopportare il costo della rivoluzione che interesserà il nostro sistema istituzionale.

La resa dei conti dovrà comunque arrivare prima della pausa estiva. Un'accelerazione imposta e ottenuta da Umberto Bossi e da tutta la Lega Nord, in cambio del via libera ai provvedimenti sulla Giustizia, tanto cari al Popolo della Libertà. L’unità della Repubblica in cambio della certezza del diritto: un equo scambio per un’Italia troppo ignorante e plebea per ricordarsi della propria storia e della propria Costituzione.

A sorvegliare sull’andamento e sulla fattibilità dello scambio non c’è di certo il PD, che con i sui responsabili per le riforme istituzionali e sulla giustizia, rispettivamente Luciano Violante e quell’Andrea Orlando tanto caro al Foglio di Giuliano Ferrara, lancia continuamente segnali di ammiccamento al partito dell’amore. Accade così l’impensabile: a tenere testa ai disegni eversivi del governo l’unica voce che si alza forte e chiara dal chiacchiericcio politichese è quella del Presidente della Camera Gianfranco Fini.

"Il federalismo non può essere un destino ineluttabile se per realizzarlo si mette a repentaglio la coesione nazionale". Queste le parole dell’ex fascista, ex missino ed ora Presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, alla presentazione del libro "100 anni d’imprese. Storia della Confindustria 1910-2010". Consapevole dei problemi economici che potrebbero derivare da un’attuazione all’italiana del federalismo politico, fiscale e demaniale, la terza carica dello Stato ha poi infilato il dito nella piega delle preoccupazioni leghiste ribadendo la necessità che siano ben chiari i costi della riforma.

La vera svolta sarà, infatti, la definizione dei famosi "costi standard"o LEA, livelli essenziali di assistenza. Per garantire l’autonomia di entrate e spese a Regioni ed Enti Locali e decidere i livelli di perequazione, si passerà in maniera progressiva dal criterio della spesa storica a quello del costo standard, per garantire che i servizi fondamentali costino e siano erogati in maniera uniforme sul territorio nazionale. Il costo standard consentirà di determinare, per ciascun livello di governo, il fabbisogno di cui necessita un’amministrazione e quindi l’eventuale trasferimento perequativo cui avrà diritto in caso di entrate fiscali insufficienti a garantire i servizi. Ma non finisce qui.

Si punta a un calo complessivo della pressione fiscale. Con i decreti attuativi dovrà essere "garantita la determinazione periodica del limite massimo della pressione fiscale, nonché del suo riparto tra i vari livelli di governo". Il governo si è impegnato a fare in modo che con i decreti attuativi non si superi il livello massimo di pressione fiscale fissato nel Dpef e che entro i due anni successivi alla data in vigore dei decreti legislativi questa non superi il 42% e il 40% nei tre anni che seguiranno il primo periodo. Insomma, il federalismo fiscale sta per entrare nel vivo.

Visto che Bossi parla di federalismo da almeno 20 anni, ci eravamo abituati a considerarla una parola-mantra, di quelle che non hanno un significato ma solo un suono evocativo. Lascia quindi un po’ stupefatti vedere il federalismo concretizzarsi in documenti legislativi dall’evidente valore politico. Dopo il parere favorevole della Bicamerale, che ha visto l’astensione del Pd e il voto favorevole dell’Italia dei Valori, il Consiglio dei Ministri ha da poco approvato il cosiddetto “federalismo demaniale”, che prevede il trasferimento del patrimonio pubblico agli enti locali, che potranno eventualmente valorizzarlo, gestirlo e persino vendere ma solo per ridurre il debito e non per finanziare la spesa corrente.

Mentre si segnala cautamente che il patrimonio pubblico demaniale è la garanzia reale del debito pubblico, sottoscritto dallo Stato e non certo dagli enti locali, si scopre che il nostro federalismo incuriosisce anche all’estero: anche tra i burocrati del Parlamento europeo a Bruxelles, c’è chi vuole saperne di più e seguire l’evolvere della situazione, non ultimo per vedere di cosa sono capaci gli italiani. Ed è qui il punto: siamo davvero capaci di tutto.

Alla luce dell'esperienza maturata nelle ultime due legislature, sarebbe comunque da ritenere altamente raccomandabile deporre la concezione eroica della riforma costituzionale  - il riferimento è ovviamente alla pretesa di intervenire con una grande riforma di tipo palingenetico - per abbracciare la prospettiva, forse non appassionante ma certamente più costruttiva, della manutenzione della Costituzione.

Che è, in genere, la prospettiva coltivata negli altri Stati europei. Tale mutamento di approccio avrebbe il grande merito di deideologizzare il dibattito sulle riforme, spostando l'attenzione dai modelli generali, alle misure concretamente attuabili: dagli slogan alle esigenze da soddisfare, dagli spasmi populistici agli strumenti tecnici all'occasione utilizzabili.

Un rischio, che, in presenza di un quadro politico estremamente frammentato come quello italiano, è proporzionale all'ambizione dei progetti di riforma ed alla loro estensione. Non deve, infine, dimenticarsi che le grandi riforme costituzionali vanificano la funzione del referendum confermativo di cui all'articolo 138 primo comma, coartando la volontà del corpo elettorale.

È infatti evidente che, posto di fronte a decisioni eterogenee - se non addirittura in reciproca tensione - l'elettore non può distinguere i contenuti cui eventualmente va il proprio favore da quelli che disapprova. Ed è quindi fatalmente sospinto a decidere seguendo logiche di schieramento. Il che priva il suo intervento della funzione che dovrebbe rivestire e quindi di un'apprezzabile valore aggiunto.

Semplificando ed esemplificando le considerazioni di cui sopra, è da ritenere opportuno che, in questa fase, si separi il tema della forma di Stato, di stampo regionalista o federalista, da quello della forma di governo, oggi una Repubblica Parlamentare domani chissà. In primo luogo, perché l'intreccio tra le due tematiche appesantirebbe il tavolo, accrescendo la probabilità di compromessi al ribasso. Inoltre, per ragioni che, mentre il tema della forma di Stato può considerarsi relativamente maturo, essendosi consolidata una riflessione abbastanza condivisa sugli interventi migliorativi necessari, sulla forma di governo si fronteggiano ancora diagnosi e terapie fortemente differenziati. Opinioni che attraversano entrambi gli schieramenti politici trasversalmente.

Non ci rimane dunque che aspettare. Dopotutto siamo così noi italiani: stiamo fermi per anni nell’immobilità più soffocante, pare sempre che giriamo a vuoto, poi all’improvviso partono accelerazioni inaspettate e la locomotiva si mette a correre, certe volte producendo anche cose originali. E così che si spiega il fatto che pur sembrando un paese sempre alla canna del gas, siamo sempre lì a giocarcela, come accade un po’ anche alla nostra Nazionale.

Siamo capaci tanto di vincere un mondiale e quanto di trasformare squadre come la Svizzera in corazzate inespugnabili. In questo contesto non ci si meraviglia neanche davanti alla miracolosa intesa tra maggioranza e opposizione, tanto che - come si è visto - non ci si scandalizza neanche se il polenta-Calderoli indice una conferenza stampa congiunta con il terrone-Di Pietro. Cose da pazzi. Cose da italiani.

 

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