di Mariavittoria Orsolato

Erano anni che non si vedeva un’estate così calda per la politica italiana. La legge bavaglio da discutere e votare, l’indagine che pare aver svelato i volti della nuova massoneria (ribattezzata P3 per la scarsa fantasia dei cronisti) e, infine, la maxi operazione condotta dalle forze dell’Ordine tra Reggio Calabria e Milano, con una serie di blitz che hanno portato all’arresto di oltre 300 persone riconducibili alla ‘ndrangheta.

Sul piatto della cronaca sono questi tre gli argomenti a tenere banco nell’afosa e solitamente letargica estate: i luoghi e i tempi sono sicuramente eterogenei ma già in molti vedono un fils rouge nel gioco di volti e rimandi che questi tre spezzati del quotidiano italiano ci offrono. Seguendo il ragionamento deduttivo, parrebbe che questa “sfortunata serie di eventi” corrisponda ad una sorta di big bang per la maggioranza: il Governo e i suoi esponenti, sempre più in bilico nel continuo duello tra Berlusconi e Fini, si ritrovano nuovamente al centro delle cronache giudiziarie.

Stavolta per connivenze ed implicazioni con settori del substrato malavitoso e la battaglia serratissima per il ddl sulle intercettazioni sembra dover diventare il cavallo di Troia capace di detronizzare il “Cesare” sempre più braccato dai congiurati di ala finiana e sempre più imbarazzato dagli scandali dei suoi. Ma andiamo per ordine.

In questi giorni un’inchiesta nata da una costola dell’indagine sull’eolico in Sardegna, ha portato alla luce quella che parrebbe essere la naturale continuazione della loggia messa in piedi dal “muratore venerabile” Licio Gelli. Al centro i nomi di importanti esponenti della maggioranza quali il coordinatore Pdl Denis Verdini, l’ormai ex sottosegretario all’economia Nicola Cosentino, l’immancabile - quando si tratta di reati penalmente perseguibili - senatore Dell’Utri e il sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo.

Per il Presidente del Consiglio “solo quattro sfigati”, per i magistrati romani invece personalità che grazie al loro ruolo politico “sviluppavano una fitta rete di conoscenze nei settori della magistratura e della politica, da sfruttare per i fini segreti del sodalizio”. I fini in realtà non sono poi così segreti,  dal momento che, almeno a quanto dicono gli atti, l’obiettivo di questa nuova “congrega” era esclusivamente quello di fare soldi a palate nel modo più semplice e veloce, in vece di quel clientelismo che dal tempo degli antichi romani è endemico e praticamente indebellabile nella nostra penisola.

Per raggiungere lo scopo si sarebbero serviti dell’attività di un'associazione culturale, il “Centro Studi giuridici per l'integrazione europea Diritti e Libertà”, gestita da Pasquale Lombardi (ex esponente della Dc campana) e da Arcangelo Martino (un imprenditore partenopeo). Il tutto con la regia occulta di Flavio Carboni, anch’esso imprenditore noto alle cronache soprattutto per il suo ruolo in quelli che ancora oggi sono da considerare misteri italiani. I tre sono stati già sottoposti a custodia cautelare grazie alle intercettazioni, ma secondo il Gip Giovanni De Donato gli arresti potrebbero essere stati molti di più.

A maggior ragione, dal Governo si spinge per accelerare il disegno di legge sulle intercettazioni, che ad oggi si trova sul groppone oltre 600 emendamenti - 400 solo quelli presentati dal Pd - in discussione il prossimo martedì. Modifiche importanti, a partire da quella di Giulia Buongiorno, relatrice della legge bavaglio insieme all’onorevole ghostwriter Ghedini, che elimina la responsabilità giuridica per gli editori qualora un giornalista pubblichi intercettazioni ancora segrete, e ridimensiona la definizione di “luogo privato” in cui poter piazzare apparecchiature di rilevamento, riportandola a quella originaria di “privata dimora”: se infatti nella prima stesura gli ascolti ambientali carpiti in auto o in ufficio erano assolutamente vietati in nome della privacy, con l’emendamento della Buongiorno la pratica sarà nuovamente legale.

Di sicuro rilevo anche il venir meno della barriera della durata “breve” degli ascolti: per i crimini non gravi ci sarà sempre il tetto dei 75 giorni, ma esso potrà essere superato con proroghe progressive di 15 giorni in 15 giorni, qualora dalle telefonate emerga che ci sono indizi da perseguire per raggiungere il colpevole. Nel caso in cui gli emendamenti dovessero passare, la legge bavaglio, pur rimanendo tale per i giornalisti, darebbe almeno un po’ più di respiro a magistrati e polizia per quanto concerne le indagini vere e proprie.

In questo intenso mosaico di avvenimenti politici e giuridici, la maxi operazione che le forze dell’ordine e i magistrati hanno scatenato contro la ‘ndrangheta è forse il tassello meno evidente ma di certo significativo. Dagli atti si carpisce infatti come la ‘ndrangheta fosse riuscita nell’intento di infiltrarsi nei sancta santorum dei palazzinari lombardi, puntando decisa verso l’assegnazione coattata di appalti per l’Expo milanese del 2015.

Sono 304 le persone arrestate tra cui spiccano, come ormai d’uso, nomi eccellenti della politica lombarda come quello del deputato Pdl Giancarlo Abelli, aiutato nell’elezione ( secondo la migliore tradizione, “a sua insaputa”) dai voti convogliati grazie a Pino Nieri, presunto capo indiscusso della ‘ndragheta in Lombardia.

Insomma, l’estate della politica italiana si annuncia caldissima e in questo walzer di scandali, dimissioni e colpi di scena - come potrebbero essere le elezioni anticipate - l’unica certezza pare essere l’impotenza del premier: un Cesare che, se prima reagiva attaccando rabbioso e proteggendo i sodali con le unghie e con i denti, ora si ritrova a dover lasciare i suoi feriti sul campo e ad ammettere implicitamente che ormai, gli obbrobri consumatisi all’interno del suo emiciclo, non sono più difendibili.

 

di Rosa Ana de Santis

Si corre il rischio di incontrarli a Portofino o a Taormina. A bordo di yacht o in lussuose ville prese in affitto a Porto Cervo. Sono prestanome, nullatenenti e finti indigenti che sfuggono al controllo dello Stato. Un sistema fiscale, il nostro, pieno di buchi da cui scappa in modo cronico il Paese degli affari fantasma. Quelli nati dall’evasione, dall’elusione fiscale o dalla truffa vera e propria. Il buco è di 100 miliardi l’anno di mancati incassi.

Una cifra che diventa ancora più ingiusta nel panorama della crisi economica generale che ci ha colpiti e la cui soluzione tempestiva è stata chiesta proprio al ceto medio, ai dipendenti e alle famiglie. Le più tassate e le più abbandonate dal welfare. Un capolavoro d’iniquità.

La manovra finanziaria promossa dal governo, i ricchi delle ville in Sardegna, quelli delle società che sono scatole vuote, o dei bilanci in perdita fallimentari, proprio non li vede, anzi. Li perdona e li condona. E la chimera di veder rientrare l’imponibile nelle mani del Fisco è rimasta tale. Gli evasori non si pentono e continuano a rastrellare affari su affari in modo illegale, in attesa del prossimo condono o dell’ultimo scudo fiscale. Quello che alle loro tasche costerà sempre meno delle tasse ordinarie.

Inutile dire che a mancare è la cultura della legalità e che a contraddistinguere l’economia italiana è un modo preciso di fare impresa che normalizza l’aggiramento delle regole e che tollera la prossimità con l’inciucio, quando va bene. Il governo ha dato prova, in diverse occasioni, di volere questa forma di deregulation per le imprese e gli affari e di non vederne né un pericolo né  un’insidia per la giustizia sociale e per la legalità dell’intero Paese.

Depenalizzando il falso in bilancio, istituendo norme contro i lavoratori come l’arbitrato e lanciando la proposta di aprire un’azienda in un giorno, si stanno costruendo i presupposti per non uscire più da questa cancrena del sommerso e della contaminazione dell’economia con l’illegalità e con la criminalità.

Eppure Berlusconi, che di questa allergia alle regole fa la sua bandiera, porta a casa anche i voti dei tartassati. Perché se con i ricchi e con gli affari illeciti funziona la regola delle convenienza, con le fasce deboli funziona la strategia della propaganda. Quella che spopola in tv con la medicina delle social card o dell’ICI - solo per citare alcuni esempi- e che non dice di aver tolto alle famiglie tanti preziosi servizi come gli asili nido pubblici o il tempo pieno a causa di scuole sempre più povere.

Cosi le mamme, a parte la Ministro Gelmini, possono starsene a casa, rinunciare al lavoro e adattarsi ad una faticosa vita monoreddito, decidendo infine di non avere più figli. Ancora una volta i meno ricchi, gli affittuari, hanno pagato il prezzo del privilegio riservato ai benestanti proprietari di un immobile.

La manovra fiscale aggira la scandalosa falla dell’evasione. Per la nostra marea nera non sono previste misure d’intervento, nemmeno straordinario. Tanto il conto dell’emorragia lo pagano i dipendenti e le fasce sociali più deboli. Esattamente come i falsi invalidi li pagheranno i veri invalidi, che vedranno le loro pensioni decurtate mentre commissioni finte regaleranno oboli di illegalità per alimentare simil ammortizzatori sociali "fai da te".

Questo è il ritratto di un Paese al rovescio. Dove nessuno è ricco e dove i finti poveri vivono di lusso. Non si vuole estirpare il danno dell’evasione, perché lì sta lo zoccolo duro che muove i soldi e il potere delle upper class corrotte. I fantasmi del fisco sono le icone della corruzione che ci rincorre in giro per il mondo. E sono quelli che non avrebbero il diritto di entrare mai in una scuola o in un ospedale pubblico italiano. Andassero in Svizzera o a Montecarlo, dove hanno scelto di custodire a nero i neri risparmi di una vita.

di Mariavittoria Orsolato

Mentre la scuola pubblica letteralmente affoga nei tagli imposti dalla riforma Gelmini e dalle manovre economiche di Tremonti, il Governo pensa a potenziare le “istituzioni alternative” deputate alla formazione dei giovani. Se da un lato si continua a rimpinzare di finanziamenti le scuole cattoliche - la sola città di Verona ha appena stanziato 300.000 euro per i suoi istituti paritari - dall’altro una legge a firma congiunta mira ad istituire un fondo per organizzare corsi di formazione delle Forze Armate per i giovani.

Le firme su quella che è già stata ribattezzata la ”legge balilla” sono del ministro della Difesa La Russa, della giovane ministra dei Giovani Giorgia Meloni e del ministro del Tesoro Tremonti che, nonostante pianga miseria in sede di bilancio, ha dato il via libera a 20 milioni di Euro, necessari alle attività per i primi tre anni di sperimentazione.

L’idea alla base del provvedimento è quella di invogliare i ragazzi e le ragazze a preferire una sicura carriera militare all’inevitabile precariato post-laurea o post-diploma: i ragazzi verrebbero invitati per un soggiorno di tre settimane all’interno delle caserme dell’Arma, dove seguirebbero la routine e i costumi del reggimento e verrebbero di conseguenza edotti sulle meraviglie dell’essere soldato nell’era delle guerre globali. Che sì sono guerre, ma almeno ti fanno vedere il mondo.

In questo modo la Difesa spera di assicurarsi sufficiente carne fresca in barba all’avvenuto decadimento della coscrizione obbligatoria e, velatamente, spinge a promuovere una professione che, grazie alle continue cronache di sopraffazione, ha perso quell’aura di sacralità da sempre celebrata nel folklore nazionalista.

All’interno del provvedimento - che paradossalmente si colloca nell’ambito delle iniziative per la diffusione dei valori e della cultura della pace e della solidarietà internazionale tra le giovani generazioni - sono stanziati poi 4 milioni di Euro per la ristrutturazione delle caserme destinate a diventare delle vere e proprie “scuole di guerra”, mentre ne serviranno altri 850.000 per le attività di addestramento che, tra le altre, comprendono lezioni di “tiro con arma individuale”.

I nostri ragazzi potranno dunque maneggiare armi pur non avendone la licenza e seguire attività sulla scorta di quelle create per i soldati di professione; stando al testo, i compiti istituzionali delle Forze Armate si riferiscono alla preparazione per “missioni internazionali di pace a salvaguardia degli interessi nazionali, di contrasto del terrorismo internazionale, di soccorso alle popolazioni locali e di concorso alla salvaguardia delle libere istituzioni, in circostanze di pubblica calamità e in altri casi di straordinaria necessità e urgenza”. Sì, avete letto bene.

Con uno stravolgimento del vocabolario degno del miglior Grande Fratello (quello di Orwell), i ragazzi e le ragazze che verranno irretiti da questa non inedita propaganda, impareranno che la guerra è pace, che il valore si dimostra con la forza e che la solidarietà è cosa che si può portare col fucile.

Quello che era un disegno di legge depositato lo scorso primo aprile, rischia ora di essere approvato (senza ovviamente alcuna discussione previa) all’interno della maxi-manovra finanziaria con il paradossale risultato che lo stesso testo che taglia i fondi per l’addestramento delle Forze Armate professioniste, regala 20 milioni di euro per l’indottrinamento delle possibili nuove reclute.

A riprova che l’operazione voluta da La Russa e soci é diretta all’acquisizione di nuovi soggetti abili al combattimento, il testo specifica che la partecipazione ai corsi è riservata solo ai giovani più meritevoli ed atletici, che hanno un titolo di studio elevato e che risiedono nelle aree tipiche di reclutamento.

Una risposta alla disoccupazione nel Mezzogiorno o un semplice infondere “amor di Patria”? Nelle intenzioni dei ministri questa sperimentazione sarà “un’esperienza di vita unica che contribuirà ad avvicinare i giovani ai valori delle Forze Armate, con una formazione specifica al rispetto e alla difesa dei valori costituzionali”.

Siamo però sicuri che tra questi valori costituzionali, quelli chiaramente esplicati all’articolo 11 non verranno presi in considerazione: come si fa a spiegare a dei diciottenni imberbi che l’Italia che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” è la stessa Italia di stanza in Afghanistan?

 

di Mariavittoria Orsolato

Una volta si diceva che le donne, in quanto tali, non vanno toccate neanche con un fiore. A ribaltare completamente questa vecchia, ma fondamentale massima, ci ha pensato la Corte di Cassazione, che con una sentenza ha stabilito la non punibilità delle molestie di genere nel caso in cui la donna abbia un carattere forte ed un piglio volitivo. L’antefatto si spiega brevemente: a seguito delle ripetute denuncie della moglie, Sandro F., un quarantacinquenne di Livigno, nel settembre 2005 era stato condannato in primo grado dal tribunale di Sondrio.

Anche la Corte d’Appello di Milano, nell'ottobre 2007, lo aveva ritenuto colpevole di maltrattamenti ai danni della moglie Roberta B., condannandolo a 8 mesi di reclusione con le attenuanti generiche. Stando alla sentenza milanese la colpevolezza dell’uomo era “provata sulla base di sue stesse ammissioni, anche se parziali, e sulla testimonianza di medici, conoscenti e certificati medici, da cui si ricava una condotta abituale di sopraffazioni, violenze e offese umilianti, lesive della integrità fisica e morale della moglie” per tre anni sottoposta ad ingiurie, minacce e percosse da parte del marito.

Ma Sandro è convinto del fatto suo e sfida il terzo grado di giudizio, sostenendo dinanzi alla Suprema Corte che la sua condotta non implicava il maltrattamento, in quanto la moglie “non era per nulla intimorita” dal comportamento del coniuge, ma solo “scossa, esasperata, molto carica emotivamente”. I giudici della Cassazione, a sorpresa, accolgono le istanze del marito, annullando le sentenze precedenti e stabilendo, con la sentenza 25138, che non si può considerare come “condotta vessatoria” l’atteggiamento aggressivo non caratterizzato da abitualità. “I fatti incriminati in questa vicenda - prosegue la Cassazione - appaiono risolversi in alcuni limitati episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di tre anni (per i quali la moglie ha rimesso la querela), che non rendono di per sé integrato il connotato di abitualità della condotta di sopraffazione”. L’accusa di conseguenza cade, in quanto il fatto non sussiste.

Il pronunciamento della Cassazione non può però essere più intempestivo. Solo questa settimana la cronaca ha portato alla ribalta almeno 6 ginocidi commessi da ex fidanzati o mariti, l’ultima in ordine una ragazza di 20 anni rea di aver scaricato il fidanzatino: un colpo in testa e un macabro biglietto con su scritto “solo così possiamo stare insieme”. Di “uomini che odiano le donne” ce ne sono quindi ancora molti e nella sua funzione di fonte giurisprudenziale, la sentenza della Cassazione - basata sull’assurdo concetto che la tempra caratteriale possa agire, anzi agisca automaticamente, da scudo contro le sopraffazioni dell’altro sesso - rischia di legittimare in una certa misura quell’atteggiamento machista che identifica le donne come esseri inferiori; oggetti cui il partner, prima che ispirare amore, deve ispirare timore reverenziale e desiderio di sottomissione.

Questa deprecabile condotta non può però essere ridotta al solo disagio psichico del carnefice o alle dinamiche di relazione che, caso per caso, emergono nelle indagini dei magistrati: l’innegabile misoginia che riscontriamo sempre più spesso nelle pagine di nera e, ahinoi, di politica, ha radici ben più profonde, che corrispondono ad una situazione politica e culturale con una precisa fisionomia.

Se in Italia esistono fenomeni come il “velinismo” e si producono documentari di denuncia come “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo, significa che la questione della discriminazione di genere è tutt’altro che retorica veterofemminista. Esistono però anche mirabili esempi d’intellettuali (maschi of course) che ancora nel 2010 fanno proseliti sul “vittimismo” del genere femminile.

Poco meno di due mesi fa Massimo Fini, riciclando alla bell’e meglio un suo precedente pezzo uscito su Il Sole 24 ore, pubblicava sul blog del Il Fatto Quotidiano una tirata di 30 righe dal titolo “Donne, guaio senza soluzione”. Un compendio di bassezze da bar in cui spiccava il monito a guardarsi da quelle che, nel contesto di una “carrieruccia da segretaria”, se ne vanno “sculando in mini, ma se in ufficio le fai una innocente carezza sui capelli è già molestia e se le chiami due volte sul cellulare è già stalking”.

E’ proprio all’interno di questa poverissima filosofia - quella che riciclando il Nietsche meno brillante vuole la donna provocatrice “dionisiaca, orgiastica e baccante” - che il germe dell’odio e della violenza attecchisce senza difficoltà e produce comportamenti lesivi della dignità come quelli che la Cassazione ha deciso di dichiarare non sussistenti al reato. Certo, nella sua evoluzione sociale e lavorativa la donna ha indurito il suo carattere, cercando di impermeabilizzarsi rispetto al contesto sopracitato; ha cercato, magari sbagliando a volte, di conformarsi alla biosfera testosteronica per essere apprezzata in base alle proprie qualità.

La sentenza 25318 va però oltre questa dissumulata parità dei sessi e, sancendo che la molestia verso una donna non è punibile nella misura in cui quest’ultima mostri di “avere le palle”, implica tacitamente che la violenza non è punibile in quanto tale, ma va commisurata in base alla resistenza della vittima. Non c’è dubbio che questo rappresenti un enorme passo indietro rispetto alle acquisizioni sui diritti umani; diritti che, in seno alla loro aggettivazione, non hanno cromosomi.

 

di Mariavittoria Orsolato

Nel caldo torrido di un primo pomeriggio di luglio, decine di migliaia di cittadini si sono uniti alla manifestazione promossa dalla Federazionale Nazionale della Stampa per ribadire il loro secco rifiuto alla cosiddetta legge bavaglio, il disegno di legge sulle intercettazioni in discussione dal prossimo 29 luglio alle Camere, e per ribadire l’importanza di quella cultura pesantemente penalizzata dalla manovre economica.

Dilagata a macchia d’olio in tutta la penisola, la protesta contro la legge che in un colpo solo vuole eliminare il dovere di indagare della magistratura e il diritto di sapere dei cittadini, ha raggiunto in Piazza Navona il suo apice con una non-stop magistralmente condotta dall’ex mezzobusto “dissidente” del Tg1 Tiziana Ferrario e dall’attrice Ottavia Piccolo.

“Oggi s’inaugura la giornata della resistenza civile del 21 secolo che mai avremmo pensato di inaugurare”, ha detto il segretario della Fnsi, Franco Siddi, nel discorso di apertura della kermesse dal palco della Capitale. “Non la faremo clandestinamente, ma alla luce del sole ripeteremo che la libertà è un bene fondamentale, che è conoscenza, chi considera l'informazione un pericolo sarà sconfitto”. Un monito duro e preciso che mira a colpire le orecchie e soprattutto gli animi di quanti, probabilmente in buona fede, credono che le misure imposte da Palazzo Chigi siano in realtà una semplice tutela della privacy individuale.

Con la pesante limitazione dello strumento delle intercettazioni, l’unica privacy a venire protetta sarà però quella dei malavitosi e a spiegarlo con la solita efficacia è lo scrittore Roberto Saviano, vittima esso stesso della verità che ha avuto il coraggio di denunciare con il suo Gomorra: “C'è un grande fraintendimento in questa vicenda. Non è vero che questa legge difende le telefonate tra fidanzati, il suo unico scopo è impedire di conoscere ciò che sta accadendo, che il potere venga raccontato. La privacy che vogliono proteggere è quella degli affari, anzi dei malaffari”.

Saviano, giustamente, ricorda poi che nel caso in cui il ddl fosse effettivamente approvato, le conseguenze non sarebbero nefaste solo per il nostro sventurato stivale ma andrebbero a compromettere anche la giustizia oltre confine. Per questo e altri motivi il muro di dissenso - rappresentato dagli eurodeputati dell’Itlaia dei Valori - è arrivato fino agli scranni di Bruxelles, nella speranza che un organismo sovranazionale qual’è l’Unione Europea, possa apporre un veto di qualche sorta alla promulgazione del bavaglio, senza doversi limitare alle solite multe che più che colpire i governanti compiono uno stillicidio nelle tasche dei governati, costretti con le tasse a sopperire alle mancanze del Tesoro.

Nel giorno della protesta generalizzata s’inserisce anche la voce di un Quirinale decisamente esarcebato dall’atteggiamento sperzzante dei berluscones, che vorrebbero chiudere il più in fretta possibile la partita delle intercettazioni. “Sono chiari i punti critici ma - dice il Capo dello Stato - non spetta al Quirinale suggerire soluzioni. Valuteremo obiettivamente, nell'ambito delle nostre prerogative, se verranno apportate le modifiche adeguate alla problematicità di questi punti che sono già stati messi in evidenza".

Con queste dichiarazioni Napolitano allude in modo ben poco sibillino al fatto che i consigli sulle migliorie al testo e sui tempi canonici della discussione parlamentare, elargiti poco meno di un mese fa, non sono stati minimamente presi in considerazione. Il Quirinale infatti, oltre ad esprimere più di una riserva sul testo, auspicava che i legislatori si concentrassero, prima della pausa estiva, sulla manovra economica e che solo dopo aver sistemato i conti di bilancio ci si concentrasse a mettere le pezze sulle disgrazie giudiziarie intrinseche al Popolo della Libertà.

Il periodo estivo, infatti, causa latenza vacanziera della già scarna opinione pubblica, è il periodo dell’anno preferito dai berluscones per legiferare in modo spudorato su temi che invece richiederebbero ben altra attenzione rispetto a quella che si può incontrare tra gli scrannni delle Camere da luglio a settembre.

Senza andare troppo lontano, il 27 luglio del 2009 veniva approvato a larga maggioranza un bavaglio che non ha avuto la fortuna di essere contestato come quello odierno: era il lodo Bernardo ed imponeva ai giudici della Corte dei Conti di aprire dei fascicoli d’indagine solo nel caso in cui si fosse riscontrata “una specifica e precisa notizia di danno, qualora sia cagionato per dolo o colpa grave”.

La terminologia utilizzata per il lodo Bernardo è la stessa che possiamo leggere nelle righe del ddl sulle intercettazioni - la mano dell’onorevole ghost-writer Niccolò Ghedini è evidente in entrambi i testi - a dimostrazione che, oltre ad essere povera di idee e soluzioni reali, la maggioranza ha un’univoca idea di giustizia: quella dei furbi.

 


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