di Ilvio Pannullo

Dopo aver affossato il governo Prodi dichiarando che il Partito Democratico sarebbe andato in caso di elezioni da solo al voto, evitando di allearsi con quegli stessi partiti che allora sostenevano il governo; dopo aver contribuito così all’estromissione della sinistra dal Parlamento limitando la rappresentanza di un’intera cultura politica dalle Istituzioni democratiche; dopo aver regalato Roma agli ex fascisti, proponendo l’improponibile Rutelli come suo fisiologico successore alla guida della capitale, Walter Veltroni si prepara adesso ad impedire qualsiasi possibilità che il partito da lui stesso fortissimamente voluto possa avvantaggiarsi della rovinosa crisi che sta interessando il governo.

Ecco dunque l’ultima trovata dell’entusiasta democratico: “Il documento dei 75”. È questo, infatti, il numero dei parlamentari del Partito Democratico che hanno firmato il testo promosso da Walter Veltroni, Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni. Un documento che chiede una correzione nella linea politica del Pd, affermando implicitamente l’incapacità di Bersani nella conduzione del partito. “Ma non c'è nessuna intenzione di fare qualcosa di alternativo o che sia fuori al partito” assicura Marco Minniti, un tempo dalemiano doc. Nessuna scissione insomma, nessuna corrente, ma semplice dialettica politica. Pacatamente e serenamente, ovvio, e ci mancherebbe altro verrebbe da aggiungere.

Purtroppo però, alla conta dei 75 è seguita ieri un’altra conta voluta dal segretario, annacquata dalle molte assenze registrate al momento del voto. In un'intervista a La Stampa, Beppe Fioroni, con riferimento  alla relazione di Bersani ieri in Direzione Pd, ha infatti dichiarato: "Alla fine molta gente se n’era andata, non eravamo duecento a votare. Meglio che nessuno giochi con i numeri. E alla Bindi che presiedeva, dico che, oltre a risparmiarsi reprimende contro chi ha opinioni diverse, per dimostrare di svolgere un ruolo di garanzia con lealtà avrebbe dovuto far contare anche i voti a favore. Nessuna marcia indietro - continua l’ex Ministro, tra gli astenuti alla direzione del Pd di ieri - noi vogliamo fare la minoranza che contribuisce con le proprie battaglie a migliorare la linea del segretario”. E quale modo migliore per migliorare la linea del segretario se non quello di alzare un simile polverone?

Per amore di precisione va ricordato che con Veltroni come segretario il Pd è diventato famoso per lo show cabinet - quel governo ombra talmente tanto ombra che nessuno si accorse della sua esistenza - il loft con vista sul Circo Massimo e per le sconfitte elettorali di Abruzzo, Friuli Venezia Giulia e Sardegna. A voler essere scaramantici si dovrebbero fare gli scongiuri al solo sentirne il nome, ma in Italia - si sa - si concede una seconda opportunità a tutti. E poi magari una terza, una quarta, una quinta e via concedendo. Accade così che, nonostante i disastri creati nel paese, il Veltroni nazionale continui a imperversare nella politica italiana, nonostante la promessa di emigrare in Africa che per molti a sinistra sta diventando l’ultima speranza di vederlo per sempre neutralizzato.
 
I veltroniani fingono di stupirsi delle virulente risposte alla presentazione del loro documento. Per bocca sempre di Marco Minniti, infatti, davanti al crescente malumore all’interno del partito per l’inopportunità di una simile iniziativa in un frangente che vede il primo partito di governo lacerarsi sotto il peso di una crisi istituzionale - con la terza carica dello Stato che accusa il Presidente del Consiglio di utilizzare il suo ruolo istituzionale per fabbricare dossier infamanti al fine di minarne la credibilità politica - i veltroniani si dicono increduli per quanto sta accadendo.

“Stupisce - afferma Minniti - che venga considerato come un elemento di divisione e di indebolimento, come un regalo all’avversario, cose che sono figlie di altre stagioni politiche”. “Anche il tema della premiership - assicura Tonini - non compare nel documento, parliamo solo di linea politica». Resta invece l'intenzione di dar vita ad un movimento, che però «non vuole essere una corrente o uno strumento di lotta interna per spartirsi i posti, piuttosto un movimento di idee e di proposte dentro il partito ma con l’ambizione di parlare anche all’esterno”. Le posizioni di quest’area, in dissenso con la gestione del partito di Bersani, “saranno portate in tutte le sedi in cui il partito si esprime”. Al che vien quasi da piangere.

Laconico e volutamente sotto tono il commento del segretario: “A me va bene tutto - risponde Bersani - non ho fatto conti sul sostegno a questo documento”. A Veltroni, che ha accusato la dirigenza del Pd di aver perso la bussola, Bersani risponde: “Per me la bussola è rimboccarsi le maniche, andare avanti, fare le nostre discussioni nelle sedi giuste e nei nostri organismi. Adesso tutti assieme abbiamo il compito rilevantissimo che è quello di parlare di questo paese, dare una mano per quanto possiamo per tirarlo fuori dai guai e tenere alta la battaglia politica nel momento in cui tutti vedono che andiamo incontro a un periodo di ulteriore instabilità e minori risposte di governo”.

Walter Veltroni, dal canto suo, da sempre uomo che disdegna le ordinarie sedi di confronto politico per esprimere la propria visione degli avvenimenti, del mondo e perché no dell’universo intero, ha precisato sul suo profilo Facebook il senso del documento. Ovvero, “rendere più grande e più aperto il Pd. Questo è l`unico obiettivo del documento ed è una posizione politica che, come tutte, va rispettata e discussa. Così succede in tutti i partiti democratici”.

Ma cosa si dice in questo benedetto documento? Nel testo s’invoca una “coerente strategia riformista che può dunque contare su rilevanti forze sociali, unendole in un progetto che risponda ai bisogni dei più deboli facendo leva sui meriti dei più capaci. Questa strategia non può essere incardinata prevalentemente attorno a obiettivi di difesa della realtà presente, aggredita dall'attacco della destra populista. Al contrario, l'alleanza da promuovere è tra chi ha bisogno del cambiamento, ma da solo non può realizzarlo perché non sa, non ha, non può abbastanza, e chi vuole il cambiamento, perché sa progettarlo, ha interesse a promuoverlo, ha le relazioni necessarie per realizzarlo, ha la forza necessaria per piegare le tante resistenze corporative che vi si oppongono”.

Un passaggio questo dove i più scettici potrebbero vedere un riferimento a future alleanze con partiti, come l’Udc di Pierferdinando Casini o l’Mpa di quel Raffaele Lombardo al quarto governo in appena due anni di governo alla regione Sicilia, noti per le loro posizioni laiche, meritocratiche e coerentemente liberali. Dopotutto - si sosterrà - è forse meglio allearsi con il giustizialista Di Pietro che tanto insiste con la questione della legalità? Giammai.

La critica dell'area di minoranza punta infatti al cuore dell’identità politica del Pd: “Nulla sarebbe adesso più sbagliato e contraddittorio - si legge sempre nel documento dei 75 - che affrontare la crisi politica e culturale del berlusconismo, sulla base dell'assunto della immutabilità dei rapporti di forza nel Paese. Una visione così angusta e rinunciataria, così falsamente realista, spingerebbe i democratici ad arroccarsi in difesa, pigri e spaventati, quando è invece il momento di uscire allo scoperto e di avanzare proposte coraggiose e innovative.

Esempi di questa mancanza di coraggio, di questa vera e propria involontaria subalternità ad un pensiero unico, sono per un verso l'ipotesi neo-frontista e per altro verso quella vetero-centrista: ipotesi che nel confuso dibattito interno al Pd tendono peraltro a mescolarsi, ad alternarsi in continue svolte e controsvolte, che offrono l'immagine di un partito che fatica ad esprimere una strategia nitida”. Par quindi di capire che la strategia della innominabilità del Biscione - il maggior esponente dello schieramento avverso - debba essere rispolverata, perché guai a puntare il dito su quello straordinario collettore di interessi e corporativismi che è diventato B. Si perderebbero voti. Ancora di più di quanti non se ne siano già persi.

Tra le proposte suggerite c'è la necessità di una “innovazione della proposta programmatica, che deve assumere con coraggio l'obiettivo di battere tutti i conservatorismi, compresi quelli, palesi e occulti, di centrosinistra, ponendo al centro il tema della democrazia decidente, attraverso le necessarie riforme istituzionali ed elettorali: rafforzamento dei poteri del premier e di quelli di controllo del Parlamento, regolazione del conflitto d'interessi, norme contro la concentrazione del potere mediatico e il controllo politico della Rai, differenziazione delle camere, riduzione del numero dei parlamentari, una legge elettorale, come si legge nel documento approvato dall'Assemblea nazionale del Pd del maggio scorso, di impianto maggioritario fondato sui collegi uninominali, insieme a norme sulla democrazia di partito e a una regolazione delle primarie per le cariche monocratiche”.

Insomma, la sagra del vorrei ma non posso. Con un partito che a fatica raccoglie un quarto dei voti validamente espressi e che ha già subito una scissione, il progetto Veltroniano consisterebbe nell’assicurarsi quella tanto sbandierata “vocazione maggioritaria” attraverso magari una porcata bis che assicuri la marginalizzazione definitiva di qualsiasi forma di dissenso politico organizzato, a sinistra del Pd. Quando si dice amare la democrazia.

 

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