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di Fabrizio Casari
Sostiene Bersani che il PD è pronto ad allearsi con l’UDC per governare. Della dichiarazione, la parte che stupisce è dove si dice che il PD é “pronto” a fare qualcosa. Intendiamoci: nel contenuto non è certo una notizia positiva, dal momento che unire le forze con l’UDC per mandare a casa il governo è un conto, costruirci un progetto di governo è un altro. Ma ci sarà modo più avanti di verificare se questo sarà l’unico epilogo possibile per un partito nato in laboratorio; per ora è più utile tentare di dare una lettura alla cosiddetta “fase di transizione” del berlusconismo e ai pericoli che porta con sé, vagamente evocati da Bersani stesso.
Che cacciare Berlusconi sia un’urgenza democratica e persino una necessità per il sistema paese, non vi sono dubbi. Il fallimento clamoroso del quindicennio del regno di Arcore è sotto gli occhi di tutti. Ed é giusto - come fa Bersani - porsi il problema di una crisi di regime che, nella sua fase finale, può produrre una coda velenosa dall’impatto estremamente pericoloso per una democrazia già oggi ridotta ai minimi termini.
Oltretutto, la sentenza della Consulta, che il prossimo 14 Dicembre definirà la legittimità del legittimo impedimento, rischia di produrre un effetto devastante e definitivo nella stessa compagine governativa. D’altro canto, le crescenti difficoltà del Presidente del Consiglio sia nel suo schieramento che, più in generale, nel consenso del paese, sono il retroterra ideale per una resistenza sulle barricate di un uomo che teme che perdere questo scontro politico, per il livello al quale lui stesso lo ha portato, significherebbe molto di più che una crisi parlamentare e una successiva campagna elettorale.
“E’ un osso duro Berlusconi”, ha detto Bersani. Ha ragione: spesso è accaduto che lo si dava per battuto, ma la sua indubbia capacità propagandistica, le risorse a disposizione e l’insipienza assoluta dell’opposizione lo hanno risollevato. Oggi, però, il Premier sembra avvilupparsi in una crisi dagli esiti incerti; una volta tanto non pare che abbia la capacità di vincere contro tutti e tutto. Cosa dobbiamo aspettarci, dunque, in un contesto così complesso, in quella cioè che si può definire una vera e propria crisi di regime?
Berlusconi ha già dato innumerevoli prove di come intenda la battaglia politica: a tutto campo e senza esclusione di colpi, con ogni mezzo a disposizione (lecito o illecito che sia) indifferente alle regole e pronto al “tanto peggio tanto meglio”. E’ con questa concezione che si è fatto strada nel mondo degli affari e nell’agone politico. Berlusconi non persegue il potere come legittima ambizione per veicolare un progetto politico e di sistema, cosciente che però il suo utilizzo non può e non deve elevarsi al di sopra di quanto la Carta e il sistema di regole istituzionali, scritte e no, consentono. Non ha nessun interesse per la vita del Paese se non per i vantaggi che possono derivarne per lui e per le sue aziende. Per questo è “sceso in campo” e per questo non mollerà facilmente il campo.
Berlusconi ritiene che il suo disegno sia già, di per sé, più importante del Paese stesso al quale dovrebbe essere indirizzato. Difendere il suo disegno diventa quindi prioritario. E in una distorta concezione machiavellica, non solo i fini giustificano i mezzi, ma spesso i mezzi indicano con chiarezza i fini. La sua potenza di fuoco - derivatagli da un potere immenso e sproporzionato per qualunque democrazia occidentale - abbraccia la finanza, la comunicazione e il sistema radiotelevisivo pubblico e privato, il sistema bancario e il commercio con l’estero ed è ben rappresentato nelle strutture palesi e occulte che governano l’Italia.
Nella concezione berlusconiana del potere, del resto, le norme e le leggi su cui si edificano le comunità, sono solo lacci che impediscono a chi comanda nella sostanza di comandare anche nella forma. Per questo vanno rimossi, invocandone ora una presunta inutilità, ora una sospetta inapplicabilità, fino a mettere sullo stesso piano una Costituzione vera e vigente con una “di fatto” inventata dai suoi legulei.
In questo senso, sarebbe quindi perfettamente inutile auspicare una fine di regime politicamente guidata, una transizione dal berlusconismo dalle grandi mascelle verso un riassesto degli equilibri politici ed economici del Paese. In questi ultimi anni abbiamo avuto prove in abbondanza: i dossieraggi mediatici, l’uso dei Servizi segreti e del potere economico sfrenato, senza pudori, nella battaglia politica, hanno inquinato a fondo un paese già piegato su se stesso e in deficit di democrazia. In questo senso, dunque, la difesa degli ultimi spazi di agibilità democratica e di dialettica politica ha una sua funzione determinante, non lo si può negare.
Si può discettare a lungo di transizione incompiuta dalla prima alla seconda Repubblica, ma seppure, storicamente, la sovranità limitata del Paese é sempre stata la ragione fondativa della sua mancata crescita democratica, da quindici anni in qua il buco nero di questa democrazia sospesa si chiama Berlusconi. Il suo dominio politico si poggia (anche) sul conflitto d’interessi che permette ai suoi tentacoli di strangolare la dialettica politica. Inutile qui ripetere ancora una volta quali e quante siano le responsabilità del centrosinistra italiano nel non volerlo affrontare in maniera decisa.
Per alcuni c’era la convinzione che sarebbe apparso un provvedimento illiberale, per altri, autonominatisi volpi della politica, c’era l’idea che non risolverlo una volta per tutte avrebbe tenuto Berlusconi sotto scacco. Fatto sta che non è stato né risolto né affrontato e si è lasciato che questo cancro corrodesse dall’interno il già fragile equilibrio tra i poteri. Sistema che non solo andrebbe salvaguardato per rispetto all’ordinamento Costituzionale, ma che deve essere assicurato se si vuole che la dialettica democratica sopravviva alle ansie di dominio di una persona o di una cricca.
Sul conflitto d’interessi non c’era bisogno di promulgare una legge liberticida, giacché tanto esteso era (e ora lo è diventato molto di più) che sarebbe stata sufficiente una legge semplicemente copiata ed incollata da quelle statunitensi o da qualunque altra esistente nel quadro giuridico europeo. Si poteva legiferare quindi senza timori per la campagna mediatica che il cavaliere nero avrebbe intrapreso. L’ha fatto comunque, per sedici anni, contro tutto e tutti, aggredendo in tutti i modi gli ostacoli che si sovrapponevano tra la sua ansia narcisistica di dominio assoluto e il mandato - limitato, seppur ampio - che le urne gli hanno concesso.
Mandare a casa il governo, senza però sapere come andare a votare successivamente, non sarebbe sufficiente. Una nuova legge elettorale, quindi, se si vuole porre fine alla stortura evidente di un sistema che assegna il 60% dei seggi a chi abbia almeno il 30% dei consensi, ha una sua urgenza intrinseca e non discutibile. L’organizzazione dei collegi e delle circoscrizioni, così come disegnata, e con le norme del porcellum, darà in partenza la vittoria al cavaliere in almeno una delle due Camere, purché egli mantenga saldo il rapporto con la Lega di Bossi. Ma serve un profondo riesame anche delle norme che disciplinano l’utilizzo dei mezzi di comunicazione in campagna elettorale, ad evitare che la già ultra evidente sproporzione di mezzi finanziari e di bocche da cannone mediatiche in campo, non renda semplicemente ridicola una competizione già decisa prima ancora di cominciare.
Una legge elettorale, di norma, dovrebbe garantire due esigenze: rappresentatività e governabilità. E dovrebbe anche essere concepita sulla scorta della tradizione culturale e politica del Paese dove si vota. Proprio in ragione di queste considerazioni, una legge elettorale su base proporzionale, con una soglia di sbarramento al 4 o al 5%, risulterebbe la più idonea a tenere insieme gli elementi di cui sopra.
Impedirebbe ammucchiate, ridurrebbe immediatamente il numero di partiti e partitini - favorendo quindi la governabilità - e semplificherebbe le procedure di voto; ridarebbe la parola agli elettori nella scelta dei candidati e garantirebbe il rispetto delle diverse identità politiche del Paese (favorendo quindi la rappresentatività).
A maggior ragione una legge elettorale equa si rende necessaria per contrastare il profondo squilibrio mediatico garantito dai funzionari del padrone, che occupano ignobilmente le poltrone di direttori dei Tg e dei Gr Rai. Il servizio pubblico non dovrebbe vedere rappresentato nei suoi vertici apicali la quinta colonna dell’azienda concorrente.
Un’azienda - Mediaset - che con buona pace di D’Alema, molto prima che essere una risorsa del Paese è un’arma politico-elettorale del Presidente del Consiglio e del suo partito, così come lo sono i giornali famigli e i magazine che pompano fuffa agiografica per la famiglia, progressivamente trasformati in house organ del padrone.
Questo è il quadro dell’informazione in Italia, questo lo scenario su cui si organizza il mercato della circolazione delle idee e si prefigura il consenso. Questo quindi il punto nevralgico dove l’iniziativa parlamentare deve divenire un imperativo categorico. Se non si vuole veder finire una stagione drammatica con una campagna elettorale farsesca che offra un risultato scontato. Chi ritiene di dover fare politica, è da qui che deve muovere. Se ci si crogiola aspettando di proporre uno scacco al re, si finisce per subire uno scacco matto.
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di Mariavittoria Orsolato
Nell’autunno caldo che vede sul piede di guerra il mondo della scuola e quello del lavoro dipendente, il mondo politico non ha di meglio da fare se non impegolarsi in una telenovela: una di quelle alla Beautiful, in cui le storie si avviluppano a tal punto che ogni tentativo di capirne la trama è vano. Il caso Marcegaglia- il Giornale è solo l’ultima delle vicende che stanno inabissando il dibattito politico italiano verso un impoverimento che non ha precedenti storici.
La dinamica è presto detta. Da una parte sta il giornale della famiglia Berlusconi - intestato formalmente a Paolo, ma controllato direttamente da Silvio - e dall’altra la presidentessa di Confindustria che, per ovviare all’immagine di lobby “sdraiata” sull’azione di governo, ha rilasciato dichiarazioni di biasimo rivolte all’esecutivo. Come già successo all’ex first lady Veronica Lario e al presidente della Camera Fini, nella redazione del Giornale i “segugi” si attivano per scovare quanti più scheletri la signora Marcegaglia tenga nel suo armadio ma, non trovando nulla che già non si sappia, si limitano a millantare tramite sms il famigerato dossier.
Rinaldo Arpisella, portavoce della presidentessa di Confindustria e amico di vecchia data del vicedirettore del Giornale Porro, si allarma e lo chiama per chiedere una conferma che sibillinamente gli viene data e la Marcegaglia chiama quindi Confalonieri che pone il veto a procedere. Emma, sentendosi evidentemente il fiato dei berluscones sul collo, avverte comunque la Procura di Napoli che, con il coordinamento del “pm dei vip” Henry John Woodcock, perquisisce spettacolarmente la sede del Giornale e ne indaga direttore e vice direttore per presunta attività di dossieraggio finalizzata alle minacce.
Scoppia l’ennesimo caso mediatico e, prima ancora che scenda un velo pietoso sulla spy story dell’impropria proprietà della casa di Montecarlo, l’attenzione della vita politica viene catalizzata dal nuovo scandalo e dalle sue assurde implicazioni. Certo la coincidenza tra le critiche al governo Berlusconi e l’avvio fulmineo di campagne diffamatorie a firma delle penne più schierate con l’esecutivo, proprio verso quelli che ciclicamente hanno avuto l’arroganza di contraddire Padron ‘Silvio o di giudicarne negativamente l’operato, è un’evidenza di come anche l’informazione abbia acquisito un modus operandi a orologeria.
Ma dov’è la novità? Sin dai tempi dell’editto bulgaro contro Biagi, Santoro e Luttazzi abbiamo imparato che chiunque sia sgradito al Presidente del Consiglio ha buone probabilità di scomparire dalla scena pubblica o, quantomeno, di venire infangato pubblicamente su una delle testate di famiglia. Perché allora strapparsi i capelli dinanzi ad una versione riveduta e corretta del killeraggio attuato sull’ex direttore di Avvenire Boffo? Ma chi se ne frega! È “ciarpame” già visto, stravisto e rivisto, e poco importa che stavolta la protagonista sia la numero uno di Confindustria.
Mai come in questo frangente storico il dibattito politico dovrebbe essere concentrato sui problemi, stringenti e quanto mai esiziali, che stanno attanagliando la penisola. Un’intera generazione non vedrà mai la sua pensione, la piccola impresa boccheggia schiacciata tra l’usura delle banche e un consumo che tarda a ripartire, la scuola è allo sfascio totale, la classe media scivola sempre più verso la soglia di povertà e si potrebbe continuare ancora nel segno di un giustificato catastrofismo.
Ma nello spaesamento programmatico e nella più totale incapacità di offrire soluzioni anche solo ad uno dei problemi sopraccitati, conviene che tutte le voci di palazzo convergano sulla fuffa al quadrato che le colonne del Giornale generosamente offrono su un piatto d’argento. Stando infatti alla teoria del two step flow - letteralmente “fluire in due mosse” - approntata da Lazarsfeld e Katz, i mass media non raggiungono tutto il pubblico in modo diretto, ma il messaggio che vogliono veicolare viene prima raccolto da un gruppo di persone influenti all'interno della comunità - i cosiddetti opinion leaders - i quali poi trasmettono il messaggio alle altre persone che sono meno attive nella fruizione dei mezzi di informazione.
Con questo semplice espediente la classe politica odierna, sedicente sinistra compresa, spera di deviare l’attenzione del popolo affamato e incazzato, conscia oltremodo del fatto che una storia ben raccontata e densa di colpi di scena fa presa come nient’altro sull’immaginario collettivo italiota. La stessa Emma Marcegaglia ha tutte le ragioni per offrire il fianco agli strali del Giornale: dal momento che il padre Steno è attualmente accusato di falso e associazione a delinquere all’interno di un’inchiesta “Golden rubbish” sul traffico di rifiuti tossici in Campania, la nuova immagine di vittima sacrificale dell’egotismo berlusconiano gioverebbe in seno alla stessa logica del fuoco di copertura.
In tutto questo inutile bailamme, l’unico argomento per cui varrebbe la pena spendere un ragionamento è quello che riguarda il labile confine tra prassi giornalistica e dossieraggio. Se l’inchiesta di Napoli dovesse proseguire nel piano accusatorio (al contrario delle molte inchieste principiate da Woodcock) il rischio di sconfinare dal doveroso accertamento di una notizia di reato in una prevaricazione della libertà di stampa è quanto mai tangibile. Raccogliere informazioni su un determinato personaggio pubblico fa parte dell’abc degli operatori dell’informazione e il fatto che queste possano risultare compromettenti, in senso giudiziario e non, è uno dei motivi che spinge un giornalista deontologicamente inattaccabile a fare il suo mestiere.
Sarebbe perciò un enorme danno se venisse emessa una sentenza in cui ad essere condannato fosse il lavoro giornalistico: a livello giurisprudenziale, il precedente sarebbe talmente forte da far impallidire ogni legge bavaglio. Pensiamoci.
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di Mariavittoria Orsolato
In questo giro di boa della legislatura a fare la voce grossa è ormai la Lega Nord. Sempre più forte sul piano dei consensi, sempre più inserita nei posti chiave delle istituzioni. Sarà che con Bossi e soci è sempre meglio trattare, fatto sta che dopo le innumerevoli leggi ad personam varate dall’esecutivo Berlusconi, finalmente è giunto il turno del Carroccio. Lo segnala il Corriere della Sera e l’espediente è sempre lo stesso: utilizzando il cavallo di Troia di un provvedimento omnibus - in questo particolar caso, il nuovo Codice dell’Ordinamento Militare - s’inserisce un comma tramite cui aggirare gli impedimenti legali in corso.
Il disegno di legge 66 del 15 marzo 2010, a firma del ministro della Difesa La Russa e dell’omologo alla Semplificazione Roberto Calderoli, tra le sue 1085 norme nasconde infatti l’abolizione dell’articolo 306 del Codice Penale, un articolo che ai più giovani non dirà nulla di nuovo, ma che a molti riporta la memoria indietro di 30 anni. Stiamo parlando dell’imputazione di banda armata, accusa principe delle centinaia di processi celebratisi a cavallo degli anni ‘70 e ’80 e punibile con la reclusione dai tre ai quindici anni; che però, è ufficiale, dal prossimo 8 ottobre uscirà dal novero dei reati penalmente perseguibili.
Ma non si tratta di un ripensamento giuridico sulla legislazione emergenziale e le storture che essa ha prodotto sul Codice Penale. Il motivo fondante per cui uno dei capisaldi dell’anti-terrorismo verrà bellamente smantellato è un altro e molto meno nobile: 36 esponenti del Carroccio sparsi fra il Piemonte, la Liguria, l’Emilia, la Lombardia e il Veneto sono attualmente sotto processo a Verona con l’accusa di aver messo in piedi una formazione paramilitare denominata “Guardia Nazionale Padana”.
Lo sparuto esercito del nord, noto ai più come “Camicie verdi” (in riferimento all’immancabile divisa, oltretutto di sinistra memoria) doveva fungere da baluardo per la secessione e da deterrente contro l’immigrazione - clandestina o meno, per la Lega c’est la même chose - ma nel 1996 arrivò il procuratore della Repubblica Guido Papalia a guastare la festa.
Grazie alle indagini della Digos e ad una serie di intercettazioni telefoniche, si veniva infatti a sapere che, al momento del reclutamento, chi aderiva alla formazione paramilitare doveva indicare se era in possesso di armi da fuoco e se ne aveva il porto, e quando Papalia - nel frattempo pesantemente insultato sui muri di tutta la città di Giulietta - mandò gli ispettori in via Bellerio, sede della Lega Nord a Milano, sequestrò elenchi che confermavano la sua intuizione: ovvero che il Carroccio e la sua base si preparavano alacremente in visione di uno scontro futuribile.
Probabilmente forte di questa certezza, il Senatùr ha in più occasioni minacciato un’azione diretta: l’ultima castroneria di questo tipo in ordine di tempo è datata 18 agosto, quando in risposta ad alcuni attivisti vicentini che durante un comizio gli hanno gridato “Fuori le doppiette” Bossi ha risposto: “Per i fucili c’è tempo, abbiamo comunque milioni di uomini che vogliono liberarsi e che vogliono il cambiamento per loro e per i loro figli”.
Tra gli imputati di attentato alla Costituzione, attentato all’unità e all’integrità dello Stato e costituzione di banda armata figuravano lo stesso Bossi, Maroni, Borghezio e naturalmente Calderoli, all’epoca tutti eurodeputati o parlamentari che godevano dell’immunità votata dai colleghi. Ora, a 14 anni dall’avvio dell’istruttoria, due dei tre capi d’imputazione sono decaduti tramite il medesimo meccanismo di cancellazione del reato per decreto.
Sulla carta rimaneva perciò solo la terza delle accuse e al momento della riapertura del processo, lo scorso venerdì a Verona, la difesa ha prontamente segnalato al giudice Guidorizzi che i suoi assistiti non avrebbero più avuto motivo di presentarsi in aula, dato che nel giro di venti giorni il reato per cui sono attualmente sotto processo sarà dichiarato estinto.
Il presidente della Corte non ha perciò potuto fare altro che accogliere l’eccezione sollevata dai legali della difesa e rinviare il processo al prossimo 19 novembre quando, di fatto, ci si recherà in aula solo per dichiarare la chiusura dell’istruttoria e l’assoluzione degli imputati per la non sussistenza del reato.
Ci troviamo quindi nuovamente di fronte alla cancellazione di una voce del codice penale in nome del più bieco tergiversare giudiziario, e poco importa se in questi stessi giorni il Dipartimento di Stato americano ha emesso un “travel alert”, un avvertimento ai connazionali per la possibilità di attacchi terroristici in Europa. Al Governo che ha vinto le elezioni berciando sull’assoluta necessità di sicurezza e ai leghisti che vedono in ogni raduno di preghiera coranica una potenziale cellula di Al Quaeda, frega solo che Dike non ponga su di loro il suo sguardo inquisitore.
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di Ilvio Pannullo
Dopo aver affossato il governo Prodi dichiarando che il Partito Democratico sarebbe andato in caso di elezioni da solo al voto, evitando di allearsi con quegli stessi partiti che allora sostenevano il governo; dopo aver contribuito così all’estromissione della sinistra dal Parlamento limitando la rappresentanza di un’intera cultura politica dalle Istituzioni democratiche; dopo aver regalato Roma agli ex fascisti, proponendo l’improponibile Rutelli come suo fisiologico successore alla guida della capitale, Walter Veltroni si prepara adesso ad impedire qualsiasi possibilità che il partito da lui stesso fortissimamente voluto possa avvantaggiarsi della rovinosa crisi che sta interessando il governo.
Ecco dunque l’ultima trovata dell’entusiasta democratico: “Il documento dei 75”. È questo, infatti, il numero dei parlamentari del Partito Democratico che hanno firmato il testo promosso da Walter Veltroni, Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni. Un documento che chiede una correzione nella linea politica del Pd, affermando implicitamente l’incapacità di Bersani nella conduzione del partito. “Ma non c'è nessuna intenzione di fare qualcosa di alternativo o che sia fuori al partito” assicura Marco Minniti, un tempo dalemiano doc. Nessuna scissione insomma, nessuna corrente, ma semplice dialettica politica. Pacatamente e serenamente, ovvio, e ci mancherebbe altro verrebbe da aggiungere.
Purtroppo però, alla conta dei 75 è seguita ieri un’altra conta voluta dal segretario, annacquata dalle molte assenze registrate al momento del voto. In un'intervista a La Stampa, Beppe Fioroni, con riferimento alla relazione di Bersani ieri in Direzione Pd, ha infatti dichiarato: "Alla fine molta gente se n’era andata, non eravamo duecento a votare. Meglio che nessuno giochi con i numeri. E alla Bindi che presiedeva, dico che, oltre a risparmiarsi reprimende contro chi ha opinioni diverse, per dimostrare di svolgere un ruolo di garanzia con lealtà avrebbe dovuto far contare anche i voti a favore. Nessuna marcia indietro - continua l’ex Ministro, tra gli astenuti alla direzione del Pd di ieri - noi vogliamo fare la minoranza che contribuisce con le proprie battaglie a migliorare la linea del segretario”. E quale modo migliore per migliorare la linea del segretario se non quello di alzare un simile polverone?
Per amore di precisione va ricordato che con Veltroni come segretario il Pd è diventato famoso per lo show cabinet - quel governo ombra talmente tanto ombra che nessuno si accorse della sua esistenza - il loft con vista sul Circo Massimo e per le sconfitte elettorali di Abruzzo, Friuli Venezia Giulia e Sardegna. A voler essere scaramantici si dovrebbero fare gli scongiuri al solo sentirne il nome, ma in Italia - si sa - si concede una seconda opportunità a tutti. E poi magari una terza, una quarta, una quinta e via concedendo. Accade così che, nonostante i disastri creati nel paese, il Veltroni nazionale continui a imperversare nella politica italiana, nonostante la promessa di emigrare in Africa che per molti a sinistra sta diventando l’ultima speranza di vederlo per sempre neutralizzato.
I veltroniani fingono di stupirsi delle virulente risposte alla presentazione del loro documento. Per bocca sempre di Marco Minniti, infatti, davanti al crescente malumore all’interno del partito per l’inopportunità di una simile iniziativa in un frangente che vede il primo partito di governo lacerarsi sotto il peso di una crisi istituzionale - con la terza carica dello Stato che accusa il Presidente del Consiglio di utilizzare il suo ruolo istituzionale per fabbricare dossier infamanti al fine di minarne la credibilità politica - i veltroniani si dicono increduli per quanto sta accadendo.
“Stupisce - afferma Minniti - che venga considerato come un elemento di divisione e di indebolimento, come un regalo all’avversario, cose che sono figlie di altre stagioni politiche”. “Anche il tema della premiership - assicura Tonini - non compare nel documento, parliamo solo di linea politica». Resta invece l'intenzione di dar vita ad un movimento, che però «non vuole essere una corrente o uno strumento di lotta interna per spartirsi i posti, piuttosto un movimento di idee e di proposte dentro il partito ma con l’ambizione di parlare anche all’esterno”. Le posizioni di quest’area, in dissenso con la gestione del partito di Bersani, “saranno portate in tutte le sedi in cui il partito si esprime”. Al che vien quasi da piangere.
Laconico e volutamente sotto tono il commento del segretario: “A me va bene tutto - risponde Bersani - non ho fatto conti sul sostegno a questo documento”. A Veltroni, che ha accusato la dirigenza del Pd di aver perso la bussola, Bersani risponde: “Per me la bussola è rimboccarsi le maniche, andare avanti, fare le nostre discussioni nelle sedi giuste e nei nostri organismi. Adesso tutti assieme abbiamo il compito rilevantissimo che è quello di parlare di questo paese, dare una mano per quanto possiamo per tirarlo fuori dai guai e tenere alta la battaglia politica nel momento in cui tutti vedono che andiamo incontro a un periodo di ulteriore instabilità e minori risposte di governo”.
Walter Veltroni, dal canto suo, da sempre uomo che disdegna le ordinarie sedi di confronto politico per esprimere la propria visione degli avvenimenti, del mondo e perché no dell’universo intero, ha precisato sul suo profilo Facebook il senso del documento. Ovvero, “rendere più grande e più aperto il Pd. Questo è l`unico obiettivo del documento ed è una posizione politica che, come tutte, va rispettata e discussa. Così succede in tutti i partiti democratici”.
Ma cosa si dice in questo benedetto documento? Nel testo s’invoca una “coerente strategia riformista che può dunque contare su rilevanti forze sociali, unendole in un progetto che risponda ai bisogni dei più deboli facendo leva sui meriti dei più capaci. Questa strategia non può essere incardinata prevalentemente attorno a obiettivi di difesa della realtà presente, aggredita dall'attacco della destra populista. Al contrario, l'alleanza da promuovere è tra chi ha bisogno del cambiamento, ma da solo non può realizzarlo perché non sa, non ha, non può abbastanza, e chi vuole il cambiamento, perché sa progettarlo, ha interesse a promuoverlo, ha le relazioni necessarie per realizzarlo, ha la forza necessaria per piegare le tante resistenze corporative che vi si oppongono”.
Un passaggio questo dove i più scettici potrebbero vedere un riferimento a future alleanze con partiti, come l’Udc di Pierferdinando Casini o l’Mpa di quel Raffaele Lombardo al quarto governo in appena due anni di governo alla regione Sicilia, noti per le loro posizioni laiche, meritocratiche e coerentemente liberali. Dopotutto - si sosterrà - è forse meglio allearsi con il giustizialista Di Pietro che tanto insiste con la questione della legalità? Giammai.
La critica dell'area di minoranza punta infatti al cuore dell’identità politica del Pd: “Nulla sarebbe adesso più sbagliato e contraddittorio - si legge sempre nel documento dei 75 - che affrontare la crisi politica e culturale del berlusconismo, sulla base dell'assunto della immutabilità dei rapporti di forza nel Paese. Una visione così angusta e rinunciataria, così falsamente realista, spingerebbe i democratici ad arroccarsi in difesa, pigri e spaventati, quando è invece il momento di uscire allo scoperto e di avanzare proposte coraggiose e innovative.
Esempi di questa mancanza di coraggio, di questa vera e propria involontaria subalternità ad un pensiero unico, sono per un verso l'ipotesi neo-frontista e per altro verso quella vetero-centrista: ipotesi che nel confuso dibattito interno al Pd tendono peraltro a mescolarsi, ad alternarsi in continue svolte e controsvolte, che offrono l'immagine di un partito che fatica ad esprimere una strategia nitida”. Par quindi di capire che la strategia della innominabilità del Biscione - il maggior esponente dello schieramento avverso - debba essere rispolverata, perché guai a puntare il dito su quello straordinario collettore di interessi e corporativismi che è diventato B. Si perderebbero voti. Ancora di più di quanti non se ne siano già persi.
Tra le proposte suggerite c'è la necessità di una “innovazione della proposta programmatica, che deve assumere con coraggio l'obiettivo di battere tutti i conservatorismi, compresi quelli, palesi e occulti, di centrosinistra, ponendo al centro il tema della democrazia decidente, attraverso le necessarie riforme istituzionali ed elettorali: rafforzamento dei poteri del premier e di quelli di controllo del Parlamento, regolazione del conflitto d'interessi, norme contro la concentrazione del potere mediatico e il controllo politico della Rai, differenziazione delle camere, riduzione del numero dei parlamentari, una legge elettorale, come si legge nel documento approvato dall'Assemblea nazionale del Pd del maggio scorso, di impianto maggioritario fondato sui collegi uninominali, insieme a norme sulla democrazia di partito e a una regolazione delle primarie per le cariche monocratiche”.
Insomma, la sagra del vorrei ma non posso. Con un partito che a fatica raccoglie un quarto dei voti validamente espressi e che ha già subito una scissione, il progetto Veltroniano consisterebbe nell’assicurarsi quella tanto sbandierata “vocazione maggioritaria” attraverso magari una porcata bis che assicuri la marginalizzazione definitiva di qualsiasi forma di dissenso politico organizzato, a sinistra del Pd. Quando si dice amare la democrazia.
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di Mario Braconi
Per una volta, bisogna dare ragione all’Osservatore Romano: lo IOR (acronimo - sarcastico? - di Istituto per le Opere Religiose) “non può considerarsi una banca nell’accezione corrente”. Niente di più vero: pur essendo gli armadi delle istituzioni finanziarie piene zeppi di cadaveri (veri e figurati), è difficile trovare un intermediario con un pedigree come quello della banca vaticana. Leggendo la sua storia la si può diagnosticare come apparentemente affetta da una patologica inclinazione a delinquere - le accuse vanno dal falso in bilancio al concorso in bancarotta fraudolenta, dal riciclaggio del denaro mafioso all’intermediazione di maxi-tangenti. Ripercorrere gli eventi salienti dell’Istituto è, in effetti, passeggiare in un ideale museo delle cere per amanti del genere horror: Gelli, Sindona, Calvi, Markincus, Fiorani, Balducci, tra gli altri.
Per non parlare dei singolari “incidenti” capitati alle persone al corrente del particolare modus operandi dello IOR: segretarie che volano dal quarto piano dell’ufficio, banchieri transfughi appesi sotto un ponte, sedicenti banchieri stroncati da caffè al cianuro, commissari liquidatori coraggiosi e onesti ridotti al silenzio perenne a colpi di pistola (e c’è qualcuno che, dallo scanno del Senato che occupa molto indegnamente, ha osato dire che quella fine se l’era cercata). O del modo davvero hollywoodiano con cui l’hanno fatta franca i pochissimi colpevoli su cui faticosamente la giustizia italiana era riuscita a mettere le mani: passaporti diplomatici (vaticani) o interpretazioni di comodo dei mai abbastanza vituperati Patti Lateranensi...
A quanto sembra, decadi di scandali e nuove nomine al vertice non cambiano le abitudini della banca: lo scorso 21 settembre il suo presidente (Ettore Gotti Tedeschi) e il suo direttore generale (Paolo Cipriani) vengono indagati per violazione del decreto legislativo 231 del 2007, cioè della legge anti-riciclaggio. I media italiani, ossequiosi come sempre, gareggiando in prudenza: ricorda il Corriere della Sera, ad esempio, che al momento non si sta procedendo per riciclaggio, ma per semplice omessa segnalazione. Distinguo interessante, soprattutto perché non è chiara la ragione per la quale si dovrebbe scientemente violare la legge contro il riciclaggio, se non per... effettuare appunto operazioni di riciclaggio. A meno che non si sia disponibili ad ammettere la possibilità di una sfida gratuita lanciata dallo IOR alle Istituzioni italiane.
Non è rassicurante, questa notizia, perché conferma quello che ogni italiano per bene sa già: gli anni passano, ma la singolare sindrome italiana (quel cocktail appiccicoso di spregio della legge, arroganza, violenza, vigliaccheria, clericalismo) continua ad avvinghiare il corpo minato della Repubblica. Eppure, uno spiraglio di luce si vede: è vero, ci sono voluti ben 59 anni (dalla fondazione dello IOR nel 1942 alla sentenza della Cassazione n. 22516 del 2003) per stabilire l’ovvio principio che la banca vaticana è soggetta alla giurisdizione italiana.
Ne sono poi stati necessari altri sette per includere il Vaticano nella lista dei Paesi Extracomunitari le cui banche devono sottostare alle normative antiriciclaggio italiane, peraltro rafforzate (è infatti del Gennaio di quest’anno una lettera con la quale l’Istituto di Vigilanza, forse rispondendo ad una richiesta non del tutto innocente del Credito Valtellinese, ha sancito questo principio).
Però, finalmente, un organismo nazionale sta contestando un reato allo IOR senza vedere vanificato il suo lavoro da schermi vari (immunità o extraterritorialità). E se ciò è potuto accadere è solo perché al timone dell’Istituto di Vigilanza oggi c’é Draghi, ex banchiere d’affari allergico all’incenso, anziché Fazio, amico affezionato del potere clericale ma azzoppato dagli scandali.
Ma vale la pena entrare nel dettaglio: come ricostruisce Il Sole 24 Ore, a seguito della comunicazione della Banca d’Italia di gennaio 2010 sopra citata, il Credito Valtellinese scrive a Palazzo Koch, dichiarando di voler interrompere l’operatività con lo IOR (suo cliente) in attesa che nuove regole vengano definite (non si capisce bene quali, visto che la lettera della Banca d’Italia è chiarissima). Questo non impedisce però allo IOR, cinque mesi dopo, di disporre dal suo conto presso il Credito Artigiano (posseduto dal Credito Valtellinese) due bonifici da 20 e da 3 milioni rispettivamente diretti verso JP Morgan di Francoforte e alla Banca del Fucino.
A questo punto, è bene specificare che nel cosiddetto Consiglio di Sovrintendenza dello IOR, presieduto da Gotti Tedeschi, siede tra gli altri anche Giovanni De Censi, presidente del Credito Valtellinese, guarda caso, la banca che controlla il Credito Artigiano. Una coincidenza tanto singolare che, a voler essere malevoli, potrebbe far supporre che le transazioni poi bloccate dalla Banca d’Italia e nella lente della Procura di Roma, siano state veicolate proprio attraverso una banca “amica” e pertanto disponibile ad assumere atteggiamenti più “rilassati” nei confronti delle leggi italiane. Ma, a causa di un automatismo informatico, o forse dell’intervento di un qualche funzionario coraggioso, parte la segnalazione alla Banca d’Italia, la quale blocca la transazione: non vi sono dubbi, la legge anti-riciclaggio è stata violata, e quindi scatta anche l’inchiesta della procura romana.
Mentre si moltiplicano le inevitabili manifestazioni di solidarietà ai due alti dirigenti della discussa banca vaticana da parte di membri della Chiesa come dei soliti penosi politici italiani più papisti del Papa (unica eccezione, il radicale Turco, che rilancia con la richiesta di una commissione d’inchiesta), vale la pena vagliare con attenzione la reale tenuta delle dichiarazioni di Gotti Tedeschi. Il presidente dello IOR si è infatti affrettato a dichiarare che le due operazioni incriminate erano semplici giroconti diretti ad altri conti dello IOR: ma se è così, per quale ragione non è stato chiaramente identificato il beneficiario del cospicuo pagamento, visto che coincideva con l’ordinante? Chissà se conosceremo mai la risposta.