di Rosa Ana de Santis

La manovra piomba addosso agli Istituti di Ricerca italiani ed è caos di proteste e mobilitazioni. I lavoratori non ci stanno. In ballo c’è qualcosa che non riguarda soltanto loro, ma tutto il paese, la sua gente. Il patrimonio che è in mano alla ricerca pubblica rischia di non valere abbastanza per essere custodito e tutelato. La lista degli “enti inutili” è fitta di sigle impegnate nella ricerca. Gli istituti nazionali di alta matematica, astrofisica, oceanografia e geofisica per riportare l’esempio più eclatante. E poi l’IAS (Istituto Affari Sociali) e l’ISFOL (Istituto per la formazione professionale dei lavoratori), che ora sembrano aver scongiurato l’ipotesi dell’azzeramento e che - pare -  saranno accorpati.

Siamo abituati a vedere i ricercatori sul tetto, come era accaduto all’Ispra, e all’Isfol li abbiamo trovati a dormire nei loro uffici, accampati tra le scrivanie, in una occupazione che è andata avanti ad oltranza, per scongiurare l’ipotesi che appariva nelle prime bozze del decreto e che ne minacciava la chiusura. Il tutto in palese contraddizione con le parole che proprio il Ministro Sacconi aveva speso sull’ISFOL definendolo una perla della ricerca italiana.

Via anche il Comitato nazionale per il medio credito, l’ICE ( Istituto Nazionale per il commercio estero) e l’Ente per la Montagna. Dopo la rincorsa disordinata di conferme e smentite, alla fine sembra che a rimanere in piedi saranno Coni Servizi e Difesa SpA, evidentemente considerate più proficue della ricerca sulla geofisica - ovvero la sismologia e la vulcanologia - che, come la cronaca e la storia insegnano, toccano da vicino il nostro territorio e non dovrebbero proprio essere considerate inutili.

L’idea, con buona probabilità, non è tanto quella di abbandonare la ricerca, ma di slegarla sempre di più dall’autorità pubblica e dal controllo dello Stato, mandandola a caccia di sponsor e originando quindi un metodo di finanziamento in cui il profitto e il business diventano la categoria predominante rispetto all’utilità, alla sicurezza e soprattutto all’onestà intellettuale che deve guidare la mano del ricercatore. Il binomio ricerca e affari non sta insