di Mariavittoria Orsolato

E’ un Pdl alla resa dei conti quello che sta animando le cronache politiche di questi ultimi giorni. Il divorzio tra l’ala finiana è i fedelissimi del premier non è più un’ipotesi ventilabile, ma una realtà  cui manca solo il suggello definitivo. Il gotha del Popolo delle Libertà, riunito in summit a palazzo Grazioli ha decretato la sua fumata nera sull’offerta di tregua che Fini ha affidato al Foglio: “Resettiamo tutto e fermiamo le tifoserie”, questo il messaggio distensivo del presidente della Camera.

Probabilmente perché il capo non era abbastanza coperto di cenere, nella notte di ieri lo stato maggiore dei berluscones - composto dai tre coordinatori nazionali Bondi, Verdini e La Russa, dai capigruppo alle Camere Gasparri e Cicchitto e dall’immancabile Quagliariello - ha decretato la sospensione per un periodo da tre a sei mesi dei “ribelli” finiani. Non c’è quindi l’espulsione paventata fino a qualche giorno fa e fortemente voluta da Berlusconi, ma solo una “dura censura” che l’articolo 48 dello statuto del Pdl prevede in seno alle risoluzioni dei conflitti interni. Poi si vedrà.

Stando alle indiscrezioni sarebbero ormai venute a mancare le condizioni per rimanere nello stesso schieramento e perciò la “scomunica” è da addebitare esclusivamente al discostamento politico che negli ultimi mesi ha caratterizzato l’atteggiamento dei tre irriducibili Bocchino, Briguglia e Granata. Se però questi ultimi sono da considerasi outsider a tutti gli effetti, sono già 33 i deputati vicini a Fini a voler seguire la sorte (buona o cattiva, de gustibus) dei colleghi di scranno: ad ascoltare le voci provenienti da Montecitorio, c’è già un documento pronto in cui si fa esplicita richiesta per la costituzione di un nuovo gruppo parlamentare.

Ma il desiderio della brigata finiana, nel momento in cui si concretizzasse nello scisma tanto auspicato da entrambe le parti, rischia di creare ben più di un grattacapo a Berlusconi e i suoi. Allo stato attuale la maggioranza di governo è di 341 deputati e 175 senatori a fronte di una maggioranza necessaria, rispettivamente di 316 a Montecitorio e 162 a palazzo Madama. L’ala finiana alla Camera può contare, ad oggi, su 33 deputati: Bocchino, Briguglio, Granata, Raisi, Barbareschi, Proietti, Divella, Buonfiglio, Barbaro, Siliquini, Perina, Angela Napoli, Bellotti, Di Biagio, Lo Presti, Scalia, Conte, Della Vedova, Urso, Tremaglia, Bongiorno, Paglia, Lamorte, Rubens, Menia, Angeli, Ronchi, Moffa, Cosenza, Patarino. A palazzo Madama invece la terza carica dello Stato ha dalla sua almeno una quindicina di senatori.

I numeri per dare vita ad un gruppo autonomo ci sono tutti ed in entrambe le sedi una scissione degli ex An farebbe precipitare i numeri della maggioranza, costringendo il Governo a boccheggiare praticamente su ogni provvedimento da varare. Com’è ovvio il Premier sta già corteggiando nuove comparse provenienti dall’Mpa, dai Liberaldemocratici, dai Repubblicani e dagli autonomisti. Si vocifera che al momento le conquiste del tombeur Silvio siano a quota 5, una cifra comunque insufficiente ad affrontare in sede di votazione la fronda finiana.

Tutto sembra remare contro la longevità istituzionale di Berlusconi e della sua quarta performance governativa: se meno di due settimane fa l’esasperazione e l’insofferenza verso i ribelli  “embedded” aveva spinto a dichiarazioni poco caute e ancor meno lucide sulla possibilità di elezioni anticipate a settembre, il piglio deciso di padron’ Silvio sembra prospettare ora una soluzione diversa. In sedici anni di sopravvivenza giudiziaria il nostro ha dalla sua un cinismo ed un’arguzia che, seppur adombrate dalle modalità illecite con cui vengono praticati, potrebbero portare ad una conclusione ben diversa dalla morte politica che ormai in troppi gli augurano.

In questo momento il Paese si trova in momento di poca lucidità e completo spaesamento di fronte all’inesorabile concatenarsi di scandali politici, economici e sociali - la nuova P2 dei quattro sfigati, tra cui figura anche il coordinatore Verdini, ne è solo l’ultimo e più eclatante esempio - eppure “la massa” appare catatonica, incapace di reagire e far sussultare i cardini di un potere deleterio e apparentemente inesauribile. Se il divorzio da Fini è necessario per Berlusconi, é perché il presidente della Camera, seppur con molto ritardo, si è accorto della deriva che la sua maggioranza sta inevitabilmente imboccando nei confronti del Paese. Come giustamente ha affermato Italo Bocchino in una recente intervista, “la differenza tra Berlusconi e Fini è quel senso di responsabilità che discerne lo statista dal politicante”.

Fini ha dimostrato di aver preso molto sul serio la sua carica e ad ha agito di conseguenza, nel rispetto di quel comandamento istituzionale che impone alle cariche dello Stato l’imparzialità e il senso critico, necessari a mitigare lo scontro politico. Il suo è un richiamo all’etica, alla trasparenza e a lavorare per i problemi del paese, che di certo non sono le intercettazioni telefoniche né tanto meno gli scudi giudiziari per gli “amici di”.

Un contraltare così ingombrante, e per giunta in casa, è ovvio che abbia mandato fuori dai gangheri il premier e le sue velleità da ducetto. La separazione, a questo punto, è un’obbligo; resta da vedere se sarà consensuale o se quella a cui stiamo assistendo si rivelerà a breve un capolavoro di sgambetti come nella migliore “guerra dei Roses”.

 

di Rosa Ana de Santis

Oltre 90 mila documenti top secret sono finiti nelle mani di tutti e la rete dei rapporti e delle operazioni di intelligence sullo sfondo della guerra dell’oppio è sempre più chiara. Wikileak, il sito della clamorosa fuga di notizie, ha sgombrato il campo della retorica politica dalla teoria della guerra necessaria o dalla versione italiana e tutta televisiva della pace armata. La guerra della tv ha svelato i suoi cadaveri nascosti. Le operazioni militari mai raccontate, i dossier scomodi, le liberazioni osteggiate e le stragi taciute. Molti i documenti che riguardano casa nostra.

Obama rilancia con la consueta strategia della paura nazionale, diffonde l’allarme per la minaccia che ora incombe sulla sicurezza degli americani, mentre il Pentagono prepara la maxi inchiesta. Ancora più difficile spiegare questo lato marcio della guerra in Afghanistan in Italia, dove l’occupazione militare è passata alla cronaca ufficiale esclusivamente come operazione di difesa.

L’intolleranza popolare al sacrificio dei nostri caduti non è troppo lontana dalla denuncia della morte ingiusta degli innocenti afghani. Questa guerra è per tutti, qui, un orrore insopportabile, ma necessario. Non c’è ardore nazionale, né patriottismo all’americana ad alimentarne la difesa. E’ questo forse a spiegare il nervosismo che il nostro Ministro della Difesa ha spesso trattenuto a fatica, anche davanti alle telecamere, a chiunque gli ricordasse quanto lunga e penosa fosse la conta dei morti. Da tutte le parti.

La prima bugia è quella dei militari e dei rinforzi inviati. Non andava detto pubblicamente, questa la condizione posta dall’Italia, ma dovevano aumentare. E poi la lista degli incidenti, delle stragi e della propaganda di cui non abbiamo letto da nessuna parte. Il caso più clamoroso, tra i dossier svelati, è quello del rapimento del giornalista Daniele Mastrogiacomo. Una liberazione voluta a tutti i costi dal governo e considerata un pericoloso precedente dal governo estone per lo scambio che l’Italia decise di fare con i prigionieri talebani, utilizzando come mediatore Rahmatullah Hanefi, manager dell’ospedale di Emergency a Lashkar Gah, subito dopo arrestato. Compaiono inoltre numerosi casi documentati di incidenti, finora ignoti, avvenuti nella provincia di Herat durante le operazioni militari di routine delle nostre truppe.

Esce molto rafforzata, invece, l’immagine di Emergency. L’unica ad aver sempre raccontato la guerra in Afghanistan tutta intera, senza censure. Una Ong, come si legge nelle carte, divenuta insopportabile per gli americani. Così Gino Strada, il suo fondatore, il pacifista ingenuo dalla dialettica poetica, diventa l’icona della denuncia della vera guerra. Di quella più cruda e più spietata. Quella che non abbiamo visto, né letto. Processi sommari a qualsiasi talebano, uccisioni di massa, collaborazioni scomode tra servizi segreti pakistani e talebani, distruzione di mine italiane affinché non cadessero in mani talebane. Mine, proprio loro. Dopo anni di messa al bando tornano nella semina della morte e della mutilazione. Quella che i medici di Gino Strada guardano in faccia ogni giorno.

Wikileak assicura che non sono a rischio i paesi coinvolti o le loro truppe. Non sono state svelate posizioni e riferimenti sul territorio. Ma il piatto della guerra giusta è avvelenato. E il danno agli interessi sporchi che vi sono dietro, forse, è ben più grave. Il pericolo è una guerra che non doveva cominciare e che deve rapidamente finire. Una guera che incombe anche su tutti i morti senza divisa che avremo ancora e che ancora saranno seppelliti di notte, al riparo delle nostre coscienze.

Al nostro Ministro della Difesa spetterebbe il compito di accompagnare le sue dimissioni con due parole di spiegazione che tolgano il disturbo dell’imbarazzo televisivo finora dissimulato. Va detto agli italiani che siamo andati in guerra. Un conflitto che non è più pulito di altri, che è marcio negli scopi e che si nutre della solita propaganda di guerra. Che manda a morire i “nostri ragazzi” come li chiama il Ministro negli spot, sapendo benissimo di non mandarli in alcuna missione di pace. Una guerra che non risparmia donne e bambini, che non conosce e riconosce divise e nemici, ma che è lì per conquistare tutto. Dalla terra al cielo. Una razzìa che non ci rende più buoni o meno colpevoli degli altri. Le nostre mine e i nostri fucili uccidono come quelli di tutti. Solo che finora non lo abbiamo raccontato a nessuno. E un fatto non raccontato, semplicemente sembrava non fosse accaduto.

di Ilvio Pannullo

Dopo Termini Imerese e dopo Pomigliano d’Arco, in casa Fiat è giunta l’ora della capitolazione anche per Mirafiori. Il cuore di quello che fu l’impero Fiat, acronimo per Fabbrica Italiana Automobili Torino, pare sia prossimo a fermarsi. Dopo aver infatti deciso unilateralmente l’abbandono della Sicilia, con l’infausta decisione di mettere in vendita lo stabilimento di Termini Imerese, nonostante il debito morale ma anche - se non soprattutto - economico che l’azienda torinese ha nei confronti dello Stato italiano; dopo l’ignobile ricatto tentato contro i lavoratori dello stabilimento di Pomigliano d’Arco, chiamati a scegliere tra i diritti costituzionalmente garantiti dal nostro ordinamento ed il lavoro, ecco l’ultimo affronto alla decenza.

L’ultimo - purtroppo solo in ordine di tempo - schiaffo alla dignità di un paese che sembra oramai capace di digerire tutto. La Fiat intenderebbe chiudere o comunque ridimensionare drasticamente lo stabilimento torinese di Mirafiori, per spostare strategicamente la produzione di autoveicoli in Serbia.

Il Presidente del Consiglio Berlusconi è puntualmente intervenuto, parlando della vicenda nel corso della conferenza stampa con il presidente russo, Dimitri Medvedev. Chiamato ad esprimere un giudizio sulla questione che sta ragionevolmente agitando le parti sociali, ha dichiarato che “in una libera economia e in un libero Stato un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione”. Salvo poi, con un salto logico degno del miglior Ponzio Pilato, precisare che il suo augurio è che “questo non accada a scapito dell’Italia e degli addetti cui la Fiat offre il lavoro”.

Un po’ come dire che se le regole esistono vanno rispettate, ma non ugualmente nei confronti di tutti i soggetti potenzialmente coinvolti. Ovviamente sono dichiarazioni di rito, di cui è possibile indagare il peso ed il reale valore solo se lette in concerto con quelle rese dal titolare del Ministero del Lavoro, quel Maurizio Sacconi tanto fedele al premier quanto strenuo oppositore di ogni forza sindacale degna di questo nome.

Ad affermare che esista un filo conduttore comune tra le recenti vicissitudini che hanno interessato l’azienda torinese, è infatti proprio il Ministro del Lavoro. Secondo Sacconi, il legame fondamentale sarebbe rappresentato da una ''buona utilizzazione degli impianti”, valutazione questa basata “soprattutto sulle relazioni industriali” . “Fiat - ha aggiunto il Ministro - cerca l'incentivo all'investimento nell'ambito di comportamenti sindacali cooperanti”.

Senza un sindacato piegato alle esigenze imposte dal dogma del mercato, un sindacato cioè pronto a soddisfare le volontà dell’amministratore della società anche quando queste contrastino apertamente con i diritti riconosciuti ai lavoratori dalla Costituzione, non si va - parrebbe di capire - da nessuna parte. La colpa non è dell’azienda che delocalizza e tanto meno del governo per definizione da sussidiario sempre attivissimo, ma del sindacato che non collabora. Con l’Italia che rischia così di perdere migliaia di posti di lavoro, sacrificati sull’altare della globalizzazione al dio della massimizzazione del profitto.

Il Ministro ha poi puntualizzato: “A noi quello che interessa è saturare gli impianti italiani e garantire buoni investimenti negli impianti italiani. Di questo discuteremo, nel frattempo noi lavoriamo per costruire. Capisco che per qualcuno possa essere difficile capirlo”. Ed è in effetti difficile capire quanto sta accadendo, soprattutto se ci si pone nella prospettiva di chi rischia di ritrovarsi senza quei pochi soldi che di certo non assicurano al lavoratore e alla sua famiglia di “vivere un’esistenza libera e dignitosa”, come previsto dall’articolo 36 della Carta Costituzionale. Soprattutto appare incomprensibile come il governo pensi di “saturare gli impianti italiani” se poi, come accaduto con Termini Imerese, questi chiudono o comunque vengono venduti. L’ennesimo mistero dell’era berlusconiana.

Ma non è una questione di campo: anche a sinistra, infatti, c'è chi guarda all'operazione portata avanti da Marchionne con reverenziale rispetto. Tra i tanti merita di essere segnalata la posizione di Piero Fassino, ex segretario dei democratici di sinistra, che ha consegnato a Marchionne la patente di socialdemocratico, e quando l'apolide di Chieti ha annunciato la chiusura dello stabilimento siciliano, gliel’ha solennemente confermata. "Nel momento in cui si verifica un processo di riorganizzazione così teso - ha dichiarato Fassino - può accadere che uno stabilimento non sia più considerato strategico. Sarebbe demagogico e propagandistico cambiare giudizio sulle scelte strategiche della Fiat".

Ecco dunque che di colpo la difesa del lavoro diventa demagogia e il lavoro di quanti si battono per vedere rispettati ed applicati i diritti di cui sono già formalmente titolari, diventa propaganda. Un bell'approdo, quello di Fassino, dopo una vita da dirigente di quello che fu "il partito dei lavoratori". Ma nell'ansia di compiacere, il lungagnone perde anche l'occasione per ipotizzare la presenza di un'idea una sul come dovrebbe essere organizzato il mondo del lavoro.

Se infatti è vero che i rapporti di lavoro non sono più paragonabili per quantità e qualità ai rapporti che intercorrevano tra datori di lavoro e lavoratori dal dopoguerra in poi, è anche vero che questa trasformazione è stata più subita che voluta. Il recente cambiamento che ha interessato i sistemi produttivi, reso possibile da un’innovazione tecnologica con il tempo diventata esponenziale e dai nuovi assetti organizzativi, ha imposto alla politica un ripensamento delle tutele a favore della forza lavoro.

Una forza lavoro che veniva obbligata a vendersi per salari sempre meno dignitosi, sempre più scarni, del tutto incapaci di rappresentare la contro prestazione rispetto a quello che nel nostro ordinamento è considerato un dovere per ogni cittadino: svolgere cioè, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che - nella speranza dei Costituenti - doveva concorrere al progresso materiale o spirituale della società.

Purtroppo però, anche a sinistra, sembra che l’asticella dello scontro sia stata vergognosamente abbassata. Si è passati dalla difesa dei diritti al dialogo con la maggioranza per una revisione degli stessi. Dalla richiesta perentoria del rispetto della dignità del lavoratore all’introduzione di una qualche forma di tutela per i lavoratori atipici. E se altrove i governi fanno l’impossibile per garantire l’occupazione e per evitare una ricollocazione internazionale degli stessi impianti produttivi, in Europa gli Stati membri combattono bendati i paesi orientali loro concorrenti, non potendo in alcun modo intervenire per evitare che il rispetto della libera concorrenza produca danni irreparabili per il futuro del nostro continente.

Presto infatti l’Europa sarà chiamata ad una scelta: o rinunciare ai dogmi della globalizzazione o rinunciare alla possibilità di una concreta attuazione di quei diritti sociali così tanto perentoriamente riaffermati nel Trattato di Nizza firmato nel 2000. Sono passati appena dieci anni e su questa battaglia si gioca il futuro delle nuove generazioni.   

di Mario Braconi

La pubblicazione del Rapporto 2010 dell’INAIL mostra una fotografia del fenomeno infortunistico in Italia che induce ad un cauto ottimismo: nel 2009 si è infatti ridotto in modo significativo il numero degli infortuni in generale (-9,7%) ed in particolare di quelli mortali (-7,5%). Ovviamente, il numero grezzo non tiene conto della situazione di crisi acuta in cui versava allora l’economia italiana.

Considerando che, secondo l’ISTAT nel 2009 si è registrato un calo degli occupati pari allo 1,6% e che sono state contestualmente ridotte le ore lavorate pro-capite delle persone ancora presenti sul mercato (-1,4%), si può concludere che in quell’anno mediamente si è lavorato il 3% in meno, il che vuol dire che si sono parimenti ridotte di probabilità di rimanere coinvolti in un incidente sul lavoro. Se si aggiusta il numero degli infortuni con l’effetto della diminuita probabilità dell’evento dannoso, il calo del 9,7% viene ridimensionato ad un 7%.

Questa puntualizzazione, per quanto doverosa, non esclude che il nostro Paese abbia conseguito dei risultati importanti (nel 2009 sono deceduti 70 lavoratori in meno rispetto all’anno precedente e si sono “risparmiati” ben 85.000 incidenti) e a voler essere ottimisti a tutti i costi, questa è una buona notizia. Si tratta, ovviamente, di statistiche che si riferiscono ai sinistri denunciati e che nulla dicono sui casi di lavoratori in nero o che per motivi vari (irregolarità della loro posizione, anche dal punto di vista delle leggi sull’immigrazione, ricatti del “padrone”, eccetera) si consumano e forse anche muoiono nel silenzio.

E’ soddisfatto Marco Sartori, Presidente dell’Istituto, mentre snocciola dati di cui il Ministro del Welfare Sacconi si appropria seduta stante, tentando di segnare un punto a favore dell’ormai indifendibile governo Berlusconi, affondato dal piglio autoritario del suo Capo Supremo, da spaccature interne e dalla corruzione talmente radicata da rendere necessario il bavaglio sulla stampa. “Non siamo il peggior Paese al mondo, come a volte si dice con una enfasi che non aiuta”, protesta il Ministro, annunciando una campagna di sensibilizzazione sul tema da ben venti milioni di Euro, promettendo un piano straordinario di ispezioni nel settore edile e auspicando la “collaborazione” di Carabinieri e Guardia di Finanza (ma non é scontata?).

Nulla da dire, perché i miglioramenti di standard di sicurezza sul lavoro si perseguono marciando su due gambe, ugualmente importanti: la sensibilizzazione culturale (si ricordi ad esempio l’impatto sull’immaginario collettivo delle immagini degli operai privi di presidi di sicurezza al lavoro presso la Camera dei Deputati, proposte dal programma Le Iene) e la drastica repressione delle irregolarità. Se non fosse per il piccolo particolare che tra le tante spese finite a giugno sotto l’implacabile forbice tremontiana vi siano, guarda caso, proprio 10 milioni di euro (in tre anni) originariamente destinati alle “spese per la promozione della cultura e delle azioni di prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro”... Ennesimo caso di schizofrenia governativa.

Nell’attribuire all’Italia un ipotetico primato, Sartori, prontamente seguito da Sacconi, cita i dati EUROSTAT relativi ai tassi standardizzati di incidenza (o SIR, Standard Incidence Rate) degli infortuni sul lavoro (che peraltro si fermano al 2007, e quindi a rigore non sono confrontabili con quelli pubblicati dal Rapporto INAIL). Effettivamente, il SIR italiano riferito agli incidenti in generale è migliore rispetto a quello di diversi importanti Paesi europei e della media europea (a 15 Stati): 2.674 casi su 100.000, contro i 3.125, 3.975, 4.691 e 3.279 registrati, rispettivamente, in Germania, Francia, Spagna, e, mediamente, nell’area europea, a 15.

Tuttavia, se si analizzano le tabelle relative agli incidenti mortali sul lavoro, la situazione è ben diversa: il SIR dei decessi sul lavoro in Italia è pari a 2,5 casi su 100.000, dato che si confronta con risultati degli altri Paesi (anche significativamente) migliori: Spagna 2,3, Francia 2,2, Germania 1,8, media europea 2,1. In sostanza, sembra che in Italia si verifichino mediamente meno incidenti, anche se di solito essi tendono ad essere più frequentemente letali rispetto a quanto accade in altri Paesi europei. Pur senza disconoscere i progressi conseguiti negli anni, non sembra una situazione di cui andare fieri.

Il tutto senza considerare che vi sono tre Paesi (Irlanda, Gran Bretagna e Svezia) che in tutte e due le statistiche hanno livelli tali da far vergognare gli altri Paesi europei: essi mostrano SIR degli incidenti compresi tra 1.000 e 1.500 (2.674 in Italia) e SIR dei decessi compresi tra 1,3 e 1,7 (2,5 in Italia). Anziché gloriarsi dei (modesti) successi conseguiti, enfatizzando i dati comodi e rimuovendo quelli sgraditi, meglio farebbero i nostri burocrati e i nostri politici a studiare con attenzione che cosa accade in altri Paesi che fanno più seriamente uno dei pochi mestieri che giustificano la presenza di uno stato - salvare la pelle ai suoi cittadini / contribuenti.

di Rosa Ana de Santis

La notizia arriva da Alba Adriatica, ma non è un caso isolato. I terremotati, che da mesi erano accolti negli alberghi, se ne dovranno andare. Sono soprattutto anziani e le loro valigie sono già fuori dalla porta. Terminato il periodo gestito dalla Protezione Civile e passate le competenze alla Regione Abruzzo, i pagamenti sono saltati e gli albergatori dicono chiaramente che non vivono di solidarietà.

La pagina della ricostruzione, costellata di buone intenzioni e di suggestioni di solidarietà, già da tempo scricchiola nelle cronache. I terremotati d’Abruzzo lamentano una modalità di ricostruzione a partecipazione “zero” che gli ha impedito di riappropriarsi della terra e delle città.

Sono venuti a Roma a dirlo, ma come risposta hanno avuto le manganellate della polizia. E poi gli scandali del macabro business dell’emergenza che hanno travolto la Protezione Civile. E ora l’incredibile epilogo degli sfollati. Le strutture ricettive non hanno più risorse per mantenere queste persone e chiedono che la questione torni alle Istituzioni.

I tempi in cui il premier apriva i cancelli di Arcore per qualche scatto fotografico con gli abruzzesi ospitati a pranzo sono lontani, nel tempo e nella memoria. L’Abruzzo non è più strategico e parlarne, per Berlusconi, significherebbe solo disseppellire problemi e punti oscuri. Non è più in agenda. Ci pensi la Regione. Da subito fu proprio il Presidente della Regione, Giovanni Chiodi, ad evidenziare i punti critici del piano C.A.S.E. del governo che, succhiando tanti soldi per nuove costruzioni, ne toglieva altrettanti alla rimozione delle macerie e alle messa in sicurezza di altri alloggi, partendo da stime frettolose e poco attendibili.

La fretta di ricostruire davanti alle telecamere ha lasciato per strada tantissime persone, i loro paesi e la città de L’Aquila. Sono state ricostruite città fantasma e sono stati lasciati i fantasmi nelle città di un tempo. Difficile che Vespa riproponga ora un plastico con i terremotati fuori dagli alberghi, meno che mai con il sultano che profferisce le sue promesse elettorali.

Era il 7 aprile 2009 e lui, il premier ottimista, aveva invitato gli abruzzesi a superare il momento delle lacrime. Pillole di speranza per tutti e incoraggiamento. Era in mezzo a loro, in maniche corte e caschetto da vigile del fuoco. Era il tempo dei bagni di folla. “ Andate al mare” - aveva detto - paghiamo tutto noi: avete l’assistenza di tutti gli italiani” , “mettetevi la crema solare” era stato il vertice del cattivo gusto di una fiction che gli era tanto utile. E poi ancora “metterò a disposizione tre mie case per gli sfollati”. Quella gente negli alberghi c’è andata, a sopravvivere alla distruzione. E ora, a luci spente, le promesse sono terminate e nessuno sta pagando il conto.

Dove andranno gli anziani di Alba Adriatica e tutti gli altri che stanno sul mare? Li metterà ad Arcore, negli studi di Mediaset o magari gli verrà in mente di farci un reality? La Regione non ce la fa e, al momento, il governo se ne sta nascosto dietro ai paletti delle competenze, dimenticando promesse e annunci. Una ritirata quasi grottesca, che non può passare inosservata e che rende ancora più amaro e incomprensibile il risultato che è uscito dalle urne, nelle ultime elezioni regionali.

La vittoria del Pdl alla Provincia dell’Aquila è stata la mossa perfetta dello stratega dell’ottimismo e gli abruzzesi hanno creduto alle promesse. Berlusconi ha ottenuto, fino alla fine, tutto quello che era possibile conquistare con la propaganda. Per questo oggi gli alberghi dovrebbero presentare il conto alla Protezione Civile o direttamente al padrone di casa che ama impegnarsi in prima persona. Pagasse lui per gli sfollati del mare. Un colpaccio per un premier la cui fiducia è ai minimi dall’inizio della legislatura.


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