di Mariavittoria Orsolato

Le ultime sono note. dalla scuola elementare in provincia di Brescia griffata Lega persino sui banchi alla storica decisione di dare il via al Giro della Padania, che quello d'Italia non gli va più; rischia di vincerlo un terrone. Il battesimo con l'acqua del Po e del Monvisio non basta più. I furbetti del varesotto sono ormai a briglia sciolta.

Dal 1987, anno in cui è stato fondato il partito, la Lega Nord ne ha fatta di strada nell’impervio e insidioso viale della politica italiana. In quelle elezioni i rappresentanti eletti alla Camera furono solamente due, ma già alla tornata successiva - era il 1992 di tangentopoli e delle stragi mafiose - il movimento di quello che già allora era “il Senatur” sfiorava il 9% e piazzava, tra Montecitorio e palazzo Madama, ben 80 deputati.

In quel primo affaccio sulla scena politica, le parole d’ordine della Lega erano “secessione” e “Roma ladrona”: Veneto e Lombardia in massa, Piemonte in parte, premiarono quello che pareva un volto nuovo, fresco e volitivo, un uomo che “ce l’ha duro” o, come più degnamente lo definì il professor Miglio (teorico del federalismo e padre putativo della Lega Nord) “un puritano che vive con estrema modestia”, e che allora, agli occhi del microcosmo imprenditoriale del nord, appariva come la vera alternativa alla nomenklatura della prima repubblica.

In 23 anni di vita politica il partito ha ribalzato ciclicamente tra i banchi della maggioranza e quelli dell’opposizione, facendo addirittura cadere il primo governo Berlusconi nel lontano 1995; il piglio sempre aggressivo, il fare polemico e un perenne nemico contro cui scagliarsi: se agli albori il problema dell’Italia erano i “terroni”, la convivenza con Fini e Berlusconi ha portato a ridisegnare il target prima negli immigrati, poi nei musulmani, quindi nei Rom. Andando con lo zoppo s’impara però a zoppicare e, in questi anni di onorato servizio civico al localismo padano, la tanto vituperata “Roma ladrona” è diventata una seconda una casa: l’unico chiodo su cui la Lega può battere in favore del suo “modesto” elettorato, colpito nel portafogli da una crisi che non accenna a scemare, è il federalismo fiscale.

Pur di perorare la causa il Carroccio ha accettato il ruolo di subalterno nella destra italiana votata all’idolo berlusconiano, ma ora che il re è nudo e la bolla creata dal prestigiatore di Arcore sta per scoppiare, il popolo di Pontida acclama la riscossa e rivendica quel posto di rilievo istituzionale che in 16 anni ha potuto si condizionare, ma mai godere appieno. Il divorzio di Fini da Berlusconi offre infatti un pretesto ghiotto per invocare a gran voce le elezioni e se Bossi e i suoi agiscono in tal modo, è perché sanno per certo che la prossima tornata elettorale potrebbe dare delle soddisfazioni finora insperate.

E anche un modo furbo di proseguire nella raccolta di denaro da parte dei parlamentari del Carroccio; molti di questi, ad oggi, ricoprono (in barba alla legge che lo proibisce) doppi e tripli incarichi sitituzionali. "Roma ladrona" paga lautamente la Lega che non perdona. E non solo di parlamentari e funzionari di partito, ma anche di giornalisti affini. Stando ai dati forniti dal Dipartimento per l'Editoria della Presidenza del Consiglio, in questi 16 anni di vita il quotidiano del partito del celodurista e della Trota, La Padania, ha percepito sotto forma di finanziamento pubblico ben 50 milioni di Euro. Non é quindi strano che, fregandosene bellamente della congiuntura economica e politica, la Lega voglia tornare rapidamente alle urne.

Stando a quelli che sono gli umori popolari propugnati dai sondaggi di Renato Mannheimer, la Lega naviga verso l’11% e raccoglie consensi anche in quelle regioni del centro-nord che, storicamente, fanno parte della cosiddetta “zona rossa” italiana, ovvero Emilia-Romagna (dal 4,8% del 2005 al 7,8%), Umbria (dall’1,7 al 5,3%), Toscana (dall’1,3% al 6,6%) e Marche (dallo 0,9% al 6,8%).

Il Carroccio passa quindi indenne dal “ciarpame” berlusconiano e rimane quel partito a base popolare che tanto colpì le fantasie dei piccoli imprenditori del triveneto, cominciando però ora ad attecchire in settori storicamente deputati alla sinistra come gli operai o i dirigenti pubblici: le regionali di quest’anno ne hanno dato piena conferma con un 12,8% di preferenze complessive e il colpaccio su Veneto e Piemonte.

La Lega Nord mira paradossalmente ad essere un partito nazionale e il bailamme che si è scatenato tra gli scranni della maggioranza offre il fianco di Berlusconi alle frecciate che finora il Senatur aveva tenuto tra i denti in attesa del da farsi. “Per Berlusconi la strada è molto stretta: se tutti i giorni deve andare a chiedere i voti a Fini e a Casini per far passare una legge, non dura molto”.

Questo il commento di Bossi dopo Mirabello, mentre a seguito della riunione dei capigruppo alla Camera, e dopo un incontro con Giulio Tremonti e Roberto Calderoli, il Senatur ha premuto sull’acceleratore spiegando ai cronisti che per arrivare alla crisi che apre la strada alle elezioni anticipate, ci sono due sole strade: le dimissioni di Silvio Berlusconi o un voto di sfiducia da parte della Lega. Salvo poi, una volta incassato il no di Berlusconi, fare rapida marcia indietro, come sovente accade.

La cronaca e la storia, infatti, ci hanno insegnato che le sparate di Bossi solitamente non si realizzano all’atto pratico, ma hanno l’inestimabile pregio di venir prese sul serio dal suo fedelissimo e idolatrante elettorato. Il Premier, infatti, ha subito raffreddato gli entusiasmi del Carroccio ribadendo il suo “dovere di governare” e scongiurando, almeno per ora, lo spauracchio di un elezione già a novembre. Per ora, perché la Lega sa che ormai quello che è stato il suo cavallo di Troia per far breccia nelle istituzioni non gode più del credito o, per meglio dire, del rispetto che l’ha portata a monopolizzare il Paese per 16 anni. Ad ogni piè sospinto Bossi annuncia la calata su Roma di milioni di padani, ma a starlo a sentire sono sempre quatto gatti dall’inconfondibile aspetto di fuoriusciti da osteria.

E se le sue Ronde Padane hanno fatto la fine che meritavano, affogate in un mare d’indifferenza, e se proseguono nel generale ridicolo le sue cerimonie di acqua del Po e le elezioni di Miss Padania, dove il folklore lascia il posto al potere, il Carroccio s’infila come può. Nel grande risiko bancario, la Lega si oppone all’aumento ulteriore di capitale libico in Unicredit, ma solo per appoggiare i suoi uomini ai vertici delle banche locali del Nord e per esercitare un potere d’interdizione nei confronti dei salotti della finanza italiana.

Il partito di Bossi è stato più volte al governo dal 1992 ad oggi. Governa molte città del nord e, ora, anche due regioni. E' il partito che vuole la secessione ma anche no. Vuole il federalismo ma taglia i fondi alle regioni, vuole allontanarsi da Roma ladrona e occupa Montecitorio, Palazzo Madama, la Rai e i ministeri.

Del Carroccio Antonio Martino, forzitaliota della prima ora e Ministro del cavaliere, ha dato una definizione precisa: “Era un partito liberista, diventò laburista con il governo di Lamberto Dini, e adesso è diventato un partito clientelare, che vuole difendere il suo sistema di potere localistico su cui innestare senza cambiamenti il federalismo fiscale”.

Ci sono in ballo voti, potere, gestione di banche aziende, regioni, enti e Istituzioni, tutto quello che la Lega si è accaparrata nel tempo. Berlusconi è ormai alle corde, un personaggio politicamente finito che si aggrappa ai partitucoli da 1% pur di rimanere a galla. Ma sta annaspando e Bossi non aspetta altro che le forze gli vengano meno. Nonostante l’alleanza con Fini sia pressoché un miraggio, il Carroccio ha tutti i numeri in regola per scardinare l’assetto di quella che pretende chiamarsi destra, e un eventuale salto di quantità tra gli scanni delle due Camere potrebbe imporre un’agenda completamente diversa da quella pianificata in anni di alleanze necessarie alla sopravvivenza.

Abbiamo già assaggiato - tanto per citarne alcuni - lo smembramento del sistema sanitario, la forzata autonomia scolastica e le ordinanze assurde e retrograde dei sindaci con i superpoteri voluti da Maroni in nome della sicurezza. Sicuri di volerne ancora?

 

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