di Giovanni Gnazzi

Da nove a sette. Il giudizio della Corte D’Appello di Palermo ha ridotto così di due anni la pena per Marcello Dell’Utri erogata precedentemente dalla Corte D’Assise. Questa riduzione di pena, per il PDL, è stata l’occasione per esprimere solidarietà sincera al Senatore, strettissimo collaboratore del Presidente del Consiglio. La condanna si riferisce all’attività svolta dall’ex fact totum di Pubblitalia prima del 1992. Non è un’assoluzione, tutt’altro. Ma al predellino va bene comunque.

Perché importa poco che la condanna sia comunque pesante per concorso esterno in associazione mafiosa. E non si comprende nemmeno, dal momento che la stessa si riferisce a vicende che si fermano nel 92, come mai il partito nato due anni dopo si senta felice per la notizia. Perché se è vero che la nascita di Forza Italia non viene scalfita, è altrettanto indubitabile che uno dei suoi fondatori era comunque colluso con la mafia.

Al PDL interessa ancor meno che sia una sostanziale conferma del primo grado di giudizio, pur con una riduzione di due anni di carcere. Carcere che, meglio precisare, Dell’Utri non vedrà mai. Sia perché Senatore, quindi coperto dall’immunità parlamentare, sia perché i reati sono già caduti in prescrizione.

A nessun cittadino “normale” verrebbe in mente di festeggiare due sentenze che lo individuano come associato esterno a Cosa Nostra, ma il senatore bibliofilo è comunque soddisfatto. Esulta Capezzone, che per lavoro e vocazione stabilisce h24 colpevoli e innocenti di fronte alla giustizia, diffondendo lui assoluzioni e condanne ai magistrati che giudicano. Il discrimine è semplice: chi condanna è “toga rossa”, chi assolve è magistrato.

Dunque, il senatore che ha definito Mangano, lo stalliere di Arcore condannato per duplice omicidio e associazione mafiosa, “un eroe”, ha motivo di ritenersi soddisfatto dalla sentenza che definisce “pilatesca”, prima di esprimere le sue “condoglianze” al procuratore Gatto. A dire il vero tanto pilatesca non è, essendo, infatti, una sentenza di condanna e non un’assoluzione per insufficienza di prove, formula del resto ormai non più in vigore. Se per pilatesca s'intende una sentenza che smonta in buona parte le tesi dell'accusa, significativamente la relazione tra Cosa Nostra e Forza Italia, ha ragione. Ma che lui sia condannato per associazione mafiosa, almeno questo, é chiaro.

Dice anche con chiarezza che il ruolo di Dell’Utri è quello di un fidato intermediario tra Cosa Nostra e i poteri economici del nord, in particolare quelli emergenti, significativamente quello di Silvio Berlusconi. Ma certo non sono pochi i dubbi che la sentenza pone e non é affatto detto che la lettura delle motivazioni sarà in grado di dissiparli.

Dell’Utri, infatti, che scemo certo non è, ha molte ragioni per rallegrarsi. Perché stabilire - non si sa con quale precisione possibile - che la sua attività mafiosa finisca nel ’92, significa escludere dalla vicenda processuale - e, in qualche misura storica - la nascita di Forza Italia, che data ufficialmente il 1994.

Ma forse, la soddisfazione di Dell’Utri risiede altrove: nella consapevolezza che non sia stato ritenuto credibile il pentito Spatuzza e, con lui, il figlio di Vito Ciancimino; cioè le due figure di collaboratori di giustizia sulle quali si poggiano le ricostruzioni storiche e giudiziarie dell’attività del principale partito italiano. E, ancor più, dell’origine delle fortune del suo fondatore e padrone, Silvio Berlusconi.

E ritenere i due principali teste d’accusa poco credibili, significa mettere fortemente in dubbio l’operato delle procure siciliane, che sulle dichiarazioni dei due pentiti hanno costruito la sostanza dell’impianto accusatorio che vede Forza Italia almeno come interlocutore privilegiato - se non come referente politico diretto - degli interessi di Cosa Nostra, ormai orfana del Palazzo a seguito della dipartita accelerata di DC e PSI, spazzati via dall’inchiesta Mani Pulite.

La sentenza di Palermo è quindi una buona notizia sia per il Senatore imputato sia per il suo presidente. Che poi ci si possa ritenere soddisfatti di due sentenze che vedono conclamata la certezza dell’operato in nome e per conto di Cosa Nostra è questione che solo in Italia e solo nel PDL può risultare degna di soddisfazione invece che vergognosa.

Ma la sentenza d’Appello  è anche la dimostrazione che, se si vuole inchiodare alla responsabilità storica il percorso torbido della Seconda Repubblica, sarà bene attrezzarsi con la politica, giacché la magistratura non riesce a vincere, non riuscendo a mettere in piedi un’inchiesta con materiale probatorio d’evidenza superiore - o comunque che vada ben oltre - alle parole dei pentiti. E Cosa Nostra può brindare e tornare al tavolo della trattativa. Questa è la vera sentenza.

di Alessandro Iacuelli

La Corte Costituzionale ha rigettato i ricorsi sollevati da dieci Regioni sulla legge delega del 2009 sul nucleare, dichiarandoli in parte infondati e in parte inammissibili. A impugnare la legge n. 99 del 2009, che ha conferito al governo la delega per la riapertura degli impianti nucleari in Italia, sono state Toscana, Umbria, Liguria, Puglia, Basilicata, Lazio, Calabria, Marche, Emilia Romagna e Molise. Le Regioni avevano fatto presenti numerosi profili d’illegittimità.

Infatti, al governo sono state contestate l'assenza di intesa e raccordo con ciascuna delle Regioni interessate dalla scelta dei siti delle centrali, i criteri e le modalità di esercizio del potere sostituivo dell'esecutivo centrale in caso di mancato accordo, la possibilità di dichiarare i siti aree di interesse strategico nazionale, soggette a speciali forme di vigilanza e di protezione, sotto controllo militare, la procedura che prevede una autorizzazione unica, a livello nazionale, sulle tipologie di impianti per la produzione di energia nucleare rilasciata previa intesa della Conferenza unificata e dopo delibera del Cipe.

I giudici della Consulta, dopo aver ascoltato in udienza pubblica gli avvocati delle Regioni e l'avvocato generale dello Stato per conto del governo, hanno affrontato la questione in camera di consiglio. Al momento non sono state ancora pubblicate le motivazioni della sentenza, e solo allora si comprenderà quali siano le competenze che la Consulta ha ritenuto prevalenti nel settore del nucleare. Nel frattempo, c'è già chi gioca al "toto-motivazioni"; infatti la tutela dell'ambiente e della salute sono di competenza statale, ma c'è la necessità di confrontarsi con le competenze regionali, spesso in concorrenza con quelle del governo centrale, in materia di energia e di governo del territorio.

Dopo il rigetto da parte della Corte Costituzionale dei ricorsi sollevati da dieci Regioni, secondo il Governo cade anche l'ultimo ostacolo di rilievo per il ripristino dell'atomo in Italia. In realtà ci sarebbe da notare - ma le fonti governative fanno molta attenzione a non tirare in ballo l'argomento - che appena pochi giorni prima la stessa Corte Costituzionale ha pronunciato una sentenza sfavorevole alla strategia dello Stato, bocciando l’articolo 4 della legge 102 del 3 agosto scorso, nata ufficialmente per rilanciare l’economia italiana e che, in realtà, contiene al suo interno l’imposizione del nucleare, da attuare con procedure straordinarie e urgenti.

Il nocciolo della questione, secondo la Corte, sta proprio nelle procedure: la costruzione delle centrali nucleari sarà affidata ai privati, secondo gare d'appalto e affidamenti diretti, ma l’economia libera è incompatibile con una procedura urgente e gestita dal governo. A decidere i siti, i tempi, i modi e le tecnologie, infatti, dovrebbe essere il privato con i tempi e le modalità che preferisce. Secondo la Corte Costituzionale, quindi, se il nucleare va fatto, lo deve fare lo Stato con soldi pubblici. Si legge infatti nella sentenza: "Trattandosi di iniziative di rilievo strategico, ogni motivo d’urgenza dovrebbe comportare l’assunzione diretta, da parte dello Stato, della realizzazione delle opere medesime" e si tratta di un forte nodo giuridico, e non di un problema politico sollevato da questa o quella Regione.

A parlare per il governo, in assenza di qualcuno che sostituisca Scajola, è Raffaele Fitto, Ministro per i Rapporti con le Regioni, che a proposito del rigetto dei ricorsi delle Regioni dichiara,: "La sentenza della Corte Costituzionale, della quale attendiamo comunque di conoscere nel dettaglio le motivazioni, conferma il principio della competenza nazionale su questioni dalle quali dipende il futuro del Paese nel suo complesso, oltre che dei singoli territori. La linea di tendenza che riconosce un principio unitario e non frammentato delle competenze su questioni di tale rilevanza, allo stato degli atti mi appare pienamente condivisibile". Nessuna parola sulla bocciatura dell'articolo 4 della legge 102/2009.

Sull'altro fronte, quello di chi si oppone al nucleare, Legambiente ricorda che "gli italiani restano contrari all'atomo", mentre il Wwf sottolinea: "Siamo solo all'inizio. E ora il governo è solo", visto che non avrà l'appoggio delle Regioni. Intanto, presso la Corte Costituzionale, c'è un altro ricorso, ancora da esaminare: quello contro le procedure, dettate dal Governo, per la scelta dei siti che dovranno ospitare le centrali; un ricorso che riguarda il passo necessario ad avviare in pieno il ritorno dell'Italia al nucleare. Secondo il governo, ci vorranno tre anni per sceglierli.

I criteri per la scelta sono ben noti. Le centrali saranno di tipo EPR, una tecnologia francese, e i reattori di questo tipo richiedono zone poco o per nulla sismiche, che in Italia non ci sono, oltre che la vicinanza di grandi bacini d'acqua, senza però il pericolo di inondazioni, e la lontananza da zone densamente popolate. Secondo il decreto legislativo dello scorso dicembre, i siti che decideranno di ospitare le centrali potranno ottenere bonus sostanziosi, intorno ai 10 milioni di euro l'anno, destinati sia agli enti locali che ai residenti nelle zone in questione.

di mazzetta

L'evidente crisi di Berlusconi non trova soluzione per un'altrettanto evidente mancanza d'alternative. Non che manchino volenterosi successori o ipotesi d'ingegneria istituzionale per condurre in porto un'alternativa al fallimentare governo di Tremonti e Berlusconi; il problema sembra essere piuttosto la mancanza di una massa critica attorno alla quale coagulare e sviluppare il progetto.

Tale massa critica dovrebbe in teoria trovarsi dalle parti del primo partito d'opposizione, ma le sue vicissitudini e il suo approssimarsi pericolosamente all'implosione lo mettono fuori gioco, privando così il copione di uno degli attori principali. Il PD è reduce da almeno un paio di notevoli secessioni: quella presto metabolizzata di Rutelli, Binetti e altri cattolici astuti, e quella recentissima del PD siciliano, che ha rivendicato la propria autonomia per sostenere il governo più che fallimentare di Lombardo e della sua MPA e della parte di Forza Italia che è scappata insieme a Miccichè. Idealmente si tratta di guadagni netti per il PD, nella pratica sono invece emorragie che avranno sicuramente effetti sul corpo del partito, già leggerino.

Mosse che agli osservatori esterni possono anche strappare qualche sorriso, ma che inevitabilmente indeboliscono un partito che sembra aver smarrito da tempo la bussola, imbevuto di ex democristiani e di vecchi e giovani funzionari incapaci di vedere oltre la gestione quotidiana del potere. Niente dibattito, niente ideologia, nessuna parola d'ordine riconoscibile, un partito che non vuole essere “di sinistra”, ma rincorrere il mitico centro per diventare uno dei due poli di un bipolarismo che è stato scritto sulla carta e immediatamente sabotato dalla realtà.

Le leggi elettorali che, di porcata in porcata, dovevano assicurare il controllo dei due poli a ristrette élite dai programmi non troppo dissimili, una volta impiantate nella carne della nostra politica hanno prodotto una miriade di partiti dai programmi non troppo dissimili e governati come “famiglie” o, quando va bene, come comitati d'affari, luoghi di mediazione dei conflitti tra oligarchie.

A questo destino non pare sfuggire il PD, che soffre di una evidente dannazione quegli esponenti che (molto educati con Berlusconi, che non va demonizzato) sfogano il loro furor politico nell'affermare politiche spesso reazionarie e nel fare la guerra a sinistra. Non è il PCI del “nessun nemico a sinistra”, è una variabile molto più rozza ed elementare, che spesso si risolve nella promozione di sedicenti economisti i quali, eroici, si caricano sulle spalle l'ingrato compito di spiegare alle masse perché devono sacrificarsi per far stare meglio le oligarchie sopra ricordate.

Non stupisce che in un deserto del genere accada anche che alcuni senatori del PD prendano carta e penna per scrivere al presidente della RAI, Zavoli, per lamentarsi del fatto che le posizioni della FIOM abbiano avuto troppa visibilità nel racconto del conflitto sindacale nella fabbrica Fiat di Pomigliano.

Paradossale per diversi motivi, ma soprattutto perché i firmatari della lettera non si rendono conto che la Fiom, nella sua quasi completa solitudine, rappresenta da sola la difesa di migliori condizioni di lavoro e retribuzioni per i dipendenti di Pomigliano. Sia la FIOM nel giusto oppure no, non si rileva, poiché gode necessariamente di più visibilità di qualsiasi attore od organizzazione del fronte favorevole alla proposta di Fiat, non fosse altro che si parla di decine di soggetti che sgomitano per sostenere l'azione di Marchionne. Non importa in questo caso che gli altri siano molto più rilevanti e rappresentativi di FIOM, interpellata di necessità per ogni discussione del caso mentre CGIL deve dividere lo spazio con una vera e propria folla.

Un po' fa anche tenerezza una lettera del genere, t’immagini i senatori attaccati alla RAI che fremono di sdegno di fronte all'evidente ingiustizia e che poi scrivono “sicuri che queste considerazioni troveranno ascolto in Lei, Presidente, maestro di un giornalismo corretto e imparziale” all'impotente presidente di una RAI che affida l'informazione a Minzolini, Vespa e Paragone.

Probabilmente si tratta di una rituale testimonianza di vicinanza ai sindacati confederati o di una maniera come un'altra di ritagliarsi un po' di visibilità in tempi grami, una cosina con scarse velleità; ma se questi sono i senatori, è perfettamente comprensibile perché il PD sia in continuo e, all'apparenza, inarrestabile disfacimento.

Una sensazione confermata dalle spinte centripete e altrettanto velleitarie di nordisti come Chiamparino o Cacciari, che continua a ribadire che al PD “non capiscono un cazzo” senza riuscire a produrre un'idea che non  sia all'inseguimento di un leghismo che, nella realtà dei numeri, non ha mai sfondato. Non aiutano le nuove generazioni, anche le grandi speranze come Serracchiani si tengono lontane dai temi bollenti, più attente a non sporcare una potenziale carriera di lungo corso che a gettare il cuore oltre l'ostacolo. Serracchiani, “giovane” speranza del partito agli occhi di molti militanti, in mezzo a tutto questo ha dichiarato che il problema del PD è il simbolo.

Mentre Serracchiani gioca con i pennarelli, che sicuramente i premurosi compagni le hanno subito fornito, il partito sembra un blob informe, un sipario in agitazione dal quale ogni tanto si affaccia Bersani a parlare a nome del partito. Niente di abbastanza solido da costruirci sopra qualcosa, fosse pure un governo tecnico o istituzionale per liberarsi dall'incubo del governo Berlusconi, figurarsi un'alternativa, o anche solo una resistenza, alla narrazione dominante.

 

di Fabrizio Casari

Il novantacinque per cento dei dipendenti (4642) ha votato, ma nessuno aveva detto di non andare a votare. Il 52 per cento ha detto Sì, ma il 38 per cento (1673) ha detto No. E se scendiamo agli operai delle linee, il No arriva a lambire il 50%. Questo nonostante il voto si sia svolto in un clima interno di controllo e di manipolazione che nemmeno le elezioni di una repubblica bananera avrebbero consentito. Ma i numeri parlano, e dicono che sia nel caso generale (38%), sia a maggior ragione nel comparto di linea (50%) sono emersi voti che vanno decisamente oltre la rappresentanza Fiom; il che vuol dire che il No all’accordo, è andato ben oltre il peso certificato del sindacato metalmeccanici della Cgil. Dunque, nessun plebiscito, tutt’altro.

Il referendum Fiat, che avrebbe dovuto consegnare al Lingotto un pronunciamento bulgaro sull’accordo separato firmato da sindacati gialli e neri, ma rifiutato dalla Fiom, ha avuto un esito molto diverso da quello che ci si attendeva a Corso Marconi. La Fiom era sola contro tutti e tutto. Governo, Confindustria, partiti (anche del centrosinistra), sindacati, giornali e opinionisti arruolati alla bisogna, avevano cantato in ogni lingua e con ogni tono il favore all’accordo. Con un solo distinguo: quello tra coloro che ne indicavano l’inevitabilità e quelli che, invece, oltre a definirlo inevitabile ne giudicavano positivamente i contenuti.

Hanno preso entrambi un sonoro ceffone. Il referendum è stato interpretato come si doveva, cioè come un ricatto, una falsa alternativa, una vera dichiarazione di guerra. Se la Fiat, come aveva dichiarato, per dare seguito al piano pretendeva un pronunciamento totale in senso affermativo dei suoi operai, non l’ha ottenuto. Pomigliano non accetta di divenire la fabbrica-caserma del nuovo taylorismo, il laboratorio ultimo del comando d’impresa. La soppressione dei diritti costituzionali e la deroga continua al CCLN non gode del consenso di tutti.

L’obiettivo era duplice: azzerare la rappresentanza della Fiom e proporre un modello industriale che riportasse la relazione tra azienda e lavoratori ai primi del ‘900. Ristabilire il comando d’impresa come l’Alfa e l’Omega delle relazioni industriali. Quali dei due obiettivi fosse la principale e quale la subordinata è difficile da stabilire; inoltrarsi nella disamina rischierebbe di riproporre l’annosa questione dell’uovo e della gallina. La loro interdipendenza è invece evidente. Così come risulta evidente che quello della Fiat è un piano industriale fatto di contenuti che in nessun altro paese d’Europa sarebbero accettabili.

Ci si domanda, sempre più spesso e con molte ragioni, come mai la Fiat sceglie di riportare la produzione della Panda a Pomigliano, quando potrebbe mantenerla in Polonia. Meglio sorridere quando sentiamo insinuare una sorta di filantropia del Lingotto. La risposta è semplice: oltre a questioni non certo secondarie, che vanno dai finanziamenti locali ed europei al peso specifico dell’azienda nel sistema-paese di uno dei membri del G-8, si deve considerare che un prodotto come le auto Fiat, per riuscire comunque a conservare o ad accrescere la sua quota di mercato, ha bisogno di una qualità del prodotto che in Polonia, come in altri paesi dell’Est Europa, non avrebbe. Qualificazione professionale, impianti, tecnologia e costi vedono comunque più conveniente la scelta italiana.

La parola passa ora a Marchionne, che ora dovrà, passata la frustrazione, dire parole chiare ed inequivocabili circa il mantenimento dell’investimento dei 700 milioni di euro previsti dal piano, se si può chiamare piano un tentativo di strangolamento. La Fiom si è dichiarata disponibile alla ripresa della trattativa e lo stesso governo, per bocca di Sacconi, definisce una “vittoria” l’esito del referendum e afferma che "bisogna attuare accordi e verificare anche con coloro che non hanno firmato l'adesione a quel modello e io sono sicuro che nessuna organizzazione voglia sabotare il modulo di lavoro che  l'unico  può attrarre  gli investimenti sulla Panda".

Ma al Lingotto sembra invece prevalere la delusione per il risultato della consultazione. In un comunicato diffuso poche ore dopo il voto, sembra che l’azienda di Torino voglia continuare la guerra con la Fiom: "La Fiat ha preso atto dell’impossibilità di trovare condivisione da parte di chi sta ostacolando, con argomentazioni dal nostro punto di vista pretestuose, il piano per il rilancio di Pomigliano".

Vuol forse dire il Lingotto che passerà direttamente al licenziamento o alla cassa integrazione degli iscritti alla Fiom? Sarebbe un modo per riprendere il cammino tracciato da Valletta; niente di nuovo, in fondo. La Fiat ha inaugurato i licenziamenti politici mirati quando Marchionne era ancora sui banchi dell’università. Allo stesso tempo, le politiche aggressive della Fiat hanno sempre prodotto un conflitto di classe tra i più alti d’Europa. Lo stabilimento di Pomigliano è intitolato a Giovan Battista Vico, lo storico napoletano dei “corsi e ricorsi”. Sarà un segno del destino?

 

di Ilvio Pannullo

In un momento in cui al bilancio dello Stato viene imposto un dimagrimento forzoso di 25 miliardi di euro come richiesto dall’Europa, la stabilità del governo è appesa ad un filo. Secondo voci lasciate serpeggiare fuori dai palazzi del potere, infatti, la prossima tornata di decreti attuativi sul federalismo fiscale, dopo quello demaniale approvato prima di Natale, è attesa proprio per il mese di giugno. Mancano i soldi per la sanità, per la scuola, per la cultura, ma per evitare la caduta del governo si dovranno trovare quelli necessari per sopportare il costo della rivoluzione che interesserà il nostro sistema istituzionale.

La resa dei conti dovrà comunque arrivare prima della pausa estiva. Un'accelerazione imposta e ottenuta da Umberto Bossi e da tutta la Lega Nord, in cambio del via libera ai provvedimenti sulla Giustizia, tanto cari al Popolo della Libertà. L’unità della Repubblica in cambio della certezza del diritto: un equo scambio per un’Italia troppo ignorante e plebea per ricordarsi della propria storia e della propria Costituzione.

A sorvegliare sull’andamento e sulla fattibilità dello scambio non c’è di certo il PD, che con i sui responsabili per le riforme istituzionali e sulla giustizia, rispettivamente Luciano Violante e quell’Andrea Orlando tanto caro al Foglio di Giuliano Ferrara, lancia continuamente segnali di ammiccamento al partito dell’amore. Accade così l’impensabile: a tenere testa ai disegni eversivi del governo l’unica voce che si alza forte e chiara dal chiacchiericcio politichese è quella del Presidente della Camera Gianfranco Fini.

"Il federalismo non può essere un destino ineluttabile se per realizzarlo si mette a repentaglio la coesione nazionale". Queste le parole dell’ex fascista, ex missino ed ora Presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, alla presentazione del libro "100 anni d’imprese. Storia della Confindustria 1910-2010". Consapevole dei problemi economici che potrebbero derivare da un’attuazione all’italiana del federalismo politico, fiscale e demaniale, la terza carica dello Stato ha poi infilato il dito nella piega delle preoccupazioni leghiste ribadendo la necessità che siano ben chiari i costi della riforma.

La vera svolta sarà, infatti, la definizione dei famosi "costi standard"o LEA, livelli essenziali di assistenza. Per garantire l’autonomia di entrate e spese a Regioni ed Enti Locali e decidere i livelli di perequazione, si passerà in maniera progressiva dal criterio della spesa storica a quello del costo standard, per garantire che i servizi fondamentali costino e siano erogati in maniera uniforme sul territorio nazionale. Il costo standard consentirà di determinare, per ciascun livello di governo, il fabbisogno di cui necessita un’amministrazione e quindi l’eventuale trasferimento perequativo cui avrà diritto in caso di entrate fiscali insufficienti a garantire i servizi. Ma non finisce qui.

Si punta a un calo complessivo della pressione fiscale. Con i decreti attuativi dovrà essere "garantita la determinazione periodica del limite massimo della pressione fiscale, nonché del suo riparto tra i vari livelli di governo". Il governo si è impegnato a fare in modo che con i decreti attuativi non si superi il livello massimo di pressione fiscale fissato nel Dpef e che entro i due anni successivi alla data in vigore dei decreti legislativi questa non superi il 42% e il 40% nei tre anni che seguiranno il primo periodo. Insomma, il federalismo fiscale sta per entrare nel vivo.

Visto che Bossi parla di federalismo da almeno 20 anni, ci eravamo abituati a considerarla una parola-mantra, di quelle che non hanno un significato ma solo un suono evocativo. Lascia quindi un po’ stupefatti vedere il federalismo concretizzarsi in documenti legislativi dall’evidente valore politico. Dopo il parere favorevole della Bicamerale, che ha visto l’astensione del Pd e il voto favorevole dell’Italia dei Valori, il Consiglio dei Ministri ha da poco approvato il cosiddetto “federalismo demaniale”, che prevede il trasferimento del patrimonio pubblico agli enti locali, che potranno eventualmente valorizzarlo, gestirlo e persino vendere ma solo per ridurre il debito e non per finanziare la spesa corrente.

Mentre si segnala cautamente che il patrimonio pubblico demaniale è la garanzia reale del debito pubblico, sottoscritto dallo Stato e non certo dagli enti locali, si scopre che il nostro federalismo incuriosisce anche all’estero: anche tra i burocrati del Parlamento europeo a Bruxelles, c’è chi vuole saperne di più e seguire l’evolvere della situazione, non ultimo per vedere di cosa sono capaci gli italiani. Ed è qui il punto: siamo davvero capaci di tutto.

Alla luce dell'esperienza maturata nelle ultime due legislature, sarebbe comunque da ritenere altamente raccomandabile deporre la concezione eroica della riforma costituzionale  - il riferimento è ovviamente alla pretesa di intervenire con una grande riforma di tipo palingenetico - per abbracciare la prospettiva, forse non appassionante ma certamente più costruttiva, della manutenzione della Costituzione.

Che è, in genere, la prospettiva coltivata negli altri Stati europei. Tale mutamento di approccio avrebbe il grande merito di deideologizzare il dibattito sulle riforme, spostando l'attenzione dai modelli generali, alle misure concretamente attuabili: dagli slogan alle esigenze da soddisfare, dagli spasmi populistici agli strumenti tecnici all'occasione utilizzabili.

Un rischio, che, in presenza di un quadro politico estremamente frammentato come quello italiano, è proporzionale all'ambizione dei progetti di riforma ed alla loro estensione. Non deve, infine, dimenticarsi che le grandi riforme costituzionali vanificano la funzione del referendum confermativo di cui all'articolo 138 primo comma, coartando la volontà del corpo elettorale.

È infatti evidente che, posto di fronte a decisioni eterogenee - se non addirittura in reciproca tensione - l'elettore non può distinguere i contenuti cui eventualmente va il proprio favore da quelli che disapprova. Ed è quindi fatalmente sospinto a decidere seguendo logiche di schieramento. Il che priva il suo intervento della funzione che dovrebbe rivestire e quindi di un'apprezzabile valore aggiunto.

Semplificando ed esemplificando le considerazioni di cui sopra, è da ritenere opportuno che, in questa fase, si separi il tema della forma di Stato, di stampo regionalista o federalista, da quello della forma di governo, oggi una Repubblica Parlamentare domani chissà. In primo luogo, perché l'intreccio tra le due tematiche appesantirebbe il tavolo, accrescendo la probabilità di compromessi al ribasso. Inoltre, per ragioni che, mentre il tema della forma di Stato può considerarsi relativamente maturo, essendosi consolidata una riflessione abbastanza condivisa sugli interventi migliorativi necessari, sulla forma di governo si fronteggiano ancora diagnosi e terapie fortemente differenziati. Opinioni che attraversano entrambi gli schieramenti politici trasversalmente.

Non ci rimane dunque che aspettare. Dopotutto siamo così noi italiani: stiamo fermi per anni nell’immobilità più soffocante, pare sempre che giriamo a vuoto, poi all’improvviso partono accelerazioni inaspettate e la locomotiva si mette a correre, certe volte producendo anche cose originali. E così che si spiega il fatto che pur sembrando un paese sempre alla canna del gas, siamo sempre lì a giocarcela, come accade un po’ anche alla nostra Nazionale.

Siamo capaci tanto di vincere un mondiale e quanto di trasformare squadre come la Svizzera in corazzate inespugnabili. In questo contesto non ci si meraviglia neanche davanti alla miracolosa intesa tra maggioranza e opposizione, tanto che - come si è visto - non ci si scandalizza neanche se il polenta-Calderoli indice una conferenza stampa congiunta con il terrone-Di Pietro. Cose da pazzi. Cose da italiani.

 


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy