di Ilvio Pannullo

Dopo Termini Imerese e dopo Pomigliano d’Arco, in casa Fiat è giunta l’ora della capitolazione anche per Mirafiori. Il cuore di quello che fu l’impero Fiat, acronimo per Fabbrica Italiana Automobili Torino, pare sia prossimo a fermarsi. Dopo aver infatti deciso unilateralmente l’abbandono della Sicilia, con l’infausta decisione di mettere in vendita lo stabilimento di Termini Imerese, nonostante il debito morale ma anche - se non soprattutto - economico che l’azienda torinese ha nei confronti dello Stato italiano; dopo l’ignobile ricatto tentato contro i lavoratori dello stabilimento di Pomigliano d’Arco, chiamati a scegliere tra i diritti costituzionalmente garantiti dal nostro ordinamento ed il lavoro, ecco l’ultimo affronto alla decenza.

L’ultimo - purtroppo solo in ordine di tempo - schiaffo alla dignità di un paese che sembra oramai capace di digerire tutto. La Fiat intenderebbe chiudere o comunque ridimensionare drasticamente lo stabilimento torinese di Mirafiori, per spostare strategicamente la produzione di autoveicoli in Serbia.

Il Presidente del Consiglio Berlusconi è puntualmente intervenuto, parlando della vicenda nel corso della conferenza stampa con il presidente russo, Dimitri Medvedev. Chiamato ad esprimere un giudizio sulla questione che sta ragionevolmente agitando le parti sociali, ha dichiarato che “in una libera economia e in un libero Stato un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione”. Salvo poi, con un salto logico degno del miglior Ponzio Pilato, precisare che il suo augurio è che “questo non accada a scapito dell’Italia e degli addetti cui la Fiat offre il lavoro”.

Un po’ come dire che se le regole esistono vanno rispettate, ma non ugualmente nei confronti di tutti i soggetti potenzialmente coinvolti. Ovviamente sono dichiarazioni di rito, di cui è possibile indagare il peso ed il reale valore solo se lette in concerto con quelle rese dal titolare del Ministero del Lavoro, quel Maurizio Sacconi tanto fedele al premier quanto strenuo oppositore di ogni forza sindacale degna di questo nome.

Ad affermare che esista un filo conduttore comune tra le recenti vicissitudini che hanno interessato l’azienda torinese, è infatti proprio il Ministro del Lavoro. Secondo Sacconi, il legame fondamentale sarebbe rappresentato da una ''buona utilizzazione degli impianti”, valutazione questa basata “soprattutto sulle relazioni industriali” . “Fiat - ha aggiunto il Ministro - cerca l'incentivo all'investimento nell'ambito di comportamenti sindacali cooperanti”.

Senza un sindacato piegato alle esigenze imposte dal dogma del mercato, un sindacato cioè pronto a soddisfare le volontà dell’amministratore della società anche quando queste contrastino apertamente con i diritti riconosciuti ai lavoratori dalla Costituzione, non si va - parrebbe di capire - da nessuna parte. La colpa non è dell’azienda che delocalizza e tanto meno del governo per definizione da sussidiario sempre attivissimo, ma del sindacato che non collabora. Con l’Italia che rischia così di perdere migliaia di posti di lavoro, sacrificati sull’altare della globalizzazione al dio della massimizzazione del profitto.

Il Ministro ha poi puntualizzato: “A noi quello che interessa è saturare gli impianti italiani e garantire buoni investimenti negli impianti italiani. Di questo discuteremo, nel frattempo noi lavoriamo per costruire. Capisco che per qualcuno possa essere difficile capirlo”. Ed è in effetti difficile capire quanto sta accadendo, soprattutto se ci si pone nella prospettiva di chi rischia di ritrovarsi senza quei pochi soldi che di certo non assicurano al lavoratore e alla sua famiglia di “vivere un’esistenza libera e dignitosa”, come previsto dall’articolo 36 della Carta Costituzionale. Soprattutto appare incomprensibile come il governo pensi di “saturare gli impianti italiani” se poi, come accaduto con Termini Imerese, questi chiudono o comunque vengono venduti. L’ennesimo mistero dell’era berlusconiana.

Ma non è una questione di campo: anche a sinistra, infatti, c'è chi guarda all'operazione portata avanti da Marchionne con reverenziale rispetto. Tra i tanti merita di essere segnalata la posizione di Piero Fassino, ex segretario dei democratici di sinistra, che ha consegnato a Marchionne la patente di socialdemocratico, e quando l'apolide di Chieti ha annunciato la chiusura dello stabilimento siciliano, gliel’ha solennemente confermata. "Nel momento in cui si verifica un processo di riorganizzazione così teso - ha dichiarato Fassino - può accadere che uno stabilimento non sia più considerato strategico. Sarebbe demagogico e propagandistico cambiare giudizio sulle scelte strategiche della Fiat".

Ecco dunque che di colpo la difesa del lavoro diventa demagogia e il lavoro di quanti si battono per vedere rispettati ed applicati i diritti di cui sono già formalmente titolari, diventa propaganda. Un bell'approdo, quello di Fassino, dopo una vita da dirigente di quello che fu "il partito dei lavoratori". Ma nell'ansia di compiacere, il lungagnone perde anche l'occasione per ipotizzare la presenza di un'idea una sul come dovrebbe essere organizzato il mondo del lavoro.

Se infatti è vero che i rapporti di lavoro non sono più paragonabili per quantità e qualità ai rapporti che intercorrevano tra datori di lavoro e lavoratori dal dopoguerra in poi, è anche vero che questa trasformazione è stata più subita che voluta. Il recente cambiamento che ha interessato i sistemi produttivi, reso possibile da un’innovazione tecnologica con il tempo diventata esponenziale e dai nuovi assetti organizzativi, ha imposto alla politica un ripensamento delle tutele a favore della forza lavoro.

Una forza lavoro che veniva obbligata a vendersi per salari sempre meno dignitosi, sempre più scarni, del tutto incapaci di rappresentare la contro prestazione rispetto a quello che nel nostro ordinamento è considerato un dovere per ogni cittadino: svolgere cioè, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che - nella speranza dei Costituenti - doveva concorrere al progresso materiale o spirituale della società.

Purtroppo però, anche a sinistra, sembra che l’asticella dello scontro sia stata vergognosamente abbassata. Si è passati dalla difesa dei diritti al dialogo con la maggioranza per una revisione degli stessi. Dalla richiesta perentoria del rispetto della dignità del lavoratore all’introduzione di una qualche forma di tutela per i lavoratori atipici. E se altrove i governi fanno l’impossibile per garantire l’occupazione e per evitare una ricollocazione internazionale degli stessi impianti produttivi, in Europa gli Stati membri combattono bendati i paesi orientali loro concorrenti, non potendo in alcun modo intervenire per evitare che il rispetto della libera concorrenza produca danni irreparabili per il futuro del nostro continente.

Presto infatti l’Europa sarà chiamata ad una scelta: o rinunciare ai dogmi della globalizzazione o rinunciare alla possibilità di una concreta attuazione di quei diritti sociali così tanto perentoriamente riaffermati nel Trattato di Nizza firmato nel 2000. Sono passati appena dieci anni e su questa battaglia si gioca il futuro delle nuove generazioni.   

di Mario Braconi

La pubblicazione del Rapporto 2010 dell’INAIL mostra una fotografia del fenomeno infortunistico in Italia che induce ad un cauto ottimismo: nel 2009 si è infatti ridotto in modo significativo il numero degli infortuni in generale (-9,7%) ed in particolare di quelli mortali (-7,5%). Ovviamente, il numero grezzo non tiene conto della situazione di crisi acuta in cui versava allora l’economia italiana.

Considerando che, secondo l’ISTAT nel 2009 si è registrato un calo degli occupati pari allo 1,6% e che sono state contestualmente ridotte le ore lavorate pro-capite delle persone ancora presenti sul mercato (-1,4%), si può concludere che in quell’anno mediamente si è lavorato il 3% in meno, il che vuol dire che si sono parimenti ridotte di probabilità di rimanere coinvolti in un incidente sul lavoro. Se si aggiusta il numero degli infortuni con l’effetto della diminuita probabilità dell’evento dannoso, il calo del 9,7% viene ridimensionato ad un 7%.

Questa puntualizzazione, per quanto doverosa, non esclude che il nostro Paese abbia conseguito dei risultati importanti (nel 2009 sono deceduti 70 lavoratori in meno rispetto all’anno precedente e si sono “risparmiati” ben 85.000 incidenti) e a voler essere ottimisti a tutti i costi, questa è una buona notizia. Si tratta, ovviamente, di statistiche che si riferiscono ai sinistri denunciati e che nulla dicono sui casi di lavoratori in nero o che per motivi vari (irregolarità della loro posizione, anche dal punto di vista delle leggi sull’immigrazione, ricatti del “padrone”, eccetera) si consumano e forse anche muoiono nel silenzio.

E’ soddisfatto Marco Sartori, Presidente dell’Istituto, mentre snocciola dati di cui il Ministro del Welfare Sacconi si appropria seduta stante, tentando di segnare un punto a favore dell’ormai indifendibile governo Berlusconi, affondato dal piglio autoritario del suo Capo Supremo, da spaccature interne e dalla corruzione talmente radicata da rendere necessario il bavaglio sulla stampa. “Non siamo il peggior Paese al mondo, come a volte si dice con una enfasi che non aiuta”, protesta il Ministro, annunciando una campagna di sensibilizzazione sul tema da ben venti milioni di Euro, promettendo un piano straordinario di ispezioni nel settore edile e auspicando la “collaborazione” di Carabinieri e Guardia di Finanza (ma non é scontata?).

Nulla da dire, perché i miglioramenti di standard di sicurezza sul lavoro si perseguono marciando su due gambe, ugualmente importanti: la sensibilizzazione culturale (si ricordi ad esempio l’impatto sull’immaginario collettivo delle immagini degli operai privi di presidi di sicurezza al lavoro presso la Camera dei Deputati, proposte dal programma Le Iene) e la drastica repressione delle irregolarità. Se non fosse per il piccolo particolare che tra le tante spese finite a giugno sotto l’implacabile forbice tremontiana vi siano, guarda caso, proprio 10 milioni di euro (in tre anni) originariamente destinati alle “spese per la promozione della cultura e delle azioni di prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro”... Ennesimo caso di schizofrenia governativa.

Nell’attribuire all’Italia un ipotetico primato, Sartori, prontamente seguito da Sacconi, cita i dati EUROSTAT relativi ai tassi standardizzati di incidenza (o SIR, Standard Incidence Rate) degli infortuni sul lavoro (che peraltro si fermano al 2007, e quindi a rigore non sono confrontabili con quelli pubblicati dal Rapporto INAIL). Effettivamente, il SIR italiano riferito agli incidenti in generale è migliore rispetto a quello di diversi importanti Paesi europei e della media europea (a 15 Stati): 2.674 casi su 100.000, contro i 3.125, 3.975, 4.691 e 3.279 registrati, rispettivamente, in Germania, Francia, Spagna, e, mediamente, nell’area europea, a 15.

Tuttavia, se si analizzano le tabelle relative agli incidenti mortali sul lavoro, la situazione è ben diversa: il SIR dei decessi sul lavoro in Italia è pari a 2,5 casi su 100.000, dato che si confronta con risultati degli altri Paesi (anche significativamente) migliori: Spagna 2,3, Francia 2,2, Germania 1,8, media europea 2,1. In sostanza, sembra che in Italia si verifichino mediamente meno incidenti, anche se di solito essi tendono ad essere più frequentemente letali rispetto a quanto accade in altri Paesi europei. Pur senza disconoscere i progressi conseguiti negli anni, non sembra una situazione di cui andare fieri.

Il tutto senza considerare che vi sono tre Paesi (Irlanda, Gran Bretagna e Svezia) che in tutte e due le statistiche hanno livelli tali da far vergognare gli altri Paesi europei: essi mostrano SIR degli incidenti compresi tra 1.000 e 1.500 (2.674 in Italia) e SIR dei decessi compresi tra 1,3 e 1,7 (2,5 in Italia). Anziché gloriarsi dei (modesti) successi conseguiti, enfatizzando i dati comodi e rimuovendo quelli sgraditi, meglio farebbero i nostri burocrati e i nostri politici a studiare con attenzione che cosa accade in altri Paesi che fanno più seriamente uno dei pochi mestieri che giustificano la presenza di uno stato - salvare la pelle ai suoi cittadini / contribuenti.

di Rosa Ana de Santis

La notizia arriva da Alba Adriatica, ma non è un caso isolato. I terremotati, che da mesi erano accolti negli alberghi, se ne dovranno andare. Sono soprattutto anziani e le loro valigie sono già fuori dalla porta. Terminato il periodo gestito dalla Protezione Civile e passate le competenze alla Regione Abruzzo, i pagamenti sono saltati e gli albergatori dicono chiaramente che non vivono di solidarietà.

La pagina della ricostruzione, costellata di buone intenzioni e di suggestioni di solidarietà, già da tempo scricchiola nelle cronache. I terremotati d’Abruzzo lamentano una modalità di ricostruzione a partecipazione “zero” che gli ha impedito di riappropriarsi della terra e delle città.

Sono venuti a Roma a dirlo, ma come risposta hanno avuto le manganellate della polizia. E poi gli scandali del macabro business dell’emergenza che hanno travolto la Protezione Civile. E ora l’incredibile epilogo degli sfollati. Le strutture ricettive non hanno più risorse per mantenere queste persone e chiedono che la questione torni alle Istituzioni.

I tempi in cui il premier apriva i cancelli di Arcore per qualche scatto fotografico con gli abruzzesi ospitati a pranzo sono lontani, nel tempo e nella memoria. L’Abruzzo non è più strategico e parlarne, per Berlusconi, significherebbe solo disseppellire problemi e punti oscuri. Non è più in agenda. Ci pensi la Regione. Da subito fu proprio il Presidente della Regione, Giovanni Chiodi, ad evidenziare i punti critici del piano C.A.S.E. del governo che, succhiando tanti soldi per nuove costruzioni, ne toglieva altrettanti alla rimozione delle macerie e alle messa in sicurezza di altri alloggi, partendo da stime frettolose e poco attendibili.

La fretta di ricostruire davanti alle telecamere ha lasciato per strada tantissime persone, i loro paesi e la città de L’Aquila. Sono state ricostruite città fantasma e sono stati lasciati i fantasmi nelle città di un tempo. Difficile che Vespa riproponga ora un plastico con i terremotati fuori dagli alberghi, meno che mai con il sultano che profferisce le sue promesse elettorali.

Era il 7 aprile 2009 e lui, il premier ottimista, aveva invitato gli abruzzesi a superare il momento delle lacrime. Pillole di speranza per tutti e incoraggiamento. Era in mezzo a loro, in maniche corte e caschetto da vigile del fuoco. Era il tempo dei bagni di folla. “ Andate al mare” - aveva detto - paghiamo tutto noi: avete l’assistenza di tutti gli italiani” , “mettetevi la crema solare” era stato il vertice del cattivo gusto di una fiction che gli era tanto utile. E poi ancora “metterò a disposizione tre mie case per gli sfollati”. Quella gente negli alberghi c’è andata, a sopravvivere alla distruzione. E ora, a luci spente, le promesse sono terminate e nessuno sta pagando il conto.

Dove andranno gli anziani di Alba Adriatica e tutti gli altri che stanno sul mare? Li metterà ad Arcore, negli studi di Mediaset o magari gli verrà in mente di farci un reality? La Regione non ce la fa e, al momento, il governo se ne sta nascosto dietro ai paletti delle competenze, dimenticando promesse e annunci. Una ritirata quasi grottesca, che non può passare inosservata e che rende ancora più amaro e incomprensibile il risultato che è uscito dalle urne, nelle ultime elezioni regionali.

La vittoria del Pdl alla Provincia dell’Aquila è stata la mossa perfetta dello stratega dell’ottimismo e gli abruzzesi hanno creduto alle promesse. Berlusconi ha ottenuto, fino alla fine, tutto quello che era possibile conquistare con la propaganda. Per questo oggi gli alberghi dovrebbero presentare il conto alla Protezione Civile o direttamente al padrone di casa che ama impegnarsi in prima persona. Pagasse lui per gli sfollati del mare. Un colpaccio per un premier la cui fiducia è ai minimi dall’inizio della legislatura.

di Mariavittoria Orsolato

Erano anni che non si vedeva un’estate così calda per la politica italiana. La legge bavaglio da discutere e votare, l’indagine che pare aver svelato i volti della nuova massoneria (ribattezzata P3 per la scarsa fantasia dei cronisti) e, infine, la maxi operazione condotta dalle forze dell’Ordine tra Reggio Calabria e Milano, con una serie di blitz che hanno portato all’arresto di oltre 300 persone riconducibili alla ‘ndrangheta.

Sul piatto della cronaca sono questi tre gli argomenti a tenere banco nell’afosa e solitamente letargica estate: i luoghi e i tempi sono sicuramente eterogenei ma già in molti vedono un fils rouge nel gioco di volti e rimandi che questi tre spezzati del quotidiano italiano ci offrono. Seguendo il ragionamento deduttivo, parrebbe che questa “sfortunata serie di eventi” corrisponda ad una sorta di big bang per la maggioranza: il Governo e i suoi esponenti, sempre più in bilico nel continuo duello tra Berlusconi e Fini, si ritrovano nuovamente al centro delle cronache giudiziarie.

Stavolta per connivenze ed implicazioni con settori del substrato malavitoso e la battaglia serratissima per il ddl sulle intercettazioni sembra dover diventare il cavallo di Troia capace di detronizzare il “Cesare” sempre più braccato dai congiurati di ala finiana e sempre più imbarazzato dagli scandali dei suoi. Ma andiamo per ordine.

In questi giorni un’inchiesta nata da una costola dell’indagine sull’eolico in Sardegna, ha portato alla luce quella che parrebbe essere la naturale continuazione della loggia messa in piedi dal “muratore venerabile” Licio Gelli. Al centro i nomi di importanti esponenti della maggioranza quali il coordinatore Pdl Denis Verdini, l’ormai ex sottosegretario all’economia Nicola Cosentino, l’immancabile - quando si tratta di reati penalmente perseguibili - senatore Dell’Utri e il sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo.

Per il Presidente del Consiglio “solo quattro sfigati”, per i magistrati romani invece personalità che grazie al loro ruolo politico “sviluppavano una fitta rete di conoscenze nei settori della magistratura e della politica, da sfruttare per i fini segreti del sodalizio”. I fini in realtà non sono poi così segreti,  dal momento che, almeno a quanto dicono gli atti, l’obiettivo di questa nuova “congrega” era esclusivamente quello di fare soldi a palate nel modo più semplice e veloce, in vece di quel clientelismo che dal tempo degli antichi romani è endemico e praticamente indebellabile nella nostra penisola.

Per raggiungere lo scopo si sarebbero serviti dell’attività di un'associazione culturale, il “Centro Studi giuridici per l'integrazione europea Diritti e Libertà”, gestita da Pasquale Lombardi (ex esponente della Dc campana) e da Arcangelo Martino (un imprenditore partenopeo). Il tutto con la regia occulta di Flavio Carboni, anch’esso imprenditore noto alle cronache soprattutto per il suo ruolo in quelli che ancora oggi sono da considerare misteri italiani. I tre sono stati già sottoposti a custodia cautelare grazie alle intercettazioni, ma secondo il Gip Giovanni De Donato gli arresti potrebbero essere stati molti di più.

A maggior ragione, dal Governo si spinge per accelerare il disegno di legge sulle intercettazioni, che ad oggi si trova sul groppone oltre 600 emendamenti - 400 solo quelli presentati dal Pd - in discussione il prossimo martedì. Modifiche importanti, a partire da quella di Giulia Buongiorno, relatrice della legge bavaglio insieme all’onorevole ghostwriter Ghedini, che elimina la responsabilità giuridica per gli editori qualora un giornalista pubblichi intercettazioni ancora segrete, e ridimensiona la definizione di “luogo privato” in cui poter piazzare apparecchiature di rilevamento, riportandola a quella originaria di “privata dimora”: se infatti nella prima stesura gli ascolti ambientali carpiti in auto o in ufficio erano assolutamente vietati in nome della privacy, con l’emendamento della Buongiorno la pratica sarà nuovamente legale.

Di sicuro rilevo anche il venir meno della barriera della durata “breve” degli ascolti: per i crimini non gravi ci sarà sempre il tetto dei 75 giorni, ma esso potrà essere superato con proroghe progressive di 15 giorni in 15 giorni, qualora dalle telefonate emerga che ci sono indizi da perseguire per raggiungere il colpevole. Nel caso in cui gli emendamenti dovessero passare, la legge bavaglio, pur rimanendo tale per i giornalisti, darebbe almeno un po’ più di respiro a magistrati e polizia per quanto concerne le indagini vere e proprie.

In questo intenso mosaico di avvenimenti politici e giuridici, la maxi operazione che le forze dell’ordine e i magistrati hanno scatenato contro la ‘ndrangheta è forse il tassello meno evidente ma di certo significativo. Dagli atti si carpisce infatti come la ‘ndrangheta fosse riuscita nell’intento di infiltrarsi nei sancta santorum dei palazzinari lombardi, puntando decisa verso l’assegnazione coattata di appalti per l’Expo milanese del 2015.

Sono 304 le persone arrestate tra cui spiccano, come ormai d’uso, nomi eccellenti della politica lombarda come quello del deputato Pdl Giancarlo Abelli, aiutato nell’elezione ( secondo la migliore tradizione, “a sua insaputa”) dai voti convogliati grazie a Pino Nieri, presunto capo indiscusso della ‘ndragheta in Lombardia.

Insomma, l’estate della politica italiana si annuncia caldissima e in questo walzer di scandali, dimissioni e colpi di scena - come potrebbero essere le elezioni anticipate - l’unica certezza pare essere l’impotenza del premier: un Cesare che, se prima reagiva attaccando rabbioso e proteggendo i sodali con le unghie e con i denti, ora si ritrova a dover lasciare i suoi feriti sul campo e ad ammettere implicitamente che ormai, gli obbrobri consumatisi all’interno del suo emiciclo, non sono più difendibili.

 

di Rosa Ana de Santis

Si corre il rischio di incontrarli a Portofino o a Taormina. A bordo di yacht o in lussuose ville prese in affitto a Porto Cervo. Sono prestanome, nullatenenti e finti indigenti che sfuggono al controllo dello Stato. Un sistema fiscale, il nostro, pieno di buchi da cui scappa in modo cronico il Paese degli affari fantasma. Quelli nati dall’evasione, dall’elusione fiscale o dalla truffa vera e propria. Il buco è di 100 miliardi l’anno di mancati incassi.

Una cifra che diventa ancora più ingiusta nel panorama della crisi economica generale che ci ha colpiti e la cui soluzione tempestiva è stata chiesta proprio al ceto medio, ai dipendenti e alle famiglie. Le più tassate e le più abbandonate dal welfare. Un capolavoro d’iniquità.

La manovra finanziaria promossa dal governo, i ricchi delle ville in Sardegna, quelli delle società che sono scatole vuote, o dei bilanci in perdita fallimentari, proprio non li vede, anzi. Li perdona e li condona. E la chimera di veder rientrare l’imponibile nelle mani del Fisco è rimasta tale. Gli evasori non si pentono e continuano a rastrellare affari su affari in modo illegale, in attesa del prossimo condono o dell’ultimo scudo fiscale. Quello che alle loro tasche costerà sempre meno delle tasse ordinarie.

Inutile dire che a mancare è la cultura della legalità e che a contraddistinguere l’economia italiana è un modo preciso di fare impresa che normalizza l’aggiramento delle regole e che tollera la prossimità con l’inciucio, quando va bene. Il governo ha dato prova, in diverse occasioni, di volere questa forma di deregulation per le imprese e gli affari e di non vederne né un pericolo né  un’insidia per la giustizia sociale e per la legalità dell’intero Paese.

Depenalizzando il falso in bilancio, istituendo norme contro i lavoratori come l’arbitrato e lanciando la proposta di aprire un’azienda in un giorno, si stanno costruendo i presupposti per non uscire più da questa cancrena del sommerso e della contaminazione dell’economia con l’illegalità e con la criminalità.

Eppure Berlusconi, che di questa allergia alle regole fa la sua bandiera, porta a casa anche i voti dei tartassati. Perché se con i ricchi e con gli affari illeciti funziona la regola delle convenienza, con le fasce deboli funziona la strategia della propaganda. Quella che spopola in tv con la medicina delle social card o dell’ICI - solo per citare alcuni esempi- e che non dice di aver tolto alle famiglie tanti preziosi servizi come gli asili nido pubblici o il tempo pieno a causa di scuole sempre più povere.

Cosi le mamme, a parte la Ministro Gelmini, possono starsene a casa, rinunciare al lavoro e adattarsi ad una faticosa vita monoreddito, decidendo infine di non avere più figli. Ancora una volta i meno ricchi, gli affittuari, hanno pagato il prezzo del privilegio riservato ai benestanti proprietari di un immobile.

La manovra fiscale aggira la scandalosa falla dell’evasione. Per la nostra marea nera non sono previste misure d’intervento, nemmeno straordinario. Tanto il conto dell’emorragia lo pagano i dipendenti e le fasce sociali più deboli. Esattamente come i falsi invalidi li pagheranno i veri invalidi, che vedranno le loro pensioni decurtate mentre commissioni finte regaleranno oboli di illegalità per alimentare simil ammortizzatori sociali "fai da te".

Questo è il ritratto di un Paese al rovescio. Dove nessuno è ricco e dove i finti poveri vivono di lusso. Non si vuole estirpare il danno dell’evasione, perché lì sta lo zoccolo duro che muove i soldi e il potere delle upper class corrotte. I fantasmi del fisco sono le icone della corruzione che ci rincorre in giro per il mondo. E sono quelli che non avrebbero il diritto di entrare mai in una scuola o in un ospedale pubblico italiano. Andassero in Svizzera o a Montecarlo, dove hanno scelto di custodire a nero i neri risparmi di una vita.


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