di Mariavittoria Orsolato

Le ultime sono note. dalla scuola elementare in provincia di Brescia griffata Lega persino sui banchi alla storica decisione di dare il via al Giro della Padania, che quello d'Italia non gli va più; rischia di vincerlo un terrone. Il battesimo con l'acqua del Po e del Monvisio non basta più. I furbetti del varesotto sono ormai a briglia sciolta.

Dal 1987, anno in cui è stato fondato il partito, la Lega Nord ne ha fatta di strada nell’impervio e insidioso viale della politica italiana. In quelle elezioni i rappresentanti eletti alla Camera furono solamente due, ma già alla tornata successiva - era il 1992 di tangentopoli e delle stragi mafiose - il movimento di quello che già allora era “il Senatur” sfiorava il 9% e piazzava, tra Montecitorio e palazzo Madama, ben 80 deputati.

In quel primo affaccio sulla scena politica, le parole d’ordine della Lega erano “secessione” e “Roma ladrona”: Veneto e Lombardia in massa, Piemonte in parte, premiarono quello che pareva un volto nuovo, fresco e volitivo, un uomo che “ce l’ha duro” o, come più degnamente lo definì il professor Miglio (teorico del federalismo e padre putativo della Lega Nord) “un puritano che vive con estrema modestia”, e che allora, agli occhi del microcosmo imprenditoriale del nord, appariva come la vera alternativa alla nomenklatura della prima repubblica.

In 23 anni di vita politica il partito ha ribalzato ciclicamente tra i banchi della maggioranza e quelli dell’opposizione, facendo addirittura cadere il primo governo Berlusconi nel lontano 1995; il piglio sempre aggressivo, il fare polemico e un perenne nemico contro cui scagliarsi: se agli albori il problema dell’Italia erano i “terroni”, la convivenza con Fini e Berlusconi ha portato a ridisegnare il target prima negli immigrati, poi nei musulmani, quindi nei Rom. Andando con lo zoppo s’impara però a zoppicare e, in questi anni di onorato servizio civico al localismo padano, la tanto vituperata “Roma ladrona” è diventata una seconda una casa: l’unico chiodo su cui la Lega può battere in favore del suo “modesto” elettorato, colpito nel portafogli da una crisi che non accenna a scemare, è il federalismo fiscale.

Pur di perorare la causa il Carroccio ha accettato il ruolo di subalterno nella destra italiana votata all’idolo berlusconiano, ma ora che il re è nudo e la bolla creata dal prestigiatore di Arcore sta per scoppiare, il popolo di Pontida acclama la riscossa e rivendica quel posto di rilievo istituzionale che in 16 anni ha potuto si condizionare, ma mai godere appieno. Il divorzio di Fini da Berlusconi offre infatti un pretesto ghiotto per invocare a gran voce le elezioni e se Bossi e i suoi agiscono in tal modo, è perché sanno per certo che la prossima tornata elettorale potrebbe dare delle soddisfazioni finora insperate.

E anche un modo furbo di proseguire nella raccolta di denaro da parte dei parlamentari del Carroccio; molti di questi, ad oggi, ricoprono (in barba alla legge che lo proibisce) doppi e tripli incarichi sitituzionali. "Roma ladrona" paga lautamente la Lega che non perdona. E non solo di parlamentari e funzionari di partito, ma anche di giornalisti affini. Stando ai dati forniti dal Dipartimento per l'Editoria della Presidenza del Consiglio, in questi 16 anni di vita il quotidiano del partito del celodurista e della Trota, La Padania, ha percepito sotto forma di finanziamento pubblico ben 50 milioni di Euro. Non é quindi strano che, fregandosene bellamente della congiuntura economica e politica, la Lega voglia tornare rapidamente alle urne.

Stando a quelli che sono gli umori popolari propugnati dai sondaggi di Renato Mannheimer, la Lega naviga verso l’11% e raccoglie consensi anche in quelle regioni del centro-nord che, storicamente, fanno parte della cosiddetta “zona rossa” italiana, ovvero Emilia-Romagna (dal 4,8% del 2005 al 7,8%), Umbria (dall’1,7 al 5,3%), Toscana (dall’1,3% al 6,6%) e Marche (dallo 0,9% al 6,8%).

Il Carroccio passa quindi indenne dal “ciarpame” berlusconiano e rimane quel partito a base popolare che tanto colpì le fantasie dei piccoli imprenditori del triveneto, cominciando però ora ad attecchire in settori storicamente deputati alla sinistra come gli operai o i dirigenti pubblici: le regionali di quest’anno ne hanno dato piena conferma con un 12,8% di preferenze complessive e il colpaccio su Veneto e Piemonte.

La Lega Nord mira paradossalmente ad essere un partito nazionale e il bailamme che si è scatenato tra gli scranni della maggioranza offre il fianco di Berlusconi alle frecciate che finora il Senatur aveva tenuto tra i denti in attesa del da farsi. “Per Berlusconi la strada è molto stretta: se tutti i giorni deve andare a chiedere i voti a Fini e a Casini per far passare una legge, non dura molto”.

Questo il commento di Bossi dopo Mirabello, mentre a seguito della riunione dei capigruppo alla Camera, e dopo un incontro con Giulio Tremonti e Roberto Calderoli, il Senatur ha premuto sull’acceleratore spiegando ai cronisti che per arrivare alla crisi che apre la strada alle elezioni anticipate, ci sono due sole strade: le dimissioni di Silvio Berlusconi o un voto di sfiducia da parte della Lega. Salvo poi, una volta incassato il no di Berlusconi, fare rapida marcia indietro, come sovente accade.

La cronaca e la storia, infatti, ci hanno insegnato che le sparate di Bossi solitamente non si realizzano all’atto pratico, ma hanno l’inestimabile pregio di venir prese sul serio dal suo fedelissimo e idolatrante elettorato. Il Premier, infatti, ha subito raffreddato gli entusiasmi del Carroccio ribadendo il suo “dovere di governare” e scongiurando, almeno per ora, lo spauracchio di un elezione già a novembre. Per ora, perché la Lega sa che ormai quello che è stato il suo cavallo di Troia per far breccia nelle istituzioni non gode più del credito o, per meglio dire, del rispetto che l’ha portata a monopolizzare il Paese per 16 anni. Ad ogni piè sospinto Bossi annuncia la calata su Roma di milioni di padani, ma a starlo a sentire sono sempre quatto gatti dall’inconfondibile aspetto di fuoriusciti da osteria.

E se le sue Ronde Padane hanno fatto la fine che meritavano, affogate in un mare d’indifferenza, e se proseguono nel generale ridicolo le sue cerimonie di acqua del Po e le elezioni di Miss Padania, dove il folklore lascia il posto al potere, il Carroccio s’infila come può. Nel grande risiko bancario, la Lega si oppone all’aumento ulteriore di capitale libico in Unicredit, ma solo per appoggiare i suoi uomini ai vertici delle banche locali del Nord e per esercitare un potere d’interdizione nei confronti dei salotti della finanza italiana.

Il partito di Bossi è stato più volte al governo dal 1992 ad oggi. Governa molte città del nord e, ora, anche due regioni. E' il partito che vuole la secessione ma anche no. Vuole il federalismo ma taglia i fondi alle regioni, vuole allontanarsi da Roma ladrona e occupa Montecitorio, Palazzo Madama, la Rai e i ministeri.

Del Carroccio Antonio Martino, forzitaliota della prima ora e Ministro del cavaliere, ha dato una definizione precisa: “Era un partito liberista, diventò laburista con il governo di Lamberto Dini, e adesso è diventato un partito clientelare, che vuole difendere il suo sistema di potere localistico su cui innestare senza cambiamenti il federalismo fiscale”.

