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di Rosa Ana De Santis
La Consulta ha affossato un pezzo importante del pacchetto sicurezza del governo. Per i giudici della Corte Costituzionale, l’immigrato che non dovesse ottemperare all’ordine di allontanamento per condizioni d’indigenza, non potrà essere perseguito. S’incrina così l’architettura del reato di clandestinità, diventato dogma preliminare e fondante di un’autentica persecuzione per gli stranieri presenti sul territorio nazionale.
A rivolgersi alla Suprema Corte era stato il Tribunale di Voghera, che chiedeva una corretta interpretazione sul caso di una donna impossibilitata per estrema indigenza a lasciare l’Italia. Se l’osservanza al precetto - dichiarano ora i giudici della Corte - è “inesigibile” per impedimenti soggettivi e oggettivi, non possono scattare gli inasprimenti repressivi che il governo Berlusconi ha proposto.
La sentenza è importante e, azzerando l’aggravante della clandestinità, è destinata a sollevare un ripensamento profondo e sistematico del pacchetto sicurezza e della modalità con cui il governo ha approcciato la questione degli immigrati e della loro regolarizzazione. Un modo “miope” - come l’Europa ci ha rimproverato in più occasioni - oltre che ingiusto rispetto al contributo importante che il lavoro degli stranieri ha portato nelle tasche dell’ economia italiana.
Ci ha pensato il presidente della Repubblica a ricordarlo nella Giornata Nazionale dei Migranti, ribadendo il valore imprescindibile dell’integrazione e la necessità di attrezzarsi a sostenerla e a gestirla. Non ad evitarla come certa politica xenofoba, avallata dall’esecutivo, ha provato a fare in tutti i modi.
L’Italia è già, nei fatti, paese d’immigrati. Lo è nei fatti, ma non sulla carta delle legge o sui tavoli istituzionali. Lavoratori, ragazzi e bambini nelle scuole, imprenditori, acquirenti di case e gestori di esercizi commerciali, sono immigrati. La rimozione culturale con cui gli italiani rispondono è un segnale preoccupante che ci tiene lontani dai traguardi importanti di paesi come la Gran Bretagna (ad esempio) dove gli stranieri hanno pagato un 37% di tasse in più rispetto ai servizi pubblici di cui hanno beneficiato. In uno scenario di paesi industrializzati la cui popolazione cresce poco, quasi zero come in Italia, rifiutare l’apertura all’immigrazione equivale ad un suicidio economico, oltre che culturale.
Ma il nostro è il paese in cui una scuola come la Pisacane di Roma, la più multietnica della Capitale perché 8 bambini su dieci sono figli di stranieri, diventa un caso mediatico e viene evitata dalle famiglie italiane alla stregua di un ghetto, mentre da un’altra parte la scuola di Adro sostituisce il tricolore con i simboli presi a prestito dal Carroccio. Difficile vedere in queste reazioni segnali di evoluzione o di apertura. Ma anche questa volta i giudici saranno “comunisti incalliti”, la loro sentenza una “mossa politica” e gli italiani la stessa “brava gente” di sempre.
La sensazione è che ora l’attenzione e l’energia del Cavaliere e del suo cda di governo siano spostate altrove. Lontano dalla popolazione, a maggior ragione da quella straniera. L’Italia è intrappolata nel walzer dei corteggiamenti e nel salto della quaglia degli onorevoli indecisi. La politica è ripiegata su se stessa, tutto il Paese lo è.
Gli stranieri rimangano sulle gru o nei cantieri. Del resto nulla si fa, da molto tempo, tantomeno con la finta meritocrazia della Gelmini, per impedire che i cervelli italiani vadano a fare scoperte scientifiche altrove, che lascino i nostri laboratori vuoti, le nostre aule deserte.
Un paese che chiude le porte all’immigrazione e che non ferma l’emorragia della propria emigrazione è un paese che vuole morire. E questo, purtroppo, non è ancora un reato, ma un meritato epilogo per aver scelto gli uomini e le donne della “libertà”.
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di Mariavittoria Orsolato
Scene di guerriglia urbana salutano l’ennesima beffa che Berlusconi è riuscito a rifilare all’Italia. Una Roma paurosamente somigliante alla Genova del 2001 racconta la rabbia delle migliaia di manifestanti, accorsi nella capitale per dare la misura dell’esasperazione di un paese abbandonato a sé stesso. Ci sono gli studenti medi ed universitari che reclamano un futuro, ci sono i terremotati dell’Abruzzo, gli operai cassaintegrati della Fiom e i cittadini campani sommersi dai rifiuti. Oltre 100.000 persone provenienti da categorie sociali eterogenee, accomunate dalla posizione di svantaggio e subalternità cui la politica li ha costretti a sottostare.
Il serpentone dell’opposizione sociale ha sfilato pacificamente per le vie di una Roma militarizzata fino alle 14 circa, quando le voci concitate confermano la notizia che Berlusconi ha ottenuto la fiducia. Da quel momento, ennesima goccia di frustrazione in un otre ormai colma di risentimento, la protesta si è trasformata in guerriglia e i manifestanti si sono improvvisamente trasfigurati - questo a detta della stampa “che conta” - in pericolosi “black block”. Gli scontri hanno caratterizzato zone diverse della capitale ed anche nelle altre città italiane (tra cui Milano, Palermo, Bologna, Torino, Napoli e Cosenza) gli studenti che non si sono potuti permettere la trasferta romana, hanno sfilato e protestato contro il governo e contro l’ennesima evidenza che la politica italiana non è cosa per gente onesta.
Mentre le vie del centro si riempivano dell’odore acre dei lacrimogeni e si coloravano dei riverberi di camionette delle forze dell’ordine in fiamme, gli onorevoli restavano barricati nelle due Camere in attesa che la zona rossa stabilita dal sindaco Alemanno fosse attestata come sicura. Una piccola vittoria per i manifestanti impegnati nella protesta, un noioso contrattempo per i parlamentari ansiosi di rilasciare le loro ovvie dichiarazioni ai primi microfoni disponibili.
Due contesti agli antipodi, che però convivono in questo 14 dicembre, data da considerarsi ormai paradigmatica nella cronistoria della seconda repubblica. Due contesti che, nella loro evidente antitesi, non possono fare altro che produrre le immagini a cui tutti ieri abbiamo assistito.
Sebbene il dubbio che il “povero” Cossiga instillò solo un paio di anni fa - agenti infiltrati nelle file dei manifestanti per creare disordini ad hoc - si faccia strada ogni qual volta si vedano scontri di piazza, è innegabile che l’esplosione di violenza che ha travolto la capitale sia soprattutto il frutto di un sentimento viscerale che in molti tra i presenti ai più di 10 cortei evidentemente condividono e che le provocazioni dei finti manifestanti ritratti da La Repubblica non hanno fatto altro che amplificare. La manifestazione collerica, il lancio esasperato di qualsivoglia oggetto e l’uso di armi improprie sono le espressioni evidenti di un malessere sociale che ormai non è più possibile sedare con annunci rassicuranti e promesse fatue.
La conferma della fiducia a quello che a tutti gli effetti è il quarto governo Berlusconi è anche la conferma che l’enorme rete clientelare che avviluppa lo Stato ha avuto la meglio sul buonsenso avvocato da una società civile sull’orlo di una guerra fratricida a causa di scelte istituzionali spregiudicate negli annunci e del tutto disastrose negli effetti. E quando la frustrazione incontra l’impeto giovanile e la disperazione di chi non trova echi - causa latenza imperitura di un’opposizione credibile - e la possibilità di essere incanalati in un’azione politica concreta, Roma, eterno simbolo di potere, viene messa a ferro e fuoco.
Quanti dicono che i fatti di ieri sono arrivati come un fulmine a ciel sereno peccano di ingenuità o di eccessiva malizia: la reazione della folla alla fumata nera di Montecitorio era assolutamente prevedibile. Certo, l’emulazione dei colleghi inglesi deve aver giocoforza influito sulla dose di coraggio dei ragazzi italiani, ma non è più possibile liquidare gli eventi appena trascorsi come smargiassate di pochi teppisti o azioni faziose degli autonomi: portare avanti i cortei anche dopo la notizia della fiducia è stata una richiesta dei manifestanti e non il diktat dei centri sociali o dei facinorosi.
La rabbia, l’odio e le esplosioni di violenza saranno anche ascrivibili a pochi, ma sono l’ineluttabile risultato dei sogni infranti di un’intera generazione, privata della previdenza sociale così come della facoltà di progettare e sognare un futuro diverso dalla precarietà imposta dall’alto. Se alle richieste di aiuto e di attenzione, le istituzioni tutte rispondono con autoreferenzialità ed evidente egoismo, il dialogo si trasforma in scontro e le possibilità di mediazione diventano lacerazioni insanabili all’interno del complesso tessuto sociale.
La totale inadeguatezza dell’attuale sinistra a raccogliere le istanze rivendicate dal risveglio delle coscienze studentesche porta, come fu durante il ’77, a far perdere la bussola a quanti, con le migliori intenzioni, lavorano e cogitano in prospettiva di un futuro migliore e di un paese più giusto. La completa autogestione della protesta rischia, infatti, di prestare il fianco alle inevitabili polemiche da talk-show e di far defezionare così anche i tanti moderati che, pur condividendo le motivazioni della contestazione, non vedono di buon occhio l’azione diretta o esasperata.
Cento feriti rispondono a un bollettino di guerra e non ai numeri di una manifestazione: l’opinione pubblica, nella sua confortante ignoranza, potrebbe ribaltare il suo giudizio e negare quella naturale simpatia che spetta a dei giovani pieni di voglia di partecipazione e sacrosante rivendicazioni. Le cronache raccontano come ieri in mattinata le casalinghe del centro romano si sporgessero dai balconi per gridare la loro solidarietà ai manifestanti, mentre nella serata bersagliassero le stesse persone di insulti per i disagi arrecati.
Questa è l’Italia, un paese in cui distruggere tutto non serve a nulla, ma dove nemmeno manifestare sembra riuscire ad ottenere udienza; un paese in cui le proteste contro Berlusconi rischiano persino di rafforzarlo. Una dittatura del paradosso che tiranneggia gli umori popolari e censura ogni afflato di libertà intellettuale. I manifestanti ieri, in modo condivisibile o meno, hanno provato a gridarlo. Purtroppo anche stavolta non verranno ascoltati.
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di Rosa Ana De Santis
Il business sulle esecuzioni capitali, da gennaio 2011 partirà dalla sede italiana di Liscate (Milano) dell’azienda farmaceutica Hospira. Questo denuncia il dossier di “Nessuno tocchi Caino” e l’ong “Reprieve”. Il Pentotal, barbiturico ormai inutilizzato per gli ospedali, verrà prodotto per essere utilizzato nei protocolli USA dell’iniezione letale. Un carteggio svelato tra l'ufficio del governatore del Kentucky e una dirigente della società di Lake Forest lo dimostra.
Quindi mentre l’Inghilterra dice no, l’Italia subisce pressioni fortissime per diventare il magazzino della pena di morte. Una contraddizione imbarazzante per un paese da sempre impegnato nella moratoria universale contro la pena di morte. Per non dire delle nostre Istituzioni che in tutte le salse portano avanti campagne per la difesa della vita. Papa compreso, che della sua extraterritorialità si dimentica molto spesso in cambio d’ingerenze fortissime nella vita politica italiana. Se ne ricorderà nel prossimo angelus o nella prossima lettera ai fedeli?
Le tantissime esecuzioni in sospeso hanno indotto le autorità federali a investire ancora di più nel modernissimo stabilimento di Liscate. Il marketing del macabro è proprio tutto qui. L’amministratore delegato di Hospira Italia, Giuseppe Riva, si è difeso sostenendo che il Pentotal serve solo nella fase preparatoria dell’esecuzione, come anestetico. Gli basta poco per sentirsi sollevato.
Nel frattempo é stato depositato un esposto alla Procura di Milano dal presidente dei Verdi Angelo Bonelli e l’accusa per i vertici di Hospira potrebbe essere quella di “concorso in omicidio”. L’auspicio è che il “governo della vita” decida di intervenire con forza su questa questione pesantissima e di non evitarla per assecondare i dicktat americani e il solleticante profitto. L’episodio ci creerà più di qualche problema alla prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
L’Italia si racconta, ancora una volta, con l’ipocrisia che ha sempre contraddistinto la nostra politica. Viene in mente il caso delle mine anti uomo. Anche li siamo sempre stati contro, ma lo stop alle produzioni è arrivato soltanto nel 1997 e si continua a tollerare, senza alcuna parola di condanna, che le maggiori banche italiane continuino indisturbate ad investire nelle aziende che le producono.
Del resto quello che accade nello stabilimento di Hospira non è altro che un effetto fisiologico, e non patologico, di una certa forma mentis che governa il mercato e, nel caso specifico italiano, del rapporto di subalternità che ci lega all’impero degli Stati Uniti d’America. Altro che Russia. Non si capisce perché certe pratiche contrarie ai diritti umani, ad esempio lo sfruttamento della manodopera e le condizioni disumane di lavoro, diventino argomenti di agitazione politico-istituzionale straordinaria.
Forse perché si tratta di cinesi e delle loro imprese tessili che tolgono guadagno alle nostre? La contrarietà di certe pratiche ai valori in cui si riconosce il nostro paese è evidente che diventa una questione di attenzione politica solo quando si tratta di paesi “canaglia” (come li chiamano gli USA) o di affari di casa nostra. La coerenza della teoria vacilla un po’.
Negli Stati Uniti la carenza di Sodium Thiopental e l’imminente scadenza delle dosi presenti sta generando una moratoria de facto nelle carceri americane. Noi però ci stiamo dando un gran da fare per far ripartire la macchina della morte. La sensazione è che si dovrebbe impedire la produzione e l’esportazione di un farmaco il cui utilizzo, carte alla mano, è finalizzato all’uccisione di detenuti. Perché, semplicemente, la legge italiana condanna la pena di morte. Oppure il rispetto della legge vale solo quando si tratta di tecniche di fecondazione assistita, di crio-congelazione degli embrioni o di diagnosi pre-impianto?
Questa applicazione parziale dell’inno alla vita, che è capace di mobilitare Camera e Senato o su bambini mai nati o su persone che scelgono liberamente di morire, è il ritratto di un paese imprigionato in battaglie ridicole e fallimentari. La conseguenza è che i cittadini ricchi di questo paese vanno a pochi km a fare tutto quello che la legge 40 gli vieta di fare in Italia, così come gli aspiranti suicidi continuano a suicidarsi. Mentre i detenuti americani, persone coscienti in carne ed ossa che vengono uccisi dallo Stato, alcuni dei quali inchiodati nel braccio della morte da un ingiusto processo, ricevono proprio dal Belpaese della vita il boia della loro ultima ora.
Siamo ridotti ad un arlecchino della morale e della coerenza. Una sintesi di business e di devozione agli USA che ci fa dubitare in qualsiasi seria reazione di forza sul caso Hospira Italia. Siamo pronti a batterci per la difesa del parmigiano reggiano, per la vita degli embrioni e per i malati terminali. Ma sulla vita di condannati a morte per ora preferiamo limitarci ad accendere le fiaccole sotto gli archi del Colosseo. Che si trova a distanza ragguardevole dall’ambasciata Usa.
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di Mariavittoria Orsolato
Mentre a Montecitorio “l’epocale” e tormentissima riforma Gelmini cadeva per ben due volte sotto il fuoco amico di Futuro e Libertà per poi passare in serata con 307 voti a favore e 252 contrari, l’Italia della scuola e della ricerca mandava in tilt l’intera penisola. A Bologna gli studenti medi ed universitari hanno paralizzato l’autostrada A14, a Roma i manifestanti cercano di irrompere a Montecitorio e a Pisa, Milano, Mestre, Padova e Catania le stazioni ferroviarie sono state occupate.
Il movimento studentesco forte di 450.000 adesioni, alza il livello dello scontro e poco importa se per l’acciaccato Berlusconi “i veri studenti stanno sui libri, quelli in piazza sono i fuori corso e quelli dei centri sociali”: dal variegato mondo dell’istruzione e della ricerca il no alla disarticolazione della scuola pubblica arriva forte e chiaro.
Com’è ovvio e ormai scontato, la rabbia di quella che a tutti gli effetti è una generazione precaria viene etichettata dalle istituzioni come sfacciata pelandroneria, pungolata dall’antagonismo a tutti i costi dei centri sociali e dalla bramosia dei baroni di mantenere i propri privilegi. Certo quella di ieri è stata una protesta forte e a tratti tumultuosa, gli scontri con le forze dell’ordine non sono mancati ed i disagi per la popolazione sono stati evidenti. Ma anche dall’altra parte della barricata, quella che Pasolini difese a spada tratta commentando gli scontri sessantottini di Valle Giulia, la tensione ha portato a forzare la mano nella difesa delle tante zone rosse cui erano preposti a presidiare.
Quarantadue anni dopo non ci sono più i figli dei borghesi a scontrarsi con i celerini proletari, oggi il mondo degli studenti è trasversale per ceto ma quanto mai eterogeneo nel destino di precarietà che attende i neolaureati e i preziosi ricercatori ed è proprio questo disperato bisogno di certezze che spinge un’intera generazione a reclamare diritti e soprattutto attenzione. Un’attenzione che non vuole essere catalizzata sulla meccanica del dissenso ma che è richiesta innanzitutto in merito ai punti voluti dalla riforma di cui Maria Stella Gelmini è evidentemente uno
strumento inconsapevole.
Giusto per rinfrescare la memoria è buona cosa ricordare che il ddl Gelmini-Tremonti consta di tre titoli e 25 miserremi articoli per smantellare l’università a la sua ricerca in tre semplici mosse: una riorganizzazione degli atenei in visione di una stretta collaborazione finanziaria con le aziende private, un’ampia delega al governo per integrare a colpi di decreto un’improbabile corsa all’eccellenza ed infine nuove e più stringenti regole sul reclutamento di docenti e ricercatori.
Dagli atenei in rivolta e dal più vasto mondo della cultura il progetto del Governo viene sezionato punto per punto e si tradurrebbe nella realtà in una deriva aziendalistica delle università, nella definitiva precarizzazione della ricerca universitaria e dei ricercatori e nell'affievolirsi delle attuali misure sul diritto allo studio.
Secondo il testo uscito ieri dalla Camera, le università del futuro saranno infatti guidate da rettori ingombranti che, oltre a diventare rappresentati legali degli atenei e coordinatoi unici delle attività scientifiche e didattiche, presiederanno gli organismi chiave delle istituzioni universitarie, coadiuvati da soggetti privati che la riforma prevede entrare in quelli che saranno veri e propri consigli di amministrazione.
Per far fronte comune alla penuria di risorse data dai tagli indiscriminati imposti dal tesoriere Tremonti, gli atenei potranno federarsi o fondersi e un non specificato "fondo per il merito" arriverà a ad attribuire premi e borse di studio, ma solo attraverso il palcet del ministro stesso. Gli emendamenti sui cui è scivolata la maggioranza prevedono la cosiddetta norma "anti-parentopoli", che dovrebbe impedire la chiamata di parenti fino al quarto grado, e vanno a ripristinare gli scatti meritocratrici per docenti e ricercatori degni. In più grazie al testo presentato da Futuro e Libertà è prevista l'assunzione di 4500 associati nel triennio 2011-2013.
Per quanto le correzioni approvate ieri paiano ripristinare una parte dei finanziamenti, dall'opposizione e dal movimento studentesco si replica che i soldi nelle casse di Stato non ci sono e che l'obolo di 800.000 euro previsto dalla finanziaria di quest'anno, non essendo ancora stata approvata, è solo uno specchietto per allodole.
Sebbene Fli si sia presa il merito di aver emendato un testo inviso a molti, il ribaltone che gli studenti e parte dell'opposizione si erano augurati non si è verificato ed ora il disegno di legge più dibattuto del terzo governo Berlusconi torna per la terza volta al Senato.
La calendarizzazione non è ancora stata indicata, ma vista la verifica di Governo prevista per il prossimo 14 dicembre, i tempi suggeriscono di fissare il voto entro il 13. Il presidente Schifani ha indetto per giovedì una riunione con i capigruppo, ma appare evidente che un'accelerazione dell'iter sarebbe possibile solo nel caso in cui si verificasse il voto unanime di tutte le parti politiche
La riforma Gelmini non sarà quindi ricordata come il provvedimento che fece finalmente cadere il Governo auticratico del Caimano, ma sicuramente rimarrà negli annali come forza motrice della rinnovata partecipazione studentesca alla vita politica. Un sonno che, indotto dai lutti degli anni di piombo e del panciuto benessere degli anni ottanta, viene finalmente interrotto e fa sperare nuovamente in una riscossa del piccolo Davide contro il gigante Golia.
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di Fabrizio Casari
Sono belli gli studenti, bellissimi. Ci piacciono nelle foto festanti e ci piacciono nelle aule, anche quando sono occupate. Perché nelle aule s’insegna, a volte bene, ma quando sono occupate s’impara, a volte molto. E ci piacciono gli studenti anche quando li vediamo stampati sotto ai palazzi del potere a ricordargli che fessi non li fanno, che se ora votano i parlamentari, poi saranno gli studenti a votare. Per tentare di entrare nelle sedi delle (loro) Istituzioni si scontrano con la polizia, perché solo alcune giovani possono entrare scortate e nottetempo. Ci piace vederli, perché abbiamo la sensazione, ogni volta, che la ribellione precedente, sconfitta o no, non è stata l’ultima.
Ci piacciono perché sono la quota generazionale d’indisponibilità al tacito consenso. Perché non c’è stata mai evoluzione sociale che non sia nata da una ribellione e non c’è stata mai una ribellione che non sia nata dagli studenti. Ci piacciono perché sono coloro che non hanno le spalle curve e lo sguardo basso, che cercano di scegliersi la vita, provando a cambiare quello che della loro non gli piace.
Che conoscono la solidarietà dei tanti, che usano più il Noi che l’Io. Che sanno distinguere tra destra e sinistra senza bisogno di saperlo da Fini e Bersani. Perché imparano in fretta una legge fondamentale: sarai quello che saprai e avrai quello che strapperai. E ci piacciono, gli studenti, anche perché li compatiamo, essendo la generazione che dovrà caricarsi sulle spalle i nostri fallimenti. Ci piacciono perché siamo padri e madri.
L’Italia, in 150 anni di storia ha avuto governi raramente all’altezza delle necessità di crescita e sviluppo necessari per il paese. Sono diverse le specializzazioni tragicomiche dei dicasteri italiani; la versione tragica è certamente quella del Ministero dell’Interno, quella comica è stata di quello della Cultura. Ma quella più deleteria, storicamente, è stata la poltrona del Ministero dell’Istruzione. Uno di quelli che negli ultimi anni ha cambiato denominazione, provvedendo tra l’altro, in un sommo atto di coerenza, all’abolizione dell’aggettivo “Pubblica”.
Quasi fosse una sorta di outing istituzionale, un’ammissione di colpa politica, era in effetti un disegno strategico. La scuola pubblica viene spolpata ogni anno per stornare fondi verso quella privata, in spregio della Costituzione. Privata ormai, infatti, è la spesa destinata dai governi succedutisi negli ultimi 15 anni all’istruzione; di pubblico resta solo la fattura da pagare, tutta in capo alla fiscalità generale, cioè ai contribuenti.
Precisamente 526 milioni di euro, mica bruscolini. Per giunta, 245 in più di quelli già assegnati precedentemente dal governo del fare (cassa). Non a caso è stata messa lì un soggetto come Maria Stella Gelmini. La Gelmini è il peggior Ministro dell’istruzione che l’Italia abbia mai avuto. La più ideologicamente invasata, la meno capace di concepire un progetto sistemico, la meno dotata di spessore culturale e capacità politica. La persona meno qualificata sotto ogni profilo della sgangherata compagine governativa in servizio presso la real casa.
Un errore quello di credere che sia solo impotente davanti alle richieste di tagli di Tremonti, cosa comunque possibile. La verità è che la Gelmini i tagli li condivide; anzi, fosse per lei, ne farebbe di più. Del resto, per quale motivo investire sulla qualità (e persino sull’esistenza stessa) della formazione culturale quando, come lei ha dimostrato, basta cercare qualche scappatoia per acquisire i titoli in modo più facile? La logica è chiara: la scuola pubblica, responsabile dell’ignominiosa scolarizzazione di massa, é un tipo di retrovirus che permette ad un ragazzo di ceto basso di studiare e formarsi per diventare, forse, un professionista di ceto alto. Uno scandalo inaccettabile.
Perché istruire milioni di giovani quando alle nostre imprese ne servono poche decine di migliaia? E perché, quindi, non lasciarne milioni in abbandono scolastico, sì da ottenere un bell’esercito di riserva con braccia a basso costo, senza così doverle importare da fuori? Cosa c’è di più utile che tenerli lontano dalla cultura, (che fa perdere inesorabilmente copie a Chi e a Novella 2000 e riduce gli ascolti del Grande Fratello) facendo in modo che non possano sognare un reddito, al massimo un salario basso e precario?
La privatizzazione della cultura, come l’azzeramento della scuola pubblica, sono fondamenta strutturali della società divisa in classi. Sono la matita con cui disegnare presente e futuro di un modello che nella guerra al lavoro e all’istruzione, nell’odio verso il sapere critico e collettivo, esprime l’odio verso l’emancipazione sociale, verso la riduzione della voragine tra chi la ricchezza la costruisce e poi ne paga i costi e chi, invece, ci si arricchisce. Bisogna dotarsi dei temperini giusti. Si trovano nelle aule ancora disponibili.