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di mazzetta
L'evidente crisi di Berlusconi non trova soluzione per un'altrettanto evidente mancanza d'alternative. Non che manchino volenterosi successori o ipotesi d'ingegneria istituzionale per condurre in porto un'alternativa al fallimentare governo di Tremonti e Berlusconi; il problema sembra essere piuttosto la mancanza di una massa critica attorno alla quale coagulare e sviluppare il progetto.
Tale massa critica dovrebbe in teoria trovarsi dalle parti del primo partito d'opposizione, ma le sue vicissitudini e il suo approssimarsi pericolosamente all'implosione lo mettono fuori gioco, privando così il copione di uno degli attori principali. Il PD è reduce da almeno un paio di notevoli secessioni: quella presto metabolizzata di Rutelli, Binetti e altri cattolici astuti, e quella recentissima del PD siciliano, che ha rivendicato la propria autonomia per sostenere il governo più che fallimentare di Lombardo e della sua MPA e della parte di Forza Italia che è scappata insieme a Miccichè. Idealmente si tratta di guadagni netti per il PD, nella pratica sono invece emorragie che avranno sicuramente effetti sul corpo del partito, già leggerino.
Mosse che agli osservatori esterni possono anche strappare qualche sorriso, ma che inevitabilmente indeboliscono un partito che sembra aver smarrito da tempo la bussola, imbevuto di ex democristiani e di vecchi e giovani funzionari incapaci di vedere oltre la gestione quotidiana del potere. Niente dibattito, niente ideologia, nessuna parola d'ordine riconoscibile, un partito che non vuole essere “di sinistra”, ma rincorrere il mitico centro per diventare uno dei due poli di un bipolarismo che è stato scritto sulla carta e immediatamente sabotato dalla realtà.
Le leggi elettorali che, di porcata in porcata, dovevano assicurare il controllo dei due poli a ristrette élite dai programmi non troppo dissimili, una volta impiantate nella carne della nostra politica hanno prodotto una miriade di partiti dai programmi non troppo dissimili e governati come “famiglie” o, quando va bene, come comitati d'affari, luoghi di mediazione dei conflitti tra oligarchie.
A questo destino non pare sfuggire il PD, che soffre di una evidente dannazione quegli esponenti che (molto educati con Berlusconi, che non va demonizzato) sfogano il loro furor politico nell'affermare politiche spesso reazionarie e nel fare la guerra a sinistra. Non è il PCI del “nessun nemico a sinistra”, è una variabile molto più rozza ed elementare, che spesso si risolve nella promozione di sedicenti economisti i quali, eroici, si caricano sulle spalle l'ingrato compito di spiegare alle masse perché devono sacrificarsi per far stare meglio le oligarchie sopra ricordate.
Non stupisce che in un deserto del genere accada anche che alcuni senatori del PD prendano carta e penna per scrivere al presidente della RAI, Zavoli, per lamentarsi del fatto che le posizioni della FIOM abbiano avuto troppa visibilità nel racconto del conflitto sindacale nella fabbrica Fiat di Pomigliano.
Paradossale per diversi motivi, ma soprattutto perché i firmatari della lettera non si rendono conto che la Fiom, nella sua quasi completa solitudine, rappresenta da sola la difesa di migliori condizioni di lavoro e retribuzioni per i dipendenti di Pomigliano. Sia la FIOM nel giusto oppure no, non si rileva, poiché gode necessariamente di più visibilità di qualsiasi attore od organizzazione del fronte favorevole alla proposta di Fiat, non fosse altro che si parla di decine di soggetti che sgomitano per sostenere l'azione di Marchionne. Non importa in questo caso che gli altri siano molto più rilevanti e rappresentativi di FIOM, interpellata di necessità per ogni discussione del caso mentre CGIL deve dividere lo spazio con una vera e propria folla.