Ci sono in ballo voti, potere, gestione di banche aziende, regioni, enti e Istituzioni, tutto quello che la Lega si è accaparrata nel tempo. Berlusconi è ormai alle corde, un personaggio politicamente finito che si aggrappa ai partitucoli da 1% pur di rimanere a galla. Ma sta annaspando e Bossi non aspetta altro che le forze gli vengano meno. Nonostante l’alleanza con Fini sia pressoché un miraggio, il Carroccio ha tutti i numeri in regola per scardinare l’assetto di quella che pretende chiamarsi destra, e un eventuale salto di quantità tra gli scanni delle due Camere potrebbe imporre un’agenda completamente diversa da quella pianificata in anni di alleanze necessarie alla sopravvivenza.

Abbiamo già assaggiato - tanto per citarne alcuni - lo smembramento del sistema sanitario, la forzata autonomia scolastica e le ordinanze assurde e retrograde dei sindaci con i superpoteri voluti da Maroni in nome della sicurezza. Sicuri di volerne ancora?

 

di Alessandro Iacuelli

E' toccato al sindaco di Pollica-Acciaroli, ridente comune del Cilento, località balneare tra le più rinomate d'Italia, cadere sotto i colpi pistola di qualche ignoto. E' non è stato certo un proiettile vagante: nove colpi di pistola, alle 2 del mattino del 6 settembre, mentre era alla guida della sua auto. Nove colpi di pistola entrati tutti dallo stesso finestrino, quello dal lato del guidatore, diretti verso di lui. Esecuzione in piena regola.

Una carriera politica non proprio asservita ai poteri forti, quella di Angelo Vassallo, 57 anni. Eletto in una lista civica, a capo di un comune che uno dei maggiori poli del Parco Nazionale del Cilento, un comune che da anni vede assegnata la bandiera blu alle sue acque, ma anche un comune sotto attacco, da altrettanti anni, dall’edilizia abusiva, dalle speculazioni.

E' proprio l'attività in qualità di sindaco, secondo gli inquirenti, la pista più indicata per arrivare a movente ed esecutori. Infatti, Vassallo era salito alla ribalta delle cronache nazionali, nei mesi scorsi, per denunciare le speculazioni avvenute nella ristrutturazione del Porto di Acciaroli. Il sindaco aveva parlato, esplicitamente, di "lavori eseguiti non a regola d'arte da parte dell'impresa" per la quale il Comune "aveva bloccato le somme destinate al pagamento". L'uomo era già stato sindaco del Comune di Pollica-Acciaroli, ed era al suo secondo mandato, sempre all'interno di una coalizione di centrosinistra.

Il comune si trova in uno dei principali Parchi Nazionali d'Italia, in una delle aree naturalistiche più preziose, da preservare affinchè possa fare da volano al turismo, e non trasformarsi nell'ennesima colata di cemento selvaggio. Come ha fatto notare in un'intervista Nicola Landolfi, segretario provinciale di Salerno del PD, "questo è un fatto di assoluta novità per il territorio cilentano, una svolta epocale di una gravità inaudita. Non si ricorda di episodi criminali di questa efferatezza in una terra fino ad oggi tranquilla. Hanno colpito un simbolo, un ottimo amministratore".

Al di là delle dichiarazioni politiche, il comune presenta un territorio che è una delle maggiori bellezze del Mezzogiorno. Diventa quindi pericolosamente plausibile che l'omicidio sia maturato negli ambienti delle speculazioni edilizie, proprio in quel Cilento che fino ad oggi è stato molto meno pervaso da infiltrazioni di criminalità organizzata, rispetto alla vicina Campania settentrionale.

Il sostituto procuratore di Vallo della Lucania, Alfredo Greco, ha commentato: "E' un agguato in stile camorristico con modalità brutte e pesanti, un’esecuzione cattiva, con troppi colpi sparati". Vassallo, dice Greco, "era una persona perbene, che metteva se stesso davanti all’illegalità. Il medico legale ha stabilito che è morto con i primi colpi, poi ne sono arrivati altri: il cadavere è crivellato di proiettili. Negli ultimi tempi era preoccupato e mi teneva costantemente informato sugli sviluppi di alcune vicende. Era un uomo che si batteva contro l'illegalità ed era sempre in prima linea. Quando accadeva qualcosa di particolare sul suo territorio, me lo segnalava".

A commentare l'accaduto anche Raffaele Marino, procuratore aggiunto a Torre Annunziata, da anni amico di Vassallo: "E' stato ucciso per un no di troppo. Un no pronunciato a gente che non ammette risposte negative. Un no detto in faccia alla camorra. Non ho dubbi".

Cosa è successo ad Acciaroli? E' successo che dopo decenni d’immobilismo, un bel giorno è arrivato un nuovo sindaco, che ha trasformato in breve tempo il porto e il centro storico in dei gioielli, salvaguardando sempre la legalità. Acciaroli, da località "fuori mano", lontana da autostrade e dal mercato del turismo di massa stile riviera adriatica, è rinata. Probabilmente, proprio la rinascita di Acciaroli ha suscitato appetiti forti; a raccontarlo sono proprio le modalità del delitto.

Angelo Vassallo verrà ricordato anche per le sue ordinanze considerate singolari, come quella emessa nel gennaio di quest'anno, che prevede una multa salatissima, ben 1000 euro, per chi getta a terra cenere o mozziconi di sigaretta. O quella per la vendita di 150 loculi del cimitero dotati di tecnologie moderne, come una webcam che rende possibile guardare, anche a chilometri di distanza, l’ultima dimora del proprio caro, e un impianto audio di filodiffusione all'interno del cimitero stesso. Ordinanze singolari, com’era singolare il personaggio. Ma, nella sua singolarità, è andato a sfidare i poteri forti per difendere la sua terra, e non ci vuole certo la sfera di cristallo per indovinare che si tratta di poteri legati al mondo dell'edilizia.

Cordoglio per la morte di Vassallo è stata espresso anche dal segretario del Pd Pierluigi Bersani: "Esprimo profondo sgomento per l'uccisione di Angelo Vassallo. Un'esecuzione feroce l’ha portato via alla sua famiglia e all'intera comunità di Pollica-Acciaroli. Un sindaco onesto e capace che ha saputo lavorare con spirito di servizio per affermare i principi di legalità, valorizzando le risorse migliori del territorio e testimoniando così, con il proprio impegno, la volontà di costruire un futuro diverso per la propria terra. Alla magistratura e alle forze dell'ordine spetta il compito di fare piena luce su questo efferato delitto e stabilire se debba essere ascritto alla ferocia della criminalità organizzata".

Il ministro dell'Interno Maroni ha invece risposo ai giornalisti, che gli chiedevano una valutazione sull'omicidio: "Valutero' insieme al capo della polizia Antonio Manganelli le iniziative da prendere, e cosa c'è dietro questo efferato delitto".

Di qualunque cosa si sia trattato, un segnale è certamente chiaro: la criminalità organizzata, plausibilmente campana, é passata all'azione: obiettivo, mettere le mani sul ridente Cilento. Ci sarà da difenderlo a spada tratta.

di Mariavittoria Orsolato

Cinquantamila classi senza docenti, sedicimila istituti senza presidi, centosettantamila lavoratori precari senza una cattedra e ben otto milioni di Euro in meno in tre anni: questa la pubblica istruzione voluta “gagliardamente” - come scrive in tono ammonitorio su Avvenire - da Mariastella Gelmini, che si appresta ad inaugurare il nuovo anno scolastico nella furia delle polemiche.

Nella conferenza stampa indetta per l’imminente ripresa delle lezioni, l’avvocatessa somara divenuta fortuitamente ministro, ha invitato le migliaia di precari che in tutta Italia stanno organizzando proteste e manifestazioni, ad astnersi dallo strumentalizzare il proprio disagio e si è detta “disponibile al confronto sul precariato e con i precari, solo se si tratta di ragionare in un clima costruttivo e su dati veri”.

I dati reali sono quelli sopraccitati, ma evidentemente per la ministra Gelmini i soli numeri che contano, le uniche cifre che hanno un senso nella sua personale idea di scuola, sono quelle dei bilanci. Bilanci sì disastrati, che richiederebbero un ampio e deciso intervento statale per garantire il diritto ad una corretta istruzione e per adempiere al dovere di proteggere la sicurezza degli studenti. Se già, infatti, la maggior parte dei plessi scolastici pubblici soffre di carenze strutturali che potrebbero essere fatali (la scuola elementare di San Giuliano è solo l’esempio più lampante e doloroso), ora anche il corpo docenti si ritrova un colabrodo a causa di quello che altro non può essere definito se non un licenziamento di massa, una manovra che per numero corrisponde a circa due Alitalia.

Ma dal Ministero non arriverà - se mai arriverà - un centesimo in più di quello previsto dal testo della riforma orchestrata da Tremonti in tempi di crisi e, sebbene la Gelmini rassicuri sul fatto che le Regioni stanno provvedendo a stilare le nuove graduatorie dei supplenti, per il prossimo anno è contemplata un’integrazione di soli sedicimila fortunati. Del resto l’ha detto, gelida, la stessa ministra, rivolta al presidio di insegnanti riunito in questi giorni dinanzi a Montecitorio: allo stato attuale delle cose “non c’è modo di assorbirli tutti”.

Quarantamila sono stati i posti tagliati nel 2009, centotrentaduemila quelli che si perderanno da qui al 2013: quella dei precari della scuola non è una rabbia “strumentale”, ma un grido disperato d’aiuto, una serie di iniziative che, più che rivendicare il diritto al posto di lavoro, cercano di catalizzare l’attenzione su quella che a tutti gli effetti sarà un’ecatombe di insegnanti. Se alcuni hanno optato per lo sciopero della fame, altri addirittura hanno deciso di mettersi in vendita sul popolare sito di aste on-line E-bay: uomini e donne sui 40 anni, ultra qualificati fra lauree, master, abilitazioni Ssis, offrono le loro competenze al miglior offerente.

Una provocazione che fa riflettere e non solo per l’ardire creativo con cui il blog di precari Docenti in mutande ha scelto di protestare. Da Roma però arriva l’esortazione a unire le forze e a compattare la protesta per istituire un movimento unitario nazionale che manifesti il prossimo 8 settembre, rendendo evidente alla ministra quanto la scuola italiana si sia impoverita. Sforbiciando in modo indiscriminato non si va verso una scuola più efficiente, ma si precipita inevitabilmente verso un baratro che, oltre a danneggiare economicamente i più che competenti operatori del settore, mina pericolosamente il futuro delle nuove generazioni.

Nel frattempo nelle scuole, sempre a causa della riforma, ci sono almeno diecimila insegnati di ruolo che, pur avendo miracolosamente mantenuto il posto, non hanno più una cattedra: sono i cosiddetti soprannumerari, l’esempio più lampante della paradossalità della misure volute dal Governo che il ministero di Piazza della Minerva ha affrontato con una scarna circolare in cui, sbrigativamente, si invitano gli uffici scolastici a lasciar languire questi docenti nelle scuole dove finora hanno prestato servizio; cosa faranno in realtà al suono della campanella non è dato saperlo nemmeno ai diretti interessati.

Quello che prenderà avvio tra meno di una settimana doveva essere l’anno scolastico che avrebbe dato ragione all’Esecutivo in termini di trionfo del merito e di imposizione della qualità sulla quantità. Ebbene, l’unico traguardo raggiunto dall’epocale riforma (così alla firmataria piace definirla) è la riduzione dell’organico: un repulisti da portare avanti a qualsiasi costo. E poco importa che questo vada ad incidere negativamente su chi nella scuola pubblica ci lavora da anni e su chi per almeno dieci anni sarà costretto a frequentarla. C’era forse da aspettarsi altro dall’imbelle ministro di un premier che da sempre dice che il suo elettorato ideale non dovrebbe avere titoli più alti della terza media?

di Fabrizio Casari

Di solito i partiti muoiono a Rimini, terra di balere, mare e discoteche per divertirsi e centro congressi a basso costo per officiare l’estrema unzione ai partiti. Stavolta, invece, è toccato a Mirabello, pochi chilometri distante, fungere da scenario per la tumulazione del partito di governo. Questo perché il PdL non c’è più, ha detto Gianfranco Fini, che del predellino è stato cofondatore e che dal predellino è stato radiato come usurpatore. Il PdL, ha detto scandendo le parole, il Presidente della Camera, è morto: quel che resta è una Forza Italia allargata.

Allargata a chi? A quei “colonnelli che hanno solo cambiato generale”. Il riferimento é a Gasparri, La Russa, Alemanno, Matteoli; insomma a tutte quelle mezze figure che Fini aveva elevato a rango di ministri, dopo averli tirati fuori dalle sedi missine e che ora - ma non da ora - si trovano più a loro agio con Berlusconi e Bossi. Queste le uniche parole riservate agli ex-camerati. Le stoccate dirette al Premier, accusato di “comandare” invece che “governare”, non sono state poche, ma nessuna ha raggiunto livelli particolarmente acidi quanto gli house organ del capo del predellino hanno sfornato in questi mesi sul Presidente della Camera.

La manifestazione tenutasi ieri e l’intervento di Fini, dovevano servire a più scopi: misurare la forza dei finiani, anche per valutare a partire da questo le possibilità di rientro paludato nel PdL; verificare le intenzioni politiche del Presidente della Camera, anche alla luce dei tentativi di riavvicinamento (non troppo convinti) del Cavaliere e, soprattutto, constatare la riserva d’ossigeno di cui il governo Berlusconi ancora dispone.

Tutte questioni alle quali l’ex presidente di An ha offerto risposte che solo Capezzone, per limiti d’ufficio oltre che propri, non é riuscito a cogliere. La folla intervenuta a Mirabello offre numeri ben più ampi di una corrente; per cui se qualcuno contava su una debacle numerica che riconducesse lo strappo ad un’insubordinazione di minoranza destinata a rientrare o, comunque, a non incidere, deve rifarsi i conti. Quella di Mirabello è folla da partito, non da dissidenti. Fine perciò di ogni mediazione destinata ad immaginare modi e tempi di una possibile ipotesi di rientro nel PdL. Ogni tentativo di riportare i finiani nell’alveo del Pdl è naufragato. “Non si può rientrare in qualcosa che non c’è” ha detto Fini di fronte ad alcune migliaia di plaudenti che questo volevano sentire.

Per quanto riguarda il passaggio relativo al quadro politico attuale, in particolare circa l’atteggiamento dei finiani nei confronti del governo, Fini ha ribadito quanto già si sapeva: rispetto sì del mandato elettorale, ma in ordine al programma concordato con il quale il predellino si era candidato al governo del Paese, non alle successive modifiche in corso d’opera che hanno portato il PdL ad essere una forza politica diretta politicamente dalla Lega e trasformata dal Premier in un colossale collegio di difesa dei suoi guai giudiziari e dei suoi interessi economici. In questo senso, Fini si è detto disponibile ad accogliere positivamente una norma che salvaguardi il Premier, ma ha ribadito con molta più forza il suo “basta” alle leggi ad personam.

Non più, dunque, una diarchia tra Arcore e Ponte di legno; il governo dovrà prendere atto del mutamento dello scenario e trattare, punto su punto, con Futuro e Libertà. Un vero e proprio patto di legislatura che, sotto diversi punti di vista, converrebbe a tutto il centrodestra: il Cavaliere è ai minimi storici nei sondaggi e il rapporto con il Quirinale non è mai stato così difficile; Futuro e Libertà, contemporaneamente, avrebbe bisogno di tempo e di scadenze politiche per strutturarsi al meglio. Ma, appunto, nessuna adesione sulla base del predellino, ma solo un patto di legislatura fra le sue tre componenti.

Difficile stabilire ora come reagirà il Premier, anche se è ipotizzabile il suo tentativo di allungare l’età del suo governo. Mentre Fini parlava a Mirabello, Rutelli offriva alleanze a poche centinaia di chilometri. Casini e Rutelli con il loro Terzo Polo (dove potrebbe anche trovare posto Fini) sono dietro l’angolo e persino qualche mente geniale del Pd non sarebbe ostile all’ammucchiata, perciò quello cui assisteremo sarà una bruciatura a combustione lenta per il Cavaliere.

Del resto, l’idea che la sua caduta comporti il ricorso al voto sta solo nella testa del predellino, non in quella del Quirinale, che risponde alla Costituzione italiana e non alle scadenze dei processi ai quali il Premier fugge o, ancor più, alle sentenze della Consulta attese nei prossimi 60 giorni, quanto mai pericolose per l’uomo di Arcore.

Per Napolitano, giudice ultimo della sostenibilità del quadro di governo, la strada per le elezioni passa prima per la verifica di una eventuale maggioranza alternativa alla Camera e al Senato. Peraltro, la legge finanziaria, la cui discussione comincerà entro breve, va approvata ad ogni costo entro la fine dell’anno, pena un esercizio provvisorio che né i mercati, né la Ue, ci perdonerebbero.

Dunque, il film che porterà gli italiani al voto andrà in scena solo a partire da Gennaio; fino ad allora, (se non in presenza di una diversa maggioranza, magari a guida Tremonti o Draghi) ci saranno schermaglie, distinguo, battaglie anche aspre, ma in assenza di maggioranze parlamentari alternative, il governo mangerà il panettone.

Il percorso di Futuro e Libertà è tracciato: consolidamento del processo organizzativo, anche sulla base della definitiva chiarezza del cammino iniziato ieri a Mirabello, poi il via alle operazioni di costruzione organizzativa e politica sul territorio che si concluderà entro la fine dell’anno con la nascita del nuovo partito. Questi sono infatti i tempi necessari per arrivare puntuali alla prossima scadenza elettorale, prevedibilmente in primavera. I tavoli che verranno imbanditi saranno diversi, ad ora è difficile immaginare chi siederà con chi. Ma sono, i tavoli elettorali, luoghi dove tutti tengono a sedersi. Le sedie del tavolo diventano spesso le poltrone del governo. Futuro e Libertà non si farà pregare.

di Giovanni Gnazzi

In attesa di vedere se l'agonia del processo breve diventerà l'inizio della nuova campagna elettorale, sembrano momentaneamente sospese le guerre condominiali nella destra italiana che ci hanno dilettato sotto l'ombrellone. In assenza dei peones alla Camera, l'estate ha visto lo scatenarsi degli gli inquilini dei tricamere (con Servizi?). In origine doveva essere la Casa della Libertà, ma si é capito che è diventata presto la libertà di farsi una casa.

La rissa interna a quello che sembrava solo un progetto politico, ma pare sia diventato anche un grande progetto immobiliare, ha visto infatti nel reciproco rinfacciarsi di operazioni dubbie sulle reciproche residenze, il diritto di cittadinanza della destra più sgangherata e pericolosa mai esistita in Italia. Ad aprire le danze fu Scajola. La sua casa romana, da dove - a insaputa dell’ex-ministro -.è possibile ammirare un notevole scorcio di Colosseo, venne acquistata dal rais di Imperia per una somma con la quale ci compra un bicamere in periferia.

Ma, certamente sempre a sua insaputa, si trovò proprietario di ben altra magione in ben altro quartiere. Sapeva, certo, di abitare in una bella casa nel centro della Capitale, ma non sapeva che qualcuno, per lui, l’aveva pagata. Alla storiella non ha creduto nessuno e Scajola dovette dimettersi; un habituè del gesto, si potrebbe dire, visto che ha reiterato l’uscita anticipata dal gabinetto di governo per la seconda volta nella sua carriera politica. Ormai Scajola lo sa: va al Quirinale in gruppo la prima volta per giurare, ma poi ci torna da solo con le dimissioni.

A Scajola seguirono altri impomatati esponenti della nomenclatura del predellino e dei compari di complemento, stavolta beneficiati direttamente da Propaganda Fide, ente cattolico di assistenza che, effettivamente, non poteva tirarsi indietro di fronte alle esigenze abitative di chi, quotidianamente, cerca di compiacerli legislativamente e dei di loro amici. E via con case bellissime negli angoli più belli di Roma, tutte affittate a prezzi di saldo. Per intenderci: su quelle proprietà il Vaticano non paga ICI e non versa imposte sulle pigioni percepite. Dev’essere per questo che è così generoso con i bisognosi.

Venne quindi il turno di Fini, che è stato coinvolto dai suoi ex-camerati, nell’intreccio della compravendita di un appartamento a Montecarlo. Detto appartamento, ereditato da Alleanza Nazionale, venne venduto ad una società con la quale - oltre ogni ragionevole dubbio - il di Fini cognato, tale Tulliani, giovanotto ambizioso e un tantino rapace, intrattiene stretti rapporti. Al punto che, la stessa società che acquisì l’appartamento, ha ritenuto di doverglielo successivamente affittare. Cosa se ne fa di un’appartamento in affitto a Montecarlo il Tulliani? Niente, per questo lo affitta. Sarebbe più comprensibile se fosse il suo, ma lui, come detto, è in affitto.

Pare che il Tulliani cognato avrebbe ottenuto l’affitto dell’appartamento in questione come premio per la sua mediazione nell’acquisto dello stesso dal tesoriere di AN, così implicando Fini oltre ogni sua eventuale responsabilità nella partita di giro del mattone. Lui però smentisce. Ma alcune domande, certo, andrebbero poste: come mai su sei miliardi di abitanti del pianeta proprio il cognato di Fini tratta una compravendita di una casa appartenente alle proprietà di AN? Come avrebbe potuto sapere dell’appartamento se qualcuno della cupola di AN non l’avesse informato della sua esistenza? E come mai lui, che nella vita svolge tante attività, ma non quella di mediatore (tantomeno immobiliare), lo diventa per l’occasione?

Ma, alla fine, la cosa c’interessa poco. Il tesoretto degli ex-camerati, ove che fosse allocato, non era nelle disponibilità del patrimonio pubblico e lo stesso Presidente della Camera - ammesso che fosse direttamente coinvolto nella vicenda - non pare comunque in conflitto d’interessi con la sua funzione istituzionale. Il Giornale ha tentato in ogni modo, soprattutto con la fantasia livorosa, di coinvolgere l’ormai ex-numero due del PDL. Essendo di proprietà del fratello del Premier, cerca di svolgere al meglio il suo ruolo. Berlusconi del resto, non da oggi, usa come una clava sui suoi avversari politici dossier, ricatti e il giornale di suo fratello.

Successivamente viene messo alla berlina il mutuo spaventoso acceso dal Vice-ministro Urso (ventimila Euro al mese) per pagarsi un’altra magione di pregio a Roma. Urso, autorevole esponente del pensatoio finiano, annuncia querele a Feltri, ribadendo come sia una sua insindacabile scelta quella di pagare un mutuo così pesante. Effettivamente, difficile dargli torto: se dispone di cifre così cospicue, le spendesse pure come vuole.

Ma la madre di tutte le case, neanche a dirlo, resta la villa di Arcore, acquisita de Berlusconi in modo perlomeno spregiudicato e a un terzo del suo valore, ci mancherebbe altro. L’operazione venne gestita da Cesare Previti e questo, da solo, già significa molto. Rimarrà forse alla ex-moglie o, prima o poi, come per il Giornale, l’intesterà al fratello. Morale? Ognuno ha i suoi ex-colonnelli, i suoi fratelli e anche i suoi cognati. Dev’essere questo il senso profondo della difesa dei valori della famiglia.

 


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