di Mariavittoria Orsolato

Mentre la scuola pubblica letteralmente affoga nei tagli imposti dalla riforma Gelmini e dalle manovre economiche di Tremonti, il Governo pensa a potenziare le “istituzioni alternative” deputate alla formazione dei giovani. Se da un lato si continua a rimpinzare di finanziamenti le scuole cattoliche - la sola città di Verona ha appena stanziato 300.000 euro per i suoi istituti paritari - dall’altro una legge a firma congiunta mira ad istituire un fondo per organizzare corsi di formazione delle Forze Armate per i giovani.

Le firme su quella che è già stata ribattezzata la ”legge balilla” sono del ministro della Difesa La Russa, della giovane ministra dei Giovani Giorgia Meloni e del ministro del Tesoro Tremonti che, nonostante pianga miseria in sede di bilancio, ha dato il via libera a 20 milioni di Euro, necessari alle attività per i primi tre anni di sperimentazione.

L’idea alla base del provvedimento è quella di invogliare i ragazzi e le ragazze a preferire una sicura carriera militare all’inevitabile precariato post-laurea o post-diploma: i ragazzi verrebbero invitati per un soggiorno di tre settimane all’interno delle caserme dell’Arma, dove seguirebbero la routine e i costumi del reggimento e verrebbero di conseguenza edotti sulle meraviglie dell’essere soldato nell’era delle guerre globali. Che sì sono guerre, ma almeno ti fanno vedere il mondo.

In questo modo la Difesa spera di assicurarsi sufficiente carne fresca in barba all’avvenuto decadimento della coscrizione obbligatoria e, velatamente, spinge a promuovere una professione che, grazie alle continue cronache di sopraffazione, ha perso quell’aura di sacralità da sempre celebrata nel folklore nazionalista.

All’interno del provvedimento - che paradossalmente si colloca nell’ambito delle iniziative per la diffusione dei valori e della cultura della pace e della solidarietà internazionale tra le giovani generazioni - sono stanziati poi 4 milioni di Euro per la ristrutturazione delle caserme destinate a diventare delle vere e proprie “scuole di guerra”, mentre ne serviranno altri 850.000 per le attività di addestramento che, tra le altre, comprendono lezioni di “tiro con arma individuale”.

I nostri ragazzi potranno dunque maneggiare armi pur non avendone la licenza e seguire attività sulla scorta di quelle create per i soldati di professione; stando al testo, i compiti istituzionali delle Forze Armate si riferiscono alla preparazione per “missioni internazionali di pace a salvaguardia degli interessi nazionali, di contrasto del terrorismo internazionale, di soccorso alle popolazioni locali e di concorso alla salvaguardia delle libere istituzioni, in circostanze di pubblica calamità e in altri casi di straordinaria necessità e urgenza”. Sì, avete letto bene.

Con uno stravolgimento del vocabolario degno del miglior Grande Fratello (quello di Orwell), i ragazzi e le ragazze che verranno irretiti da questa non inedita propaganda, impareranno che la guerra è pace, che il valore si dimostra con la forza e che la solidarietà è cosa che si può portare col fucile.

Quello che era un disegno di legge depositato lo scorso primo aprile, rischia ora di essere approvato (senza ovviamente alcuna discussione previa) all’interno della maxi-manovra finanziaria con il paradossale risultato che lo stesso testo che taglia i fondi per l’addestramento delle Forze Armate professioniste, regala 20 milioni di euro per l’indottrinamento delle possibili nuove reclute.

A riprova che l’operazione voluta da La Russa e soci é diretta all’acquisizione di nuovi soggetti abili al combattimento, il testo specifica che la partecipazione ai corsi è riservata solo ai giovani più meritevoli ed atletici, che hanno un titolo di studio elevato e che risiedono nelle aree tipiche di reclutamento.

Una risposta alla disoccupazione nel Mezzogiorno o un semplice infondere “amor di Patria”? Nelle intenzioni dei ministri questa sperimentazione sarà “un’esperienza di vita unica che contribuirà ad avvicinare i giovani ai valori delle Forze Armate, con una formazione specifica al rispetto e alla difesa dei valori costituzionali”.

Siamo però sicuri che tra questi valori costituzionali, quelli chiaramente esplicati all’articolo 11 non verranno presi in considerazione: come si fa a spiegare a dei diciottenni imberbi che l’Italia che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” è la stessa Italia di stanza in Afghanistan?

 

di Mariavittoria Orsolato

Una volta si diceva che le donne, in quanto tali, non vanno toccate neanche con un fiore. A ribaltare completamente questa vecchia, ma fondamentale massima, ci ha pensato la Corte di Cassazione, che con una sentenza ha stabilito la non punibilità delle molestie di genere nel caso in cui la donna abbia un carattere forte ed un piglio volitivo. L’antefatto si spiega brevemente: a seguito delle ripetute denuncie della moglie, Sandro F., un quarantacinquenne di Livigno, nel settembre 2005 era stato condannato in primo grado dal tribunale di Sondrio.

Anche la Corte d’Appello di Milano, nell'ottobre 2007, lo aveva ritenuto colpevole di maltrattamenti ai danni della moglie Roberta B., condannandolo a 8 mesi di reclusione con le attenuanti generiche. Stando alla sentenza milanese la colpevolezza dell’uomo era “provata sulla base di sue stesse ammissioni, anche se parziali, e sulla testimonianza di medici, conoscenti e certificati medici, da cui si ricava una condotta abituale di sopraffazioni, violenze e offese umilianti, lesive della integrità fisica e morale della moglie” per tre anni sottoposta ad ingiurie, minacce e percosse da parte del marito.

Ma Sandro è convinto del fatto suo e sfida il terzo grado di giudizio, sostenendo dinanzi alla Suprema Corte che la sua condotta non implicava il maltrattamento, in quanto la moglie “non era per nulla intimorita” dal comportamento del coniuge, ma solo “scossa, esasperata, molto carica emotivamente”. I giudici della Cassazione, a sorpresa, accolgono le istanze del marito, annullando le sentenze precedenti e stabilendo, con la sentenza 25138, che non si può considerare come “condotta vessatoria” l’atteggiamento aggressivo non caratterizzato da abitualità. “I fatti incriminati in questa vicenda - prosegue la Cassazione - appaiono risolversi in alcuni limitati episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di tre anni (per i quali la moglie ha rimesso la querela), che non rendono di per sé integrato il connotato di abitualità della condotta di sopraffazione”. L’accusa di conseguenza cade, in quanto il fatto non sussiste.

Il pronunciamento della Cassazione non può però essere più intempestivo. Solo questa settimana la cronaca ha portato alla ribalta almeno 6 ginocidi commessi da ex fidanzati o mariti, l’ultima in ordine una ragazza di 20 anni rea di aver scaricato il fidanzatino: un colpo in testa e un macabro biglietto con su scritto “solo così possiamo stare insieme”. Di “uomini che odiano le donne” ce ne sono quindi ancora molti e nella sua funzione di fonte giurisprudenziale, la sentenza della Cassazione - basata sull’assurdo concetto che la tempra caratteriale possa agire, anzi agisca automaticamente, da scudo contro le sopraffazioni dell’altro sesso - rischia di legittimare in una certa misura quell’atteggiamento machista che identifica le donne come esseri inferiori; oggetti cui il partner, prima che ispirare amore, deve ispirare timore reverenziale e desiderio di sottomissione.

Questa deprecabile condotta non può però essere ridotta al solo disagio psichico del carnefice o alle dinamiche di relazione che, caso per caso, emergono nelle indagini dei magistrati: l’innegabile misoginia che riscontriamo sempre più spesso nelle pagine di nera e, ahinoi, di politica, ha radici ben più profonde, che corrispondono ad una situazione politica e culturale con una precisa fisionomia.

Se in Italia esistono fenomeni come il “velinismo” e si producono documentari di denuncia come “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo, significa che la questione della discriminazione di genere è tutt’altro che retorica veterofemminista. Esistono però anche mirabili esempi d’intellettuali (maschi of course) che ancora nel 2010 fanno proseliti sul “vittimismo” del genere femminile.

Poco meno di due mesi fa Massimo Fini, riciclando alla bell’e meglio un suo precedente pezzo uscito su Il Sole 24 ore, pubblicava sul blog del Il Fatto Quotidiano una tirata di 30 righe dal titolo “Donne, guaio senza soluzione”. Un compendio di bassezze da bar in cui spiccava il monito a guardarsi da quelle che, nel contesto di una “carrieruccia da segretaria”, se ne vanno “sculando in mini, ma se in ufficio le fai una innocente carezza sui capelli è già molestia e se le chiami due volte sul cellulare è già stalking”.

E’ proprio all’interno di questa poverissima filosofia - quella che riciclando il Nietsche meno brillante vuole la donna provocatrice “dionisiaca, orgiastica e baccante” - che il germe dell’odio e della violenza attecchisce senza difficoltà e produce comportamenti lesivi della dignità come quelli che la Cassazione ha deciso di dichiarare non sussistenti al reato. Certo, nella sua evoluzione sociale e lavorativa la donna ha indurito il suo carattere, cercando di impermeabilizzarsi rispetto al contesto sopracitato; ha cercato, magari sbagliando a volte, di conformarsi alla biosfera testosteronica per essere apprezzata in base alle proprie qualità.

La sentenza 25318 va però oltre questa dissumulata parità dei sessi e, sancendo che la molestia verso una donna non è punibile nella misura in cui quest’ultima mostri di “avere le palle”, implica tacitamente che la violenza non è punibile in quanto tale, ma va commisurata in base alla resistenza della vittima. Non c’è dubbio che questo rappresenti un enorme passo indietro rispetto alle acquisizioni sui diritti umani; diritti che, in seno alla loro aggettivazione, non hanno cromosomi.

 

di Mariavittoria Orsolato

Nel caldo torrido di un primo pomeriggio di luglio, decine di migliaia di cittadini si sono uniti alla manifestazione promossa dalla Federazionale Nazionale della Stampa per ribadire il loro secco rifiuto alla cosiddetta legge bavaglio, il disegno di legge sulle intercettazioni in discussione dal prossimo 29 luglio alle Camere, e per ribadire l’importanza di quella cultura pesantemente penalizzata dalla manovre economica.

Dilagata a macchia d’olio in tutta la penisola, la protesta contro la legge che in un colpo solo vuole eliminare il dovere di indagare della magistratura e il diritto di sapere dei cittadini, ha raggiunto in Piazza Navona il suo apice con una non-stop magistralmente condotta dall’ex mezzobusto “dissidente” del Tg1 Tiziana Ferrario e dall’attrice Ottavia Piccolo.

“Oggi s’inaugura la giornata della resistenza civile del 21 secolo che mai avremmo pensato di inaugurare”, ha detto il segretario della Fnsi, Franco Siddi, nel discorso di apertura della kermesse dal palco della Capitale. “Non la faremo clandestinamente, ma alla luce del sole ripeteremo che la libertà è un bene fondamentale, che è conoscenza, chi considera l'informazione un pericolo sarà sconfitto”. Un monito duro e preciso che mira a colpire le orecchie e soprattutto gli animi di quanti, probabilmente in buona fede, credono che le misure imposte da Palazzo Chigi siano in realtà una semplice tutela della privacy individuale.

Con la pesante limitazione dello strumento delle intercettazioni, l’unica privacy a venire protetta sarà però quella dei malavitosi e a spiegarlo con la solita efficacia è lo scrittore Roberto Saviano, vittima esso stesso della verità che ha avuto il coraggio di denunciare con il suo Gomorra: “C'è un grande fraintendimento in questa vicenda. Non è vero che questa legge difende le telefonate tra fidanzati, il suo unico scopo è impedire di conoscere ciò che sta accadendo, che il potere venga raccontato. La privacy che vogliono proteggere è quella degli affari, anzi dei malaffari”.

Saviano, giustamente, ricorda poi che nel caso in cui il ddl fosse effettivamente approvato, le conseguenze non sarebbero nefaste solo per il nostro sventurato stivale ma andrebbero a compromettere anche la giustizia oltre confine. Per questo e altri motivi il muro di dissenso - rappresentato dagli eurodeputati dell’Itlaia dei Valori - è arrivato fino agli scranni di Bruxelles, nella speranza che un organismo sovranazionale qual’è l’Unione Europea, possa apporre un veto di qualche sorta alla promulgazione del bavaglio, senza doversi limitare alle solite multe che più che colpire i governanti compiono uno stillicidio nelle tasche dei governati, costretti con le tasse a sopperire alle mancanze del Tesoro.

Nel giorno della protesta generalizzata s’inserisce anche la voce di un Quirinale decisamente esarcebato dall’atteggiamento sperzzante dei berluscones, che vorrebbero chiudere il più in fretta possibile la partita delle intercettazioni. “Sono chiari i punti critici ma - dice il Capo dello Stato - non spetta al Quirinale suggerire soluzioni. Valuteremo obiettivamente, nell'ambito delle nostre prerogative, se verranno apportate le modifiche adeguate alla problematicità di questi punti che sono già stati messi in evidenza".

Con queste dichiarazioni Napolitano allude in modo ben poco sibillino al fatto che i consigli sulle migliorie al testo e sui tempi canonici della discussione parlamentare, elargiti poco meno di un mese fa, non sono stati minimamente presi in considerazione. Il Quirinale infatti, oltre ad esprimere più di una riserva sul testo, auspicava che i legislatori si concentrassero, prima della pausa estiva, sulla manovra economica e che solo dopo aver sistemato i conti di bilancio ci si concentrasse a mettere le pezze sulle disgrazie giudiziarie intrinseche al Popolo della Libertà.

Il periodo estivo, infatti, causa latenza vacanziera della già scarna opinione pubblica, è il periodo dell’anno preferito dai berluscones per legiferare in modo spudorato su temi che invece richiederebbero ben altra attenzione rispetto a quella che si può incontrare tra gli scrannni delle Camere da luglio a settembre.

Senza andare troppo lontano, il 27 luglio del 2009 veniva approvato a larga maggioranza un bavaglio che non ha avuto la fortuna di essere contestato come quello odierno: era il lodo Bernardo ed imponeva ai giudici della Corte dei Conti di aprire dei fascicoli d’indagine solo nel caso in cui si fosse riscontrata “una specifica e precisa notizia di danno, qualora sia cagionato per dolo o colpa grave”.

La terminologia utilizzata per il lodo Bernardo è la stessa che possiamo leggere nelle righe del ddl sulle intercettazioni - la mano dell’onorevole ghost-writer Niccolò Ghedini è evidente in entrambi i testi - a dimostrazione che, oltre ad essere povera di idee e soluzioni reali, la maggioranza ha un’univoca idea di giustizia: quella dei furbi.

 

di Giovanni Gnazzi

Da nove a sette. Il giudizio della Corte D’Appello di Palermo ha ridotto così di due anni la pena per Marcello Dell’Utri erogata precedentemente dalla Corte D’Assise. Questa riduzione di pena, per il PDL, è stata l’occasione per esprimere solidarietà sincera al Senatore, strettissimo collaboratore del Presidente del Consiglio. La condanna si riferisce all’attività svolta dall’ex fact totum di Pubblitalia prima del 1992. Non è un’assoluzione, tutt’altro. Ma al predellino va bene comunque.

Perché importa poco che la condanna sia comunque pesante per concorso esterno in associazione mafiosa. E non si comprende nemmeno, dal momento che la stessa si riferisce a vicende che si fermano nel 92, come mai il partito nato due anni dopo si senta felice per la notizia. Perché se è vero che la nascita di Forza Italia non viene scalfita, è altrettanto indubitabile che uno dei suoi fondatori era comunque colluso con la mafia.

Al PDL interessa ancor meno che sia una sostanziale conferma del primo grado di giudizio, pur con una riduzione di due anni di carcere. Carcere che, meglio precisare, Dell’Utri non vedrà mai. Sia perché Senatore, quindi coperto dall’immunità parlamentare, sia perché i reati sono già caduti in prescrizione.

A nessun cittadino “normale” verrebbe in mente di festeggiare due sentenze che lo individuano come associato esterno a Cosa Nostra, ma il senatore bibliofilo è comunque soddisfatto. Esulta Capezzone, che per lavoro e vocazione stabilisce h24 colpevoli e innocenti di fronte alla giustizia, diffondendo lui assoluzioni e condanne ai magistrati che giudicano. Il discrimine è semplice: chi condanna è “toga rossa”, chi assolve è magistrato.

Dunque, il senatore che ha definito Mangano, lo stalliere di Arcore condannato per duplice omicidio e associazione mafiosa, “un eroe”, ha motivo di ritenersi soddisfatto dalla sentenza che definisce “pilatesca”, prima di esprimere le sue “condoglianze” al procuratore Gatto. A dire il vero tanto pilatesca non è, essendo, infatti, una sentenza di condanna e non un’assoluzione per insufficienza di prove, formula del resto ormai non più in vigore. Se per pilatesca s'intende una sentenza che smonta in buona parte le tesi dell'accusa, significativamente la relazione tra Cosa Nostra e Forza Italia, ha ragione. Ma che lui sia condannato per associazione mafiosa, almeno questo, é chiaro.

Dice anche con chiarezza che il ruolo di Dell’Utri è quello di un fidato intermediario tra Cosa Nostra e i poteri economici del nord, in particolare quelli emergenti, significativamente quello di Silvio Berlusconi. Ma certo non sono pochi i dubbi che la sentenza pone e non é affatto detto che la lettura delle motivazioni sarà in grado di dissiparli.

Dell’Utri, infatti, che scemo certo non è, ha molte ragioni per rallegrarsi. Perché stabilire - non si sa con quale precisione possibile - che la sua attività mafiosa finisca nel ’92, significa escludere dalla vicenda processuale - e, in qualche misura storica - la nascita di Forza Italia, che data ufficialmente il 1994.

Ma forse, la soddisfazione di Dell’Utri risiede altrove: nella consapevolezza che non sia stato ritenuto credibile il pentito Spatuzza e, con lui, il figlio di Vito Ciancimino; cioè le due figure di collaboratori di giustizia sulle quali si poggiano le ricostruzioni storiche e giudiziarie dell’attività del principale partito italiano. E, ancor più, dell’origine delle fortune del suo fondatore e padrone, Silvio Berlusconi.

E ritenere i due principali teste d’accusa poco credibili, significa mettere fortemente in dubbio l’operato delle procure siciliane, che sulle dichiarazioni dei due pentiti hanno costruito la sostanza dell’impianto accusatorio che vede Forza Italia almeno come interlocutore privilegiato - se non come referente politico diretto - degli interessi di Cosa Nostra, ormai orfana del Palazzo a seguito della dipartita accelerata di DC e PSI, spazzati via dall’inchiesta Mani Pulite.

La sentenza di Palermo è quindi una buona notizia sia per il Senatore imputato sia per il suo presidente. Che poi ci si possa ritenere soddisfatti di due sentenze che vedono conclamata la certezza dell’operato in nome e per conto di Cosa Nostra è questione che solo in Italia e solo nel PDL può risultare degna di soddisfazione invece che vergognosa.

Ma la sentenza d’Appello  è anche la dimostrazione che, se si vuole inchiodare alla responsabilità storica il percorso torbido della Seconda Repubblica, sarà bene attrezzarsi con la politica, giacché la magistratura non riesce a vincere, non riuscendo a mettere in piedi un’inchiesta con materiale probatorio d’evidenza superiore - o comunque che vada ben oltre - alle parole dei pentiti. E Cosa Nostra può brindare e tornare al tavolo della trattativa. Questa è la vera sentenza.

di Alessandro Iacuelli

La Corte Costituzionale ha rigettato i ricorsi sollevati da dieci Regioni sulla legge delega del 2009 sul nucleare, dichiarandoli in parte infondati e in parte inammissibili. A impugnare la legge n. 99 del 2009, che ha conferito al governo la delega per la riapertura degli impianti nucleari in Italia, sono state Toscana, Umbria, Liguria, Puglia, Basilicata, Lazio, Calabria, Marche, Emilia Romagna e Molise. Le Regioni avevano fatto presenti numerosi profili d’illegittimità.

Infatti, al governo sono state contestate l'assenza di intesa e raccordo con ciascuna delle Regioni interessate dalla scelta dei siti delle centrali, i criteri e le modalità di esercizio del potere sostituivo dell'esecutivo centrale in caso di mancato accordo, la possibilità di dichiarare i siti aree di interesse strategico nazionale, soggette a speciali forme di vigilanza e di protezione, sotto controllo militare, la procedura che prevede una autorizzazione unica, a livello nazionale, sulle tipologie di impianti per la produzione di energia nucleare rilasciata previa intesa della Conferenza unificata e dopo delibera del Cipe.

I giudici della Consulta, dopo aver ascoltato in udienza pubblica gli avvocati delle Regioni e l'avvocato generale dello Stato per conto del governo, hanno affrontato la questione in camera di consiglio. Al momento non sono state ancora pubblicate le motivazioni della sentenza, e solo allora si comprenderà quali siano le competenze che la Consulta ha ritenuto prevalenti nel settore del nucleare. Nel frattempo, c'è già chi gioca al "toto-motivazioni"; infatti la tutela dell'ambiente e della salute sono di competenza statale, ma c'è la necessità di confrontarsi con le competenze regionali, spesso in concorrenza con quelle del governo centrale, in materia di energia e di governo del territorio.

Dopo il rigetto da parte della Corte Costituzionale dei ricorsi sollevati da dieci Regioni, secondo il Governo cade anche l'ultimo ostacolo di rilievo per il ripristino dell'atomo in Italia. In realtà ci sarebbe da notare - ma le fonti governative fanno molta attenzione a non tirare in ballo l'argomento - che appena pochi giorni prima la stessa Corte Costituzionale ha pronunciato una sentenza sfavorevole alla strategia dello Stato, bocciando l’articolo 4 della legge 102 del 3 agosto scorso, nata ufficialmente per rilanciare l’economia italiana e che, in realtà, contiene al suo interno l’imposizione del nucleare, da attuare con procedure straordinarie e urgenti.

Il nocciolo della questione, secondo la Corte, sta proprio nelle procedure: la costruzione delle centrali nucleari sarà affidata ai privati, secondo gare d'appalto e affidamenti diretti, ma l’economia libera è incompatibile con una procedura urgente e gestita dal governo. A decidere i siti, i tempi, i modi e le tecnologie, infatti, dovrebbe essere il privato con i tempi e le modalità che preferisce. Secondo la Corte Costituzionale, quindi, se il nucleare va fatto, lo deve fare lo Stato con soldi pubblici. Si legge infatti nella sentenza: "Trattandosi di iniziative di rilievo strategico, ogni motivo d’urgenza dovrebbe comportare l’assunzione diretta, da parte dello Stato, della realizzazione delle opere medesime" e si tratta di un forte nodo giuridico, e non di un problema politico sollevato da questa o quella Regione.

A parlare per il governo, in assenza di qualcuno che sostituisca Scajola, è Raffaele Fitto, Ministro per i Rapporti con le Regioni, che a proposito del rigetto dei ricorsi delle Regioni dichiara,: "La sentenza della Corte Costituzionale, della quale attendiamo comunque di conoscere nel dettaglio le motivazioni, conferma il principio della competenza nazionale su questioni dalle quali dipende il futuro del Paese nel suo complesso, oltre che dei singoli territori. La linea di tendenza che riconosce un principio unitario e non frammentato delle competenze su questioni di tale rilevanza, allo stato degli atti mi appare pienamente condivisibile". Nessuna parola sulla bocciatura dell'articolo 4 della legge 102/2009.

Sull'altro fronte, quello di chi si oppone al nucleare, Legambiente ricorda che "gli italiani restano contrari all'atomo", mentre il Wwf sottolinea: "Siamo solo all'inizio. E ora il governo è solo", visto che non avrà l'appoggio delle Regioni. Intanto, presso la Corte Costituzionale, c'è un altro ricorso, ancora da esaminare: quello contro le procedure, dettate dal Governo, per la scelta dei siti che dovranno ospitare le centrali; un ricorso che riguarda il passo necessario ad avviare in pieno il ritorno dell'Italia al nucleare. Secondo il governo, ci vorranno tre anni per sceglierli.

I criteri per la scelta sono ben noti. Le centrali saranno di tipo EPR, una tecnologia francese, e i reattori di questo tipo richiedono zone poco o per nulla sismiche, che in Italia non ci sono, oltre che la vicinanza di grandi bacini d'acqua, senza però il pericolo di inondazioni, e la lontananza da zone densamente popolate. Secondo il decreto legislativo dello scorso dicembre, i siti che decideranno di ospitare le centrali potranno ottenere bonus sostanziosi, intorno ai 10 milioni di euro l'anno, destinati sia agli enti locali che ai residenti nelle zone in questione.


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