Un po' fa anche tenerezza una lettera del genere, t’immagini i senatori attaccati alla RAI che fremono di sdegno di fronte all'evidente ingiustizia e che poi scrivono “sicuri che queste considerazioni troveranno ascolto in Lei, Presidente, maestro di un giornalismo corretto e imparziale” all'impotente presidente di una RAI che affida l'informazione a Minzolini, Vespa e Paragone.
Probabilmente si tratta di una rituale testimonianza di vicinanza ai sindacati confederati o di una maniera come un'altra di ritagliarsi un po' di visibilità in tempi grami, una cosina con scarse velleità; ma se questi sono i senatori, è perfettamente comprensibile perché il PD sia in continuo e, all'apparenza, inarrestabile disfacimento.
Una sensazione confermata dalle spinte centripete e altrettanto velleitarie di nordisti come Chiamparino o Cacciari, che continua a ribadire che al PD “non capiscono un cazzo” senza riuscire a produrre un'idea che non sia all'inseguimento di un leghismo che, nella realtà dei numeri, non ha mai sfondato. Non aiutano le nuove generazioni, anche le grandi speranze come Serracchiani si tengono lontane dai temi bollenti, più attente a non sporcare una potenziale carriera di lungo corso che a gettare il cuore oltre l'ostacolo. Serracchiani, “giovane” speranza del partito agli occhi di molti militanti, in mezzo a tutto questo ha dichiarato che il problema del PD è il simbolo.
Mentre Serracchiani gioca con i pennarelli, che sicuramente i premurosi compagni le hanno subito fornito, il partito sembra un blob informe, un sipario in agitazione dal quale ogni tanto si affaccia Bersani a parlare a nome del partito. Niente di abbastanza solido da costruirci sopra qualcosa, fosse pure un governo tecnico o istituzionale per liberarsi dall'incubo del governo Berlusconi, figurarsi un'alternativa, o anche solo una resistenza, alla narrazione dominante.
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di Fabrizio Casari
Il novantacinque per cento dei dipendenti (4642) ha votato, ma nessuno aveva detto di non andare a votare. Il 52 per cento ha detto Sì, ma il 38 per cento (1673) ha detto No. E se scendiamo agli operai delle linee, il No arriva a lambire il 50%. Questo nonostante il voto si sia svolto in un clima interno di controllo e di manipolazione che nemmeno le elezioni di una repubblica bananera avrebbero consentito. Ma i numeri parlano, e dicono che sia nel caso generale (38%), sia a maggior ragione nel comparto di linea (50%) sono emersi voti che vanno decisamente oltre la rappresentanza Fiom; il che vuol dire che il No all’accordo, è andato ben oltre il peso certificato del sindacato metalmeccanici della Cgil. Dunque, nessun plebiscito, tutt’altro.
Il referendum Fiat, che avrebbe dovuto consegnare al Lingotto un pronunciamento bulgaro sull’accordo separato firmato da sindacati gialli e neri, ma rifiutato dalla Fiom, ha avuto un esito molto diverso da quello che ci si attendeva a Corso Marconi. La Fiom era sola contro tutti e tutto. Governo, Confindustria, partiti (anche del centrosinistra), sindacati, giornali e opinionisti arruolati alla bisogna, avevano cantato in ogni lingua e con ogni tono il favore all’accordo. Con un solo distinguo: quello tra coloro che ne indicavano l’inevitabilità e quelli che, invece, oltre a definirlo inevitabile ne giudicavano positivamente i contenuti.
Hanno preso entrambi un sonoro ceffone. Il referendum è stato interpretato come si doveva, cioè come un ricatto, una falsa alternativa, una vera dichiarazione di guerra. Se la Fiat, come aveva dichiarato, per dare seguito al piano pretendeva un pronunciamento totale in senso affermativo dei suoi operai, non l’ha ottenuto. Pomigliano non accetta di divenire la fabbrica-caserma del nuovo taylorismo, il laboratorio ultimo del comando d’impresa. La soppressione dei diritti costituzionali e la deroga continua al CCLN non gode del consenso di tutti.
L’obiettivo era duplice: azzerare la rappresentanza della Fiom e proporre un modello industriale che riportasse la relazione tra azienda e lavoratori ai primi del ‘900. Ristabilire il comando d’impresa come l’Alfa e l’Omega delle relazioni industriali. Quali dei due obiettivi fosse la principale e quale la subordinata è difficile da stabilire; inoltrarsi nella disamina rischierebbe di riproporre l’annosa questione dell’uovo e della gallina. La loro interdipendenza è invece evidente. Così come risulta evidente che quello della Fiat è un piano industriale fatto di contenuti che in nessun altro paese d’Europa sarebbero accettabili.
Ci si domanda, sempre più spesso e con molte ragioni, come mai la Fiat sceglie di riportare la produzione della Panda a Pomigliano, quando potrebbe mantenerla in Polonia. Meglio sorridere quando sentiamo insinuare una sorta di filantropia del Lingotto. La risposta è semplice: oltre a questioni non certo secondarie, che vanno dai finanziamenti locali ed europei al peso specifico dell’azienda nel sistema-paese di uno dei membri del G-8, si deve considerare che un prodotto come le auto Fiat, per riuscire comunque a conservare o ad accrescere la sua quota di mercato, ha bisogno di una qualità del prodotto che in Polonia, come in altri paesi dell’Est Europa, non avrebbe. Qualificazione professionale, impianti, tecnologia e costi vedono comunque più conveniente la scelta italiana.
La parola passa ora a Marchionne, che ora dovrà, passata la frustrazione, dire parole chiare ed inequivocabili circa il mantenimento dell’investimento dei 700 milioni di euro previsti dal piano, se si può chiamare piano un tentativo di strangolamento. La Fiom si è dichiarata disponibile alla ripresa della trattativa e lo stesso governo, per bocca di Sacconi, definisce una “vittoria” l’esito del referendum e afferma che "bisogna attuare accordi e verificare anche con coloro che non hanno firmato l'adesione a quel modello e io sono sicuro che nessuna organizzazione voglia sabotare il modulo di lavoro che l'unico può attrarre gli investimenti sulla Panda".
Ma al Lingotto sembra invece prevalere la delusione per il risultato della consultazione. In un comunicato diffuso poche ore dopo il voto, sembra che l’azienda di Torino voglia continuare la guerra con la Fiom: "La Fiat ha preso atto dell’impossibilità di trovare condivisione da parte di chi sta ostacolando, con argomentazioni dal nostro punto di vista pretestuose, il piano per il rilancio di Pomigliano".
Vuol forse dire il Lingotto che passerà direttamente al licenziamento o alla cassa integrazione degli iscritti alla Fiom? Sarebbe un modo per riprendere il cammino tracciato da Valletta; niente di nuovo, in fondo. La Fiat ha inaugurato i licenziamenti politici mirati quando Marchionne era ancora sui banchi dell’università. Allo stesso tempo, le politiche aggressive della Fiat hanno sempre prodotto un conflitto di classe tra i più alti d’Europa. Lo stabilimento di Pomigliano è intitolato a Giovan Battista Vico, lo storico napoletano dei “corsi e ricorsi”. Sarà un segno del destino?
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di Ilvio Pannullo
In un momento in cui al bilancio dello Stato viene imposto un dimagrimento forzoso di 25 miliardi di euro come richiesto dall’Europa, la stabilità del governo è appesa ad un filo. Secondo voci lasciate serpeggiare fuori dai palazzi del potere, infatti, la prossima tornata di decreti attuativi sul federalismo fiscale, dopo quello demaniale approvato prima di Natale, è attesa proprio per il mese di giugno. Mancano i soldi per la sanità, per la scuola, per la cultura, ma per evitare la caduta del governo si dovranno trovare quelli necessari per sopportare il costo della rivoluzione che interesserà il nostro sistema istituzionale.
La resa dei conti dovrà comunque arrivare prima della pausa estiva. Un'accelerazione imposta e ottenuta da Umberto Bossi e da tutta la Lega Nord, in cambio del via libera ai provvedimenti sulla Giustizia, tanto cari al Popolo della Libertà. L’unità della Repubblica in cambio della certezza del diritto: un equo scambio per un’Italia troppo ignorante e plebea per ricordarsi della propria storia e della propria Costituzione.
A sorvegliare sull’andamento e sulla fattibilità dello scambio non c’è di certo il PD, che con i sui responsabili per le riforme istituzionali e sulla giustizia, rispettivamente Luciano Violante e quell’Andrea Orlando tanto caro al Foglio di Giuliano Ferrara, lancia continuamente segnali di ammiccamento al partito dell’amore. Accade così l’impensabile: a tenere testa ai disegni eversivi del governo l’unica voce che si alza forte e chiara dal chiacchiericcio politichese è quella del Presidente della Camera Gianfranco Fini.
"Il federalismo non può essere un destino ineluttabile se per realizzarlo si mette a repentaglio la coesione nazionale". Queste le parole dell’ex fascista, ex missino ed ora Presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, alla presentazione del libro "100 anni d’imprese. Storia della Confindustria 1910-2010". Consapevole dei problemi economici che potrebbero derivare da un’attuazione all’italiana del federalismo politico, fiscale e demaniale, la terza carica dello Stato ha poi infilato il dito nella piega delle preoccupazioni leghiste ribadendo la necessità che siano ben chiari i costi della riforma.
La vera svolta sarà, infatti, la definizione dei famosi "costi standard"o LEA, livelli essenziali di assistenza. Per garantire l’autonomia di entrate e spese a Regioni ed Enti Locali e decidere i livelli di perequazione, si passerà in maniera progressiva dal criterio della spesa storica a quello del costo standard, per garantire che i servizi fondamentali costino e siano erogati in maniera uniforme sul territorio nazionale. Il costo standard consentirà di determinare, per ciascun livello di governo, il fabbisogno di cui necessita un’amministrazione e quindi l’eventuale trasferimento perequativo cui avrà diritto in caso di entrate fiscali insufficienti a garantire i servizi. Ma non finisce qui.
Si punta a un calo complessivo della pressione fiscale. Con i decreti attuativi dovrà essere "garantita la determinazione periodica del limite massimo della pressione fiscale, nonché del suo riparto tra i vari livelli di governo". Il governo si è impegnato a fare in modo che con i decreti attuativi non si superi il livello massimo di pressione fiscale fissato nel Dpef e che entro i due anni successivi alla data in vigore dei decreti legislativi questa non superi il 42% e il 40% nei tre anni che seguiranno il primo periodo. Insomma, il federalismo fiscale sta per entrare nel vivo.
Visto che Bossi parla di federalismo da almeno 20 anni, ci eravamo abituati a considerarla una parola-mantra, di quelle che non hanno un significato ma solo un suono evocativo. Lascia quindi un po’ stupefatti vedere il federalismo concretizzarsi in documenti legislativi dall’evidente valore politico. Dopo il parere favorevole della Bicamerale, che ha visto l’astensione del Pd e il voto favorevole dell’Italia dei Valori, il Consiglio dei Ministri ha da poco approvato il cosiddetto “federalismo demaniale”, che prevede il trasferimento del patrimonio pubblico agli enti locali, che potranno eventualmente valorizzarlo, gestirlo e persino vendere ma solo per ridurre il debito e non per finanziare la spesa corrente.
Mentre si segnala cautamente che il patrimonio pubblico demaniale è la garanzia reale del debito pubblico, sottoscritto dallo Stato e non certo dagli enti locali, si scopre che il nostro federalismo incuriosisce anche all’estero: anche tra i burocrati del Parlamento europeo a Bruxelles, c’è chi vuole saperne di più e seguire l’evolvere della situazione, non ultimo per vedere di cosa sono capaci gli italiani. Ed è qui il punto: siamo davvero capaci di tutto.
Alla luce dell'esperienza maturata nelle ultime due legislature, sarebbe comunque da ritenere altamente raccomandabile deporre la concezione eroica della riforma costituzionale - il riferimento è ovviamente alla pretesa di intervenire con una grande riforma di tipo palingenetico - per abbracciare la prospettiva, forse non appassionante ma certamente più costruttiva, della manutenzione della Costituzione.
Che è, in genere, la prospettiva coltivata negli altri Stati europei. Tale mutamento di approccio avrebbe il grande merito di deideologizzare il dibattito sulle riforme, spostando l'attenzione dai modelli generali, alle misure concretamente attuabili: dagli slogan alle esigenze da soddisfare, dagli spasmi populistici agli strumenti tecnici all'occasione utilizzabili.
Un rischio, che, in presenza di un quadro politico estremamente frammentato come quello italiano, è proporzionale all'ambizione dei progetti di riforma ed alla loro estensione. Non deve, infine, dimenticarsi che le grandi riforme costituzionali vanificano la funzione del referendum confermativo di cui all'articolo 138 primo comma, coartando la volontà del corpo elettorale.
È infatti evidente che, posto di fronte a decisioni eterogenee - se non addirittura in reciproca tensione - l'elettore non può distinguere i contenuti cui eventualmente va il proprio favore da quelli che disapprova. Ed è quindi fatalmente sospinto a decidere seguendo logiche di schieramento. Il che priva il suo intervento della funzione che dovrebbe rivestire e quindi di un'apprezzabile valore aggiunto.
Semplificando ed esemplificando le considerazioni di cui sopra, è da ritenere opportuno che, in questa fase, si separi il tema della forma di Stato, di stampo regionalista o federalista, da quello della forma di governo, oggi una Repubblica Parlamentare domani chissà. In primo luogo, perché l'intreccio tra le due tematiche appesantirebbe il tavolo, accrescendo la probabilità di compromessi al ribasso. Inoltre, per ragioni che, mentre il tema della forma di Stato può considerarsi relativamente maturo, essendosi consolidata una riflessione abbastanza condivisa sugli interventi migliorativi necessari, sulla forma di governo si fronteggiano ancora diagnosi e terapie fortemente differenziati. Opinioni che attraversano entrambi gli schieramenti politici trasversalmente.
Non ci rimane dunque che aspettare. Dopotutto siamo così noi italiani: stiamo fermi per anni nell’immobilità più soffocante, pare sempre che giriamo a vuoto, poi all’improvviso partono accelerazioni inaspettate e la locomotiva si mette a correre, certe volte producendo anche cose originali. E così che si spiega il fatto che pur sembrando un paese sempre alla canna del gas, siamo sempre lì a giocarcela, come accade un po’ anche alla nostra Nazionale.
Siamo capaci tanto di vincere un mondiale e quanto di trasformare squadre come la Svizzera in corazzate inespugnabili. In questo contesto non ci si meraviglia neanche davanti alla miracolosa intesa tra maggioranza e opposizione, tanto che - come si è visto - non ci si scandalizza neanche se il polenta-Calderoli indice una conferenza stampa congiunta con il terrone-Di Pietro. Cose da pazzi. Cose da italiani.
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di Mariavittoria Orsolato
Delle tante bordate alla concorrenza televisiva, dall’aumento dell’iva a Sky alla sottrazione del bouquet satellitare Rai, quella degli incentivi statali all’acquisto del decoder per il digitale terrestre fu sicuramente la madre. Correva l’anno 2004, la legge Gasparri superava il secondo assalto al Quirinale e introduceva un bonus di 150 per tutti coloro i quali avessero scelto lo scatolotto DVB-T anziché la parabola; la mossa si ripeteva poi nella finanziaria dell’anno successivo con un importo però ridotto a 70 euro.
In molti allora storsero il naso - primo fra tutti l’ex capo di Stato Carlo Azeglio Ciampi - soprattutto perché lo scatolotto a marca Amstrad, promosso con sì tanta solerzia dall’esecutivo, altro non era che un prodotto importato in esclusiva della Solari.com, una società a responsabilità limitata controllata al 51% da Paolo Berlusconi e dalla figlia di primo letto Alessia, attraverso la finanziaria Paolo Berlusconi financing (Pbf). Il palese conflitto d’interesse restò però impunito e i 220 milioni di euro (110 all’anno) preventivati della finanziaria, vennero regolarmente indirizzati nelle tasche del Berlusconi che solitamente va in prigione.
Allora i “maligni” affermarono che la clausola presente nella Gasparri era una sorta di risarcimento al fratello minore ed un sicuro sgambetto alla nemesi catodica Rupert Murdoch. Oggi, sei anni dopo, sono i giudici della Corte di Giustizia europea a dare nuovamente ragione di queste voci, sentenziando in primo grado che “gli auti di Stato sono stati erogati in modo illegittimo dal Governo” e comminando una multa a Mediaset pari all’importo tolto al bilancio statale, interessi esclusi ovviamente. La sentenza conferma quella emessa nel 2007 dalla Commissione Ue, pronunciamento contro cui Mediaset aveva ricorso appellandosi al fatto che del digitale terrestre il Biscione non è l’unico usufruttuario.
Il ricorso è stato però respinto in quanto nella pratica della sovvenzione statale sono assenti i requisiti di neutralità espressamente richiesti: gli incentivi statali andavano infatti a favorire solo una parte degli operatori televisivi (quelli che appunto hanno scelto la piattaforma digitale, imbarcandosi sul carro di quello che allora pareva il vincitore) ledendo al contrario i soggetti assestati sulle trasmissioni satellitari che, in quanto fruitori di una tecnologia diversa, non hanno avuto diritto agli aiuti.
Mancando di neutralità, il provvedimento varato dal secondo governo Berlusconi, inficiava le regole del mercato comune e della legittima concorrenza: un privato che fosse stato nel dubbio sulla scelta della nuova tecnologia da acquistare per il proprio televisore, avrebbe giustamente proteso per quella incentivata, anziché spendere una cifra superiore per quella a prezzo pieno.
Recita in proposito la sentenza: “Gli aiuti pubblici hanno incitato i consumatori a passare dal sistema analogico a quello digitale terrestre, limitando al tempo stesso i costi che le emittenti televisive digitali terrestri avrebbero dovuto sopportare e, dall’altro, ha consentito alle emittenti medesime di consolidare, rispetto ai nuovi concorrenti, la loro posizione sul mercato”.
Da Cologno Monzese annunciano però un secondo ricorso, dal momento che i contributi sull’acquisto sono stati erogati direttamente ai consumatori “mentre la rete non ha avuto nessun vantaggio materiale”, cosa che però ben due sentenze europee smentiscono categoricamente. Dal Ministero per lo Sviluppo Economico, retto ora ad interim dallo stesso Premier e oggetto dell’ennesimo conflitto d’interesse, una nota fa sapere che “in base alla decisione della Commissione europea sull'aiuto di Stato C52/2005 relativo al contributo per l'acquisto di decoder digitali (…) in data 4 febbraio 2009 la società Rti ha adempiuto a tale richiesta versando allo Stato italiano l'importo di euro 6.013.855,49”. Ne mancherebbero ancora 140 di milioni e, a quanto statuisce la Corte di Giustizia europea, ora lo Stato ha solo due mesi di tempo per adempiere alla sentenza e recuperare il maltolto dalle tasche degli italiani, soprattutto dei molti che del decoder di casa Berlusconi non ne hanno nemmeno voluto sentir parlare.
Sulla carta l’operazione sembra facile, ma dal momento che il risarcitore è formalmente a capo del soggetto da risarcire, viene spontaneo chiedersi se la gerachia delle fonti giudiarie, qui in Italia, abbia ancora un senso di fronte ad un conflitto d’interessi che assomiglia sempre di più ad una metastasi per il nostro sventurato Paese.
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di Fabrizio Casari
La proposta Marchionne non è un’ipotesi di lavoro, è una minaccia. Anzi, ad essere più precisi, è una dichiarazione di guerra: la guerra del capitale contro il lavoro. Le tesi di Marchionne, infatti, nella loro volgarità, contengono un’evidenza sistemica che va ben oltre il contenuto contingente della minaccia. Perché quando si propone uno scambio tra lavoro e diritti, si afferma implicitamente un’idea del sistema sociale ed economico che reputa, sic et simpliciter, i diritti individuali e collettivi come incompatibili - o comunque in contrasto - con lo sviluppo del modello sociale ed economico del capitalismo, versione light o turbo poco importa.
E quando ci si presenta alla trattativa con governo e sindacati con un out-out tra ritorno al diciannovesimo secolo dei diritti del mondo del lavoro per ipotizzare un ventunesimo secolo dello sviluppo economico, si evidenzia palesemente un’idea delle relazioni industriali non più come asse dialettico su cui costruire sviluppo economico e possibile modernizzazione di un paese, che risponda quindi ad una crescente inclusione sociale, ad un modello di società avanzata, capace di crescere e progredire.
Ci si presenta, al contrario, con un’idea dell’organizzazione del mercato del lavoro che è paradigmatica dell’idea più generale di società. L’agenda prevede di sedersi al tavolo dichiarando lo scontro inconciliabile tra le classi; l’idea dell’economia al servizio della società è ormai dichiarata morta e viene sostituita da quella di una società al servizio dell’impresa. Si dichiara, né più né meno, l’inconciliabilità storica tra diritti e profitti e, indi, tra il profitto e il ruolo sociale dell’impresa stessa.
Tremonti sostiene che la proposta di Marchionne sia la vittoria dei riformisti: i riformisti veri si staranno rivoltando nella tomba. Ha voglia il Ministro dell'Economia a sostenere che si deve guardare all’economia sociale di mercato: è proprio la funzione sociale dell’economia, pur inserita nel contesto del mercato, che viene meno con la minaccia della Fiat. Trattasi, per il padronato italiano, di una scelta strategica: la produzione di beni e servizi riscuote profitti inferiori e più lenti della speculazione finanziaria. Ciononostante non si può smettere di produrre, il core business resta comunque la produzione di beni e servizi. Cosa fare? Il costo del lavoro e la sindacalizzazione dei lavoratori sono i principali problemi: il primo va quindi ricercato al livello più basso, non importa dove; la seconda va ridotta, pezzo dopo pezzo, nel disegno di un gigantesco puzzle di stampo ottocentesco.
La chiamano delocalizzazione, ma si pronuncia esportazione di capitali e allocazione all’estero di risorse, mentre si continuano a prelevare, in patria, solo i generosi aiuti economici di Stato e una normativa fiscale ridicola sui capitali speculativi. Si privatizzano i profitti e si socializzano le perdite, pagate dalla fiscalità generale con cassa integrazioni e aiuti di Stato. E anche andare a cercare oltre frontiera il costo del lavoro al livello più basso non è sempre così semplice e, soprattutto, non sempre così conveniente in termini di qualità del prodotto. Se si vuole fare sistema, se si vuole cioè continuare ad essere elemento chiave del potere economico ( e quindi politico) in Italia, in Italia si deve tenere la centralità della produzione.
La scommessa diventa quindi un’altra: ripristinare in Italia le condizioni (costo del lavoro e sindacalizzazione) che si trovano all’estero, nei cosiddetti “paesi emergenti”, cioè quelli nei quali il turbo capitalismo rappresenta l’alfa e l’omega del modello sociale. In questo modo, invece di esportare solo la produzione, si possono importare i modelli di organizzazione del lavoro. Risulta così secondario indicare le falle evidenti del progetto di rilancio industriale presentato dall’ad di una Fiat vittima dei suoi errori, figlia prediletta di un capitalismo assistito che l’ha vista, anno dopo anno, avvitarsi sulla sua crisi ben oltre di quanto la crisi del mercato dell’auto inducesse.
La Fiat è un’azienda che non ha né i numeri, né le competenze manageriali, né la solidità finanziaria per realizzare anche solo un terzo di quanto prevede Marchionne. Prevedere, infatti, un milione e mezzo di vetture in più nel solo mercato italiano (che è già sceso del 15% con la fine delle rottamazioni) è pura fuffa. Solo una sostanziale riconversione industriale potrebbe tenerla ai vertici europei. Ma servirebbe un management e un progetto di ampio respiro e non c'é niente di questo all'orizzonte.
La Fiat, però, se in quanto a progettazione e qualità della produzione ha sempre lasciato a desiderare, ha comunque rappresentato egregiamente la prima fila dell’arroganza padronale italiana. Proprio dalla Fiat, storicamente, sono arrivate le spallate più energiche ai diritti del lavoro, ogni volta ritenute necessarie al rilancio di un’azienda che ha fatto pagare ogni sua nuova linea di produzione con migliaia di licenziamenti e miliardi di soldi pubblici per le casse integrazioni. In questo senso è sempre stata l’azienda leader del padronato italiano che aspirava ad un sistema di relazioni industriali privo di obblighi e pieno di supremazia.
Per questo l’accordo su Pomigliano ha anche relativamente a che vedere con il futuro della Fiat e degli investimenti al sud. Il probabile sì al referendum tra i lavoratori, costretti a scegliere tra non lavorare e lavorare per Marchionne, sarebbe l’apripista di una nuova impostazione delle relazioni industriali. Sancirebbe la definitiva uscita di scena dello statuto dei lavoratori e della contrattazione sindacale; certificherebbe il definitivo svuotamento dei diritti costituzionali individuali e collettivi per i lavoratori e la fine di ogni vincolo costituzionale per le attività imprenditoriali.
Anche per questo governo e Confindustria, sostenuti dai media di famiglia, si sbracciano contro l’art. 41 della Carta. Gli risulta intollerabile che l’impresa debba avere un ruolo di responsabilità sociale, che debba essere una parte - e non il tutto - di un modello di società. La Costituzione, figlia della riscossa dell’Italia, è il frutto della mediazione tra interessi sociali diversi, perché contiene un’idea di società plurale e inclusiva. Tutto il contrario delle aspirazioni governative e confindustriali, che si rifanno agli agrari e ai padroni delle ferriere. Cercano di azzerare i diritti di tutti per far prevalere i loro profitti.
Se oggi Marchionne arriva con una proposta che gli rifiuterebbero in ogni altro paese del G-8, è perché nessun altro governo é pessimo come il nostro e nessun'altra opposizione fa ridere come la nostra. Le condizioni della sinistra italiana sono tragiche. E quelle dei sindacati ancor di più, con Cisl e Uil che ormai vivono da anni in assoluta sintonia con i governi di destra e sono scatenate solo nel ruolo di tenori di Confindustria. Fa benissimo la FIOM a dire no, e non importa se il referendum della pistola alla tempia vedrà l’avallo dell’accordo firmato dai sindacati gialli: resistere alla deriva è l’unico modo di piantare paletti che serviranno in futuro.
Dalla dignità del lavoro e dei lavoratori si può e si deve ripartire, se si vuole ricostruire un sistema di relazioni industriali che non venda diritti in cambio di minacce. C’è bisogno di un nuovo patto sociale e di una nuova prospettiva strategica per l’industria italiana che rischia di scomparire sotto globalizzazione ed incapacità manageriale. C’è bisogno di una nuova stagione nelle relazioni industriali. C’è bisogno di un sindacato che ricorsi il suo ruolo e c’è bisogno di imprenditori con idee. Di fuffa e propaganda, di servi e padroni, abbondiamo fin troppo.