di Mariavittoria Orsolato

Gli scontri romani dello scorso 14 dicembre non hanno spostato di una virgola la cocciutaggine del Governo, che nel pomeriggio di ieri ha approvato in Senato - con 161 si, 98 no e 6 astenuti - la tanto contestata riforma dell’università. Il voto era previsto per martedì pomeriggio ma i lavori a Palazzo Madama hanno subito un blocco quando si è scoperto che nel testo un provvedimento modificato veniva poi abolito pochi commi oltre.

Dopo il rifiuto dell’esecutivo di emendare il testo, facendolo tornare per la quarta volta alla Camera e lasciando scorrere così altro tempo prezioso, è subentrato l’ostruzionismo dell’opposizione, che finalmente si degna di adempiere al proprio compito. Tempo sprecato perché purtroppo l’aritmetica delle alleanze e del cerchiobottismo, in questo esecutivo esangue, la fanno comunque da padrone.

Nel frattempo gli studenti medi ed universitari sono tornati in piazza. Roma non è andata di nuovo in fiamme e le manifestazioni in giro per la penisola si sono rivelate pacifiche e composte, anche se a Palermo e a Milano si sono registrati scontri e tafferugli tra i ragazzi e le forze dell’ordine. La giornata è però stata resa significativa dal presidente Napolitano, che ha accettato di ricevere una delegazione di studenti per aver modo di tastare il polso agli umori e alle rivendicazioni dell’Onda studentesca.

La prima carica dello Stato diventa così l’interlocutore unico degli studenti e si dice pronto ad esaminare le alternative che i ragazzi propongono ai tagli indiscriminati e alle nuove lobbies introdotte dalla riforma.

L’incontro è stato preceduto da una lettera che gli studenti avevano inoltrato, oltre che a Napolitano, anche al sindaco Alemanno, al prefetto e al questore di Roma. Solo l’inquilino del Quirinale si è però degnato di rispondere alla gentile richiesta. Il colloquio si è svolto nel clima di conciliazione che dall’avvento di Napolitano caratterizza, forse fin troppo, la Presidenza della Repubblica: gli studenti si sono detti soddisfatti dell’udienza, pur essendo consapevoli che loro è solo una delle istanze impellenti che caratterizzano lo sfacelo di questa seconda repubblica, e hanno definito Napolitano “L‘unico interlocutore istituzionale credibile“.

L’appello al Presidente della Repubblica non è una novità nell’Italia dei disegni di legge votati a suon di fiducia. Già in altre occasioni si è chiesto accoratamente di non firmare questa o quella legge, ma finora l’unico colpo di reni del Quirinale si è registrato sulla legge che mirava ad abolire i diritti sanciti dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Per poter rimandare un testo alle Camere, Napolitano deve infatti rilevarne vizi di costituzionalità e, data la diabolica parsimonia con cui gli scribacchini berlusconiani dosano i loro attacchi alla Costituzione, è improbabile che vengano riscontrati nel ddl Gelmini evidenti segni di incoerenza con il nostro testo fondamentale.

Il gesto di Napolitano è comunque da lodare in seno alla volontà di aprire un dialogo che non sia scandito da zone rosse e manganelli ed è da lodare soprattutto nella misura in cui ha destato dal suo torpore la giovane ministra della Gioventù Giorgia Meloni. Praticamente non pervenuta nel dibattito che in questi due anni ha infiammato il mondo giovanile - eccezion fatta per l’ormai nota “legge Balilla” che vedeva 20 milioni di euro stanziati al fine di organizzare pittoreschi tour di tre settimane in caserme dell’Arma e dell’Esercito - la ministra voluta da Fini ma poi passata all’idolatria per Padron’ Silvio, ha sentito di dover far valere la sua voce istituzionale.

In un’accorata lettera al Presidente della Repubblica, la Meloni infatti chiesto a Napolitano che dopo gli studenti in protesta vengano sentiti dal Colle anche “gli studenti democraticamente eletti nelle consultazioni universitarie nazionali”. Dopo essersi dilungata in apprezzamenti sulla funzione distensiva del Quirinale “segno di dialogo tra le istituzioni e la società”, l’ex presidente di Azione Studentesca (che, ricordiamolo, nel 1992 protestava a gran voce contro la riforma della pubblica istruzione voluta e mai attuata da Rosa Russo Iervolino) vuole mettere in evidenza “il rischio che un’attività parziale di ascolto, che si indirizzi unicamente nei confronti di chi assume posizioni più spiccate di contestazione e dà vita a forme di dura protesta, offra una rappresentazione parziale e quindi distorta della complessiva realtà universitaria”.

Insomma la Meloni pretende che al Quirinale viga la stessa par condicio che ha asfissiato il programma di Fazio e Saviano: un contraddittorio tra gli studenti riottosi e quelli che invece siedono nelle consulte accademiche, probabilmente conscia del fatto che la stragrande maggioranza di questi ultimi appartiene all’area di centro-destra e quindi avrebbe un’opinione del tutto diversa dai ragazzi ricevuti l’altro giorno. Ormai però c’è poco di cui discutere e ancor meno da conciliare: la disarticolazione dell’università pubblica ha ottenuto il sigillo istituzionale tanto agognato e anche se il risultato segna già la crisi del cosiddetto Terzo Polo ( Fli, Udc e Api hanno votato in discordanza), il voto di oggi va aggiungersi alla lunga serie di immeritati successi di un esecutivo sempre arroccato sulle sue assurde posizioni e sempre più distante dalla società civile. 

 

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