di Fabrizio Casari

Il novantacinque per cento dei dipendenti (4642) ha votato, ma nessuno aveva detto di non andare a votare. Il 52 per cento ha detto Sì, ma il 38 per cento (1673) ha detto No. E se scendiamo agli operai delle linee, il No arriva a lambire il 50%. Questo nonostante il voto si sia svolto in un clima interno di controllo e di manipolazione che nemmeno le elezioni di una repubblica bananera avrebbero consentito. Ma i numeri parlano, e dicono che sia nel caso generale (38%), sia a maggior ragione nel comparto di linea (50%) sono emersi voti che vanno decisamente oltre la rappresentanza Fiom; il che vuol dire che il No all’accordo, è andato ben oltre il peso certificato del sindacato metalmeccanici della Cgil. Dunque, nessun plebiscito, tutt’altro.

Il referendum Fiat, che avrebbe dovuto consegnare al Lingotto un pronunciamento bulgaro sull’accordo separato firmato da sindacati gialli e neri, ma rifiutato dalla Fiom, ha avuto un esito molto diverso da quello che ci si attendeva a Corso Marconi. La Fiom era sola contro tutti e tutto. Governo, Confindustria, partiti (anche del centrosinistra), sindacati, giornali e opinionisti arruolati alla bisogna, avevano cantato in ogni lingua e con ogni tono il favore all’accordo. Con un solo distinguo: quello tra coloro che ne indicavano l’inevitabilità e quelli che, invece, oltre a definirlo inevitabile ne giudicavano positivamente i contenuti.

Hanno preso entrambi un sonoro ceffone. Il referendum è stato interpretato come si doveva, cioè come un ricatto, una falsa alternativa, una vera dichiarazione di guerra. Se la Fiat, come aveva dichiarato, per dare seguito al piano pretendeva un pronunciamento totale in senso affermativo dei suoi operai, non l’ha ottenuto. Pomigliano non accetta di divenire la fabbrica-caserma del nuovo taylorismo, il laboratorio ultimo del comando d’impresa. La soppressione dei diritti costituzionali e la deroga continua al CCLN non gode del consenso di tutti.

L’obiettivo era duplice: azzerare la rappresentanza della Fiom e proporre un modello industriale che riportasse la relazione tra azienda e lavoratori ai primi del ‘900. Ristabilire il comando d’impresa come l’Alfa e l’Omega delle relazioni industriali. Quali dei due obiettivi fosse la principale e quale la subordinata è difficile da stabilire; inoltrarsi nella disamina rischierebbe di riproporre l’annosa questione dell’uovo e della gallina. La loro interdipendenza è invece evidente. Così come risulta evidente che quello della Fiat è un piano industriale fatto di contenuti che in nessun altro paese d’Europa sarebbero accettabili.

Ci si domanda, sempre più spesso e con molte ragioni, come mai la Fiat sceglie di riportare la produzione della Panda a Pomigliano, quando potrebbe mantenerla in Polonia. Meglio sorridere quando sentiamo insinuare una sorta di filantropia del Lingotto. La risposta è semplice: oltre a questioni non certo secondarie, che vanno dai finanziamenti locali ed europei al peso specifico dell’azienda nel sistema-paese di uno dei membri del G-8, si deve considerare che un prodotto come le auto Fiat, per riuscire comunque a conservare o ad accrescere la sua quota di mercato, ha bisogno di una qualità del prodotto che in Polonia, come in altri paesi dell’Est Europa, non avrebbe. Qualificazione professionale, impianti, tecnologia e costi vedono comunque più conveniente la scelta italiana.

La parola passa ora a Marchionne, che ora dovrà, passata la frustrazione, dire parole chiare ed inequivocabili circa il mantenimento dell’investimento dei 700 milioni di euro previsti dal piano, se si può chiamare piano un tentativo di strangolamento. La Fiom si è dichiarata disponibile alla ripresa della trattativa e lo stesso governo, per bocca di Sacconi, definisce una “vittoria” l’esito del referendum e afferma che "bisogna attuare accordi e verificare anche con coloro che non hanno firmato l'adesione a quel modello e io sono sicuro che nessuna organizzazione voglia sabotare il modulo di lavoro che  l'unico  può attrarre  gli investimenti sulla Panda".

Ma al Lingotto sembra invece prevalere la delusione per il risultato della consultazione. In un comunicato diffuso poche ore dopo il voto, sembra che l’azienda di Torino voglia continuare la guerra con la Fiom: "La Fiat ha preso atto dell’impossibilità di trovare condivisione da parte di chi sta ostacolando, con argomentazioni dal nostro punto di vista pretestuose, il piano per il rilancio di Pomigliano".

Vuol forse dire il Lingotto che passerà direttamente al licenziamento o alla cassa integrazione degli iscritti alla Fiom? Sarebbe un modo per riprendere il cammino tracciato da Valletta; niente di nuovo, in fondo. La Fiat ha inaugurato i licenziamenti politici mirati quando Marchionne era ancora sui banchi dell’università. Allo stesso tempo, le politiche aggressive della Fiat hanno sempre prodotto un conflitto di classe tra i più alti d’Europa. Lo stabilimento di Pomigliano è intitolato a Giovan Battista Vico, lo storico napoletano dei “corsi e ricorsi”. Sarà un segno del destino?

 

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