di Mariavittoria Orsolato

La Consulta in questi giorni ha dato parecchie soddisfazioni al livido popolo italiano. Poco prima di bocciare sonoramente il legittimo impedimento volto a scudare l’indagatissimo  premier, i giudici della Corte costituzionale hanno giudicato ammissibili tre delle cinque proposte di referendum avviate in seguito alla liberalizzazione e alla privatizzazione di servizi energetici e di beni primari. I quesiti su cui i comitati promotori hanno raccolto ben un milione e mezzo di firme, vertono tutti sulla pubblicità dell’acqua e sullo spinoso ritorno al nucleare, tanto voluto dall’esecutivo ma che ancora divide gli italiani.

Grazie al parere positivo della Consulta, in una data compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno 2011, si andrà alle urne per decidere se abrogare quanto fatto finora dal terzo esecutivo Berlusconi in materia di enti pubblici e nucleare. Il primo dei quattro quesiti che verranno proposti riguarda l’abrogazione dell’art. 23-bis della legge 166 del 2009 (servizi pubblici locali di rilevanza economica) contenuto in quella che allora venne definita “riforma Fitto”: nel testo si disponeva infatti che le vecchie e temute aziende municipalizzate, sovrane su tutti i servizi primari al cittadino, venissero smembrate a favore dei soggetti privati desiderosi di accaparrarsi una bella fetta di appalti pubblici.

Non si tratta solo di acqua infatti, con l’abrogazione del suddetto articolo si andrebbe a rivoluzionare l’assetto voluto solo due anni fa dal Governo in merito anche a tutti gli altri servizi pubblici locali cosiddetti “di rilevanza economica”: parliamo quindi di autobus, metropolitane, depurazione, fognature, raccolta dei rifiuti eccetera. Nel caso in cui, elezioni anticipate permettendo, le urne rendessero un sì, l’intero impianto della riforma Fitto verrebbe smantellato, ponendo un duro stop a liberalizzazioni e privatizzazioni.

Mentre i comitati pro acqua pubblica gioiscono, i più attenti e cinici osservatori del mercato giudicano la decisione della Consulta, se non come un suicidio economico, almeno come un gigantesco balzo indietro. Dalle colonne del quotidiano economico per antonomasia, il Sole 24 Ore, giunge infatti un monito ben circostanziato: “La cancellazione dell'intera riforma produrrebbe un ritorno all'epoca dell'in house, dello strapotere delle aziende pubbliche controllate dagli enti locali”.

Orrore. La prospettiva di una parcellizzazione dei servizi pubblici primari non è certo meno orribile di quella che vede un ritorno del conflitto di interessi degli enti locali proprietari, regolatori ed erogatori dei servizi, con distribuzioni massicce di gettoni di presenza e inevitabili parentopoli annesse. Se infatti il referendum dovesse andare incontro alle richieste dei comitati pro acqua pubblica si ritornerebbe all’in-house voluto nel 2003 dal cosiddetto “lodo Buttiglione” che, in soldoni, significa l’affidamento diretto del servizio di un ente pubblico a una persona giuridicamente distinta che però risulta essere controllata dall’ente pubblico stesso.

A governare era sempre Berlusconi ma è evidente che da allora le cose siano cambiate parecchio: a volere la legittimazione dell’in house nel 2003 era stata la Lega, nel tentativo di difendere ad oltranza le prerogative dei suoi amministratori locali, poi la crisi finanziaria americana ha sparigliato le carte in tavole e il centro-destra è tornato a preferire i privati alle nomenklature.

Insomma, qualsiasi sarà il responso referendario, gli italiani si troveranno di fronte una gestione della cosa pubblica problematica e conflittuale. Sia la privatizzazione che il monopolio delle municipalizzate sono nemici di un buon servizio al cittadino: se infatti la privatizzazione comporta esternalità negative a livello di prezzi al consumatore e di qualità dell’acqua, un ritorno alla gestione in house non alleggerirebbe le bollette dal momento che, orfani dell’ICI i comuni sono alla disperata caccia di introiti imponibili. Sarebbe poi ingenuo credere o anche solo sperare che le municipalizzate si comportino in modo eticamente più apprezzabile rispetto ai privati.

Certo a livello ideale i due soggetti sono gli estremi di una visione manichea della politica economica ma, nella realtà fattuale di quest’Italia allo sbando, il risultato della mediazione di entrambi va contro il cittadino/consumatore che si ritrova comunque costretto a pagare cifre esose per quello che a tutti gli effetti è un bene primario ed inalienabile. Scegliere il male minore è ormai il leitmotiv delle consultazioni elettorali e popolari degli ultimi 20 anni. E poi ci si lamenta dell’astensionismo.

 

Carlo Musilli

Il vero problema non è l'impedimento in sé, quanto l'autorità cui viene affidato il potere di definirlo "legittimo". Quella della Corte di Cassazione sulla legge 51 del 2010 è stata definita una sentenza "salomonica", una bocciatura "parziale". Ma, a ben vedere, è qualcosa di più. Lo scudo che avrebbe permesso a Silvio Berlusconi di liberarsi del diritto penale, infatti, è stato amputato nelle sue parti più caratterizzanti e potenzialmente più utili al premier.

Partiamo dal comma 4 dell'articolo 1, quello che avrebbe permesso alla presidenza del consiglio di "autocertificare" l'impedimento del primo ministro a comparire in aula per sei mesi. Questo punto è stato considerato costituzionalmente illegittimo perché contrario, nientedimeno, all'articolo 3 della Costituzione: "Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge".

Non basta. Della legge sul legittimo impedimento è stato giudicato inaccettabile anche il comma 3 dello stesso articolo 1, in cui si prescriveva al giudice di rinviare l'udienza "impedita" senza proferire verbo. Ed è proprio qui il punto. La consulta ha infatti stabilito che solo e soltanto un giudice può determinare se, a seconda dei casi contingenti, il legittimo impedimento sussiste o meno. Deve cioè valutare se i singoli impegni che affollano l'agenda del premier siano davvero tanto improrogabili da giustificare la sua mancata presenza in aula.

Niente da fare quindi per il cavaliere, neppure stavolta. Prima o poi dovrà rassegnarsi al fatto che il potere esecutivo non può sbarazzarsi di quello giudiziario. E' forse un concetto difficile da assimilare, ma in nessun paese democratico vincere le elezioni è garanzia di impunità.
Verrebbe da chiedersi allora per quale motivo la Corte Costituzionale non abbia bocciato in toto la legge, scegliendo piuttosto la strada della sentenza (parzialmente) interpretativa. Subito viene in mente l'italico cerchiobottismo, ma stavolta non c'entra. La verità è che non c'è nulla di incostituzionale nella semplice idea di "legittimo impedimento". Anzi, è previsto dal nostro Codice Penale.

Qualsiasi cittadino può addurre delle ragioni per motivare la propria assenza in tribunale, ma queste devono essere ritenute valide dall'autorità giudiziaria. Ed è proprio qui che si misura l'assurdità dello scudo Berlusconiano. In sostanza, si pretendeva che la condizione stessa di presidente del Consiglio (e non i singoli impegni istituzionali) assicurasse la legittimità dell'impedimento. Il premier non avrebbe più avuto bisogno di alcuna giustificazione e, finalmente, sarebbe stato davvero al di sopra della legge.

Certo, la sentenza della Consulta non elimina definitivamente tutti i rischi. Non è stato toccato, ad esempio, il comma 1 dell'articolo 2, in cui si aggiungono alla lista degli "impedimenti legittimi" anche le "attività preparatorie e consequenziali, nonché ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di governo". Una dicitura un po' vaga che, se non venisse riformulata, potrebbe comprendere la stragrande maggioranza delle "attività" del primo ministro.

In ogni caso, non si può dire che la sentenza di due giorni fa non rappresenti l'ennesima bocciatura di una legge palesemente ad personam, smaccatamente in mala fede. E la lista si allunga: il legittimo impedimento diventa così il fratellino minore dei due lodi, quello Schifani e quello Alfano. Entrambi giudicati incostituzionali: il primo nel 2004, il secondo nel 2009. Fra le varie violazioni, i lodi contrastavano, nemmeno a dirlo, con l'articolo 3 della Costituzione (il principio di "eguaglianza" non gli va proprio giù).

Ma soprattutto, la Consulta ha inferto un altro duro colpo ai due oscuri legislatori berlusconiani, che accarezzavano l'idea di poter finalmente condurre una vita serena, libera dalle preoccupazioni per i processi del boss. Parliamo di Angelino Alfano e Niccolò Ghedini, rispettivamente ministro della Giustizia e avvocato del premier. O forse il contrario. 

di Bruna Brioni

Con il voto definitivo del 23 dicembre in Senato la riforma Gelmini e l'aziendalizzazione dell'Università hanno preso il via. Con 161 voti favorevoli, 98 contrari e 6 astenuti si è segnata la fine di un lungo periodo di protesta negli atenei e nelle piazze italiane. La politica ha perso su tutti i fronti e non solo per il triste spettacolo di un'inutile rush finale di un'opposizione, quella del Pd, perennemente in letargo, ma anche e soprattutto per l'evidente mancanza di capacità rappresentativa di quelle istanze e bisogni che la protesta degli studenti ha portato alla luce negli ultimi mesi. Da sottolineare, inoltre, che per portare a casa i titoloni di questa riuscita, il testo Gelmini è stato blindato dietro offerta all’opposizione di contentini in sede di mille proroghe.

La società italiana, soprattutto con i giovani, si trova a dover fronteggiare un cambiamento radicale negli stili di vita e nei punti di riferimento più tradizionali. La crisi economica poi rende piuttosto rapido questo cambiamento che gli italiani vivono in pieno regime berlusconiano. Pensiamo solo alla vicenda Fiat, al suo AD Marchionne, osannato come il genio del management e alla trasformazione delle garanzie di un contratto collettivo nazionale in carta straccia. Più di così. Così mentre a sinistra il Partito Democratico si arrabatta sulle “primarie” pare non si riesca  a trovare efficaci argomenti per ricostruire ridare spunti a una sinistra senza fiato.

Intanto l'Università targata Gelmini, dopo la promulgazione del Presidente della Repubblica e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ha bisogno di una serie piuttosto nutrita di decreti e regolamenti attuativi, ma sembra che entro nove mesi sarà cosa fatta. La ministra, infatti, garantisce che "la riforma verrà attuata fin dal prossimo anno accademico" e promette che nei prossimi mesi seguiranno tutti gli adempimenti e i decreti attuativi necessari. Il ddl Gelmini recante "Norme in materia di organizzazione delle Università di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare l’efficienza del sistema universitario" è ora cosa fatta e nei prossimi mesi saranno radicali i cambiamenti strutturali negli Atenei italiani.

Si è parlato a sproposito di organizzazione, ma il cambiamento cui stiamo per assistere sarà radicale, trasformando il volto e la natura dell'istruzione universitaria italiana. Infatti, la parola che meglio descriverebbe questa trasformazione, è "aziendalizzazione"; lo spauracchio per eccellenza del governo per vestire di modernità i tagli indiscriminati ad ogni settore sociale, culturale e in definitiva economico. Le riforme sono solamente una foglia di fico per mascherare i soliti tagli indiscriminati e ne è un esempio tipico la famosa riforma targata Brunetta.

Uno dei punti principali della riforma, riguarda l'organizzazione degli Atenei. Attualmente i Consigli di amministrazione degli Atenei italiani sono composti dal rettore, dal pro rettore, dai rappresentanti di docenti, ricercatori e studenti. Accanto a questi siedono in consiglio rappresentati degli enti locali, quali il Comune, la Provincia, la Regione, della Camera di Commercio e naturalmente da un rappresentate del Ministero dell'Istruzione, Università e ricerca.

Con l'entrata in vigore della riforma il cda degli Atenei sarà ridotto a 11 componenti e almeno 3 dovranno essere esterni, privati. Inoltre, il direttore amministrativo finisce la sua carriera per lasciare il posto alla figura del direttore generale, un manager cui farà capo la complessiva gestione e organizzazione dei servizi e delle risorse, compreso il personale dipendente.

Non solo: per lasciare mano libera al consiglio di amministrazione e alla nuova governance, entra in gioco anche la possibilità di unire o federare università vicine. Questo anche perché i tagli sono stati e saranno sempre più fatali. Ben consapevole di questo il governo delinea con generosità le vie di fuga.

Accanto a questa "ristrutturazione" sono molti gli elementi che confermano l'assenza di qualsiasi fondamento di rinnovamento e confermano che a scrivere il disegno di legge sia stato il ministro Tremonti. Così mentre il denaro scorre a fiumi a vantaggi dei soliti noti e di opere pubbliche mai iniziate (come il ponte sullo stretto) o per opere costruite e subito abbandonate (come a La Maddalena in Sardegna, per il settore cultura, formazione e per tutti i servizi sociali) l'imperativo è uno solo: tagliare.

La scure si abbatte anche sul reclutamento dei ricercatori, che diventano a tutti gli effetti a tempo determinato per un massimo di sei anni. L'accesso ai ruoli di associato e ordinario è lasciato ad un'abilitazione nazionale come condizione di base, cui fanno seguito le attuali procedure di selezione pubblica bandite dalle Università cui potranno accedere solo gli abilitati. Gli altri punti sono specchietti per le allodole, messi lì per fare colore, per distrarre dalla vera finalità di cui sopra. Sempre i tagli.

Solo che si taglia anche e soprattutto sul diritto allo studio, dato che i fondi saranno ridimensionati sensibilmente e, accanto a questi, per compensare secondo la ministra, si introducono dei contributi sulla falsariga dei prestiti d’onore. Significa che lo studente non riceve un contributo, un aiuto. Riceve un “finanziamento” da restituire. Il diritto allo studio dovrebbe prevedere risorse che rendano democratico l’accesso e il conseguimento di un titolo di studio universitario, non un prestito. In sostanza la funzione fondamentale e costituzionale di garanzia d’istruzione, cultura e progresso vengono meno per lasciare il posto ad una sperequazione sociale fatta di privilegi a beneficio di pochi.

Ma tra i famigerati meriti della riforma si ricomprende la famosa parentopoli, cui il governo risponde con un decalogo etico. Invece di garantire il rispetto delle norme, che ci sono, che regolano il reclutamento e l’assunzione di docenti in modo trasparente e corretto per tutti, parenti o no, s’introducono delle incompatibilità in base al grado di parentela.

E’ davvero paradossale: per garantire ciò che è legale, si ricorre all’introduzione di una norma che probabilmente sarà additata come incostituzionale perché lesiva del principio di uguaglianza. Inoltre, non si è presa in considerazione l’eventualità di uno scambio di favori su Atenei diversi: io assumo il tuo, tu assumi il mio.

Quello che è sicuro, e tuttavia poco innovativo, sono i tagli alle risorse destinate a Università, ricerca e diritto allo studio. Non è invece del tutto sicuro che questa possa essere l’ultima riforma del governo Berlusconi che, sotto ricatto della Lega, dovrà mettere insieme qualcosa per il federalismo tanto osannato dalle camicie verdi. Altri tagli incombono.

di Fabrizio Casari

O il voto mi piace, o il voto è ininfluente. O vinco il referendum o il referendum non ha valore. Più o meno questo, al netto di ogni imbellettamento di forma (peraltro scarso) il senso delle parole di Marchionne in relazione al referendum che dovrebbe confermare o smentire l’accordo su Mirafiori. In sostanza, il narciso Ad Fiat ripropone con uguale arroganza quanto già affermò alla vigilia del referendum a Pomigliano, conclusosi però con un 60 per cento a favore e 40 per cento contrario all’accordo sullo stabilimento campano, cioè con percentuali molto lontane da quelle sognate a Corso Marconi.

Anche a Mirafiori, dunque, la musica segue lo stesso spartito. Pomigliano o Torino cambia poco: la volontà del gruppo torinese è la stessa. Il tutto alla faccia di quanti ritenevano opportuno il consenso nella consultazione di Pomigliano, a quello che si riteneva un accordo “particolare”, in quanto dettato da esigenze locali specifiche e non riproponibile per altri impianti. Ma quando mai: il modello Marchionne si è ripresentato anche a Mirafiori.

A confermare che solo gli uomini, nel regno animale, commettono più volte lo stesso errore, il PD e una parte della Cgil ritengono che, anche in questo caso, al referendum si debba votare “si”, perché lo scambio indecente tra diritti e lavoro è frutto velenoso ma obbligato della necessità di rilanciare gli investimenti Fiat nel comparto auto. C’è da sperare che la Cgil non arrivi a una prova di forza con i suoi metalmeccanici: la Segreteria Camusso dovrà fare attenzione alle prossime mosse, giacché la Ggil Pensioni e la Funzione Pubblica, i due maggiori sindacati di categoria di Corso D’Italia, si sono già schierati con la FIOM.

Sarà quindi opportuno che la Camusso non ceda alle tentazioni verticistiche verso l’interno e alle sirene dall’esterno di chi auspica la frattura tra FIOM e CGIL: auspicare una spaccatura è un consiglio interessato da parte di chi spera in una divisione dell’unico sindacato confederale degno di tal nome, che permetta nel prossimo futuro l’esportazione agevole del modello Marchionne anche in altri comparti pubblici e privati del Paese.

Bisognerebbe accettare l’accordo in cambio degli investimenti? A parte l’assurdità di porre in contrapposizione i diritti dei lavoratori e le regole della rappresentanza con gli investimenti produttivi, di quali investimenti si parla? Non si sa, giacché Marchionne si guarda bene dallo specificarli. Di quale piano strategico si tratti idem, a meno di non voler considerare una cosa seria l’idea di vendere 30 milioni di auto in Europa nel prossimo biennio.

Come già rilevato, solo un governo come quello italiano poteva trasformare Marchionne in una guida spirituale del comando d’impresa: oltreoceano, nessuno avrebbe dato all’Ad in cachemire la possibilità di essere vago e non convincente nella proposta, indisponente nelle richieste e arrogante nelle pretese. E solo in Italia l’opposizione può rinunciare all’attività di controllo e di rappresentanza dei lavoratori per fare il controcanto a governo e Confindustria.

Sarebbe interessante allora interrompere la fanfara mediatica di laudatores (non sempre ingenui) della Fiat per porre invece alcune semplici domande. La più stringente riguarda il livello di penetrazione dei prodotti Fiat sul mercato.

E’ di ieri, infatti, la notizia che il gruppo automobilistico torinese ha venduto seicentomila vetture, collocandosi in fondo alla classifica del comparto, distanziati da diverse lunghezze da tedeschi, francesi, giapponesi e statunitensi. E allora: perché produrre di più se nemmeno quanto si produce si riesce a vendere? E se non si riesce a vendere quanto già prodotto, non sarà responsabilità del management e di chi lo guida invece che di chi le macchine le ha realizzate e finite?

Nel mercato italiano, dove pure Fiat gode di condizioni  privilegiate, il mercato dell’auto ha subìto una flessione del 9,2. Ma esaminando i dati di un contesto già negativo, la quota percentuale di presenza della Fiat in Italia si riduce in proporzione molto di più. Secondo il rapporto ministeriale, infatti, nel 2010 la Fiat ha perso il 16,73 della sua quota di mercato, che passa dal 32,8 al 30,1. E se gli italiani acquistano meno automobili, quelle che pure si comprano sono sempre meno Fiat. Wolkswagen? Migliora dell’8,25. Renault? Migliora del 14,99. Opel? Cresce dello 0,42. E allora?

La verità è che la Fiat produce automobili il cui valore oggettivo è molto al di sotto del valore commerciale. Al confronto con le case tedesche, francesi, giapponesi e statunitensi, una Fiat vale molto meno e costa più o meno la stessa cifra. Sarà per questo - e non per l’assenteismo, gli scioperi, le pause o le malattie dei lavoratori - che le Fiat restano invendute? Le auto progettate da Corso Marconi hanno una capacità d’innovazione di prodotto infinitamente minore delle loro simili europee e giapponesi e la gamma di modelli proposti sono solo una minima percentuale e a minor qualità di quelli della concorrenza.

Provate a misurare qualità, dotazioni e prezzi di un segmento medio di Toyota o Wolkswagen o Renault e metterla poi a raffronto con una Fiat; il risultato sarà più chiaro di migliaia di parole. Anche aver concentrato su uno o due segmenti la produzione automobilistica è stata una scelta miope, e aver concepito dei modelli che s’innovano dal precedente solo per qualche dettaglio a fronte di migliaia di euro d’aumento, ha definitivamente seppellito speranze e illusioni di una casa automobilistica che, al netto d’incentivi e aiuti di Stato di varia natura, ha dimostrato di essere incapace di stare sul mercato. Perché incapace di progettare, pianificare, realizzare e vendere.

Fiat si rivela un’azienda animata solo dalla volontà di competere attraverso il contenimento del costo per unità di prodotto invece che puntare sulla qualità dello stesso. Pensa forse d’inondare il mercato di auto proponendo vendite a prezzi di saldo? Chiede maggiore produzione ma non riesce a vendere nemmeno quanto già in stock.

Da qui la seconda domanda: è possibile prendere le lucciole della vanagloria Fiat e confonderle con le lanterne dei dati di mercato? E’ possibile, amici del PD, consegnare le chiavi delle relazioni industriali a chi non è in grado nemmeno di svolgere al meglio il lavoro per il quale è profumatamente pagato? Perché chi sogna di espellere la democrazia dai luoghi di lavoro dovrebbe dettare le regole democratiche? E’ possibile che siano i diritti costituzionali, lo Statuto dei lavoratori, la stessa funzione sociale dell’impresa a soccombere di fronte alle pretese di industriali che cominciano a sembrare più che altro dei nuovi agrari?

 

di mazzetta

Il nostro paese esce dal 2010 più povero e scassato di come vi era entrato, ma nonostante tutto ancora intero. I primi dieci anni del secolo non sono stati facili per l'Italia che, oltre a dover far spazio al sorgere dei paesi asiatici e ad altre economie ormai ruggenti, come quella del Brasile, sembra aver imboccato una pericolosa discesa verso una decadenza che va ben oltre le sofferenze dell'economia.

Una decadenza che è prima di tutto culturale, tanto che oggi parlare di cultura sembra quasi fuori posto e davvero interessare a pochi; una decadenza che sembra inarrestabile, almeno ad osservare la quasi totale assenza di ribellione e a questo tristo destino. Non è solo colpa del berlusconismo o del localismo leghista, se oggi l'Italia appare più provinciale e meno influente che mai; anche la sinistra in disfacimento ha contribuito per la sua quota-parte.

E non è solo colpa del pensiero unico, di quella globalizzazione dei capitali che ha universalizzato lo sfruttamento dei lavoratori e dei territori. Il crollo del muro di Berlino ha fatto saltare un contrappeso importante. Il trionfo sul comunismo ha dato vita a un'élite globale priva di aspirazioni che non siano la conservazione e la monetizzazione del potere, il sistema economico è  stato liberato dalle poche regole sagge che ne limitavano gli eccessi e il crollo di Wall Street e dell'economia americana sono state le ovvie e previste conseguenze di questo procedere in ordine sparso al saccheggio.

In Italia va peggio che altrove: qui la crisi delle classi dirigenti è assoluta, non ci sono idee e non ci sono alternative al vuoto pneumatico della politica. Lo Stato è da anni in ostaggio dei problemi di Berlusconi e i suoi ministri da taverna si esibiscono senza ritegno su copioni che erano già indegni al tramonto del secolo scorso. Manca qualsiasi tensione etica, manca qualsiasi senso del limite, la calunnia e il falso sono moneta comune, la politica spettacolare ha travolto l'antica arte della mediazione democratica tra gli interessi e consegnato il paese a un continuo show che si ripete inevitabilmente uguale da anni. Uno show al riparo del quale gli interessi più forti prosperano a spese dei più deboli.

L'anno si è chiuso con il Presidente del Consiglio che si è comprato alcuni deputati alla luce del sole (pagandoli con fondi pubblici) per risolvere il problema posto dall'ammutinamento di chi ha lanciato la volata alla sua successione senza essere capace di vincerla. Il maggiore partito d'opposizione è un'informe aggregato di gente che pensa tutto e il contrario di tutto e che continua ad inseguire i voti a destra, perdendone molti di più tra i proprio sostenitori storici. Ma se poi capita che la grande speranza bianca della sinistra italiana cade dalle scale e i suoi gridino all'aggressione, ecco che si capisce come siano ridotte le speranze dei molti italiani che voterebbero volentieri un partito che sia all'altezza delle pur scolorite sinistre europee

La melma consociativa sembra sommergere il paese, il governo delle destre fa politica attaccando i comunisti che non ci sono più, i magistrati e gli immigrati, gridando contro le tasse che intanto eleva per nutrire i propri complici nel sacco della cosa pubblica. Il sistema, che si voleva riformare in senso bipartitico collassa ed esplode in mille partitini, specchio delle camarille e delle complicità nascoste sotto il velo istituzionale.

Eppure il paese resiste. Resistono eroici gli insegnanti messi all'indice dal governo che vuole demolire l'istruzione per favorire l'affermazione della politica spettacolare. Resistono i lavoratori della sanità, una delle migliori al mondo, sotto i colpi dei tagli e dei servizi giornalistici sulla “malasanità” che non esiste. Resistono i lavoratori della pubblica sicurezza, ai quali il governo sottrae il merito della lotta anticrimine e che sono mandati in piazza a rispondere con i manganelli alle domande dei cittadini, ai quali il governo non risponde mai perché è meglio schivare il merito quando non si possono dire che menzogne per difendere politiche criminali.

Un paese che ha due polizie e che manda anche la Guardia di Finanza a svolgere compiti di servizio di piazza è sicuramente che ha qualche problema strutturale, evidentemente ostaggio di corporazioni e interessi noti quanto inconfessabili; ma il potere che risponde ai cittadini esclusivamente con la polizia, è un potere destinato a non avere futuro.

Resistono anche i lavoratori che non lavorano più, resistono i cittadini ai quali il governo taglia i servizi per spendere miliardi di euro in armi che la nostra Costituzione impedirebbe di usare, per rispondere a minacce che non esistono. Quelle spacciate sono le solite minacce create dal nulla dalla grande macchina della paura che funziona un po' come il racket mafioso: prima passa qualcuno a far danni o a seminar paura e subito dopo appare il governo ad offrire la sua protezione. Passata la minaccia islamica e quella degli immigrati stupratori, ci si è dovuti accontentare di suonare l'allarme-nomadi, un calando oltre il quale non si sa cosa ci attenda.

L'italiano resiste grazie al welfare familiare, così come la cultura resiste attraverso la solidarietà di chi ancora crede che sia l'unico strumento per emanciparsi dalla barbarie e incamminarsi verso una civiltà più evoluta. Ogni mattina gli italiani si alzano indifferenti allo schifo della politica e si mettono al lavoro in condizioni sempre più precarie e scoraggianti, mentre una schiera di fenomeni che non hanno mai lavorato in vita loro gli urla che sono bamboccioni, fannulloni e parassiti, quando non addirittura teppisti, traditori o terroristi.

È davvero un grande paese quello che riesce a non andare in pezzi in queste condizioni, non è solo fortuna e non è solo la famosa arte di arrangiarsi, ci dev'essere per forza qualcosa di più. Forse un antico retaggio dell'età comunale, che insegnò agli italiani che si poteva vivere e ci si poteva organizzare senza attendere le decisioni di signori lontani o di imperi che governavano per procura.

Non è detto che basti per sopravvivere alla decadenza delle classi dirigenti e a quella dell'economia nazionale. Così come non è detto che, sparito Berlusconi e il suo seguito di nani e ballerine, questa forza sia sufficiente ad invertire la tendenza ormai radicata a buttare alle ortiche le grandi conquiste culturali e sociali che tanto sangue sono costate nel secolo scorso.

Occorre però avere un minimo di fiducia nella capacità degli italiani e delle italiane. Se non si vuole gettare la spugna e abbandonarsi alla malinconia e alla rassegnazione di un lento declino che a molti appare inevitabile, occorre rinnovare agli italiani quella fiducia tradita dalle classi dirigenti e rifiutare la politica del potere che prospera sulle divisioni e sulle contrapposizioni, che lavora incessantemente per costruire e mantenere.

Siamo un grande paese, nonostante chi ci rappresenta non valga la metà di un signorotto feudale dei tempi che furono, è bene ricordarlo e anche bene crederci, almeno fino a che si può. Come cittadini forse ci meritiamo molto di quello che ci sta succedendo, ma non ci meritiamo anche di peggio; sta a ciascuno di noi contribuire con parte delle rispettive qualità e attività a fare in modo che la decadenza si arresti e il peggio non si materializzi. Sappiamo benissimo di non poter contare sui leader, sui partiti, sui sindacati o sui media e sappiamo che il nostro futuro e quello dei nostri discendenti è solo nelle nostre mani. Non resta che augurarci reciprocamente buon lavoro e mettersi all'opera.


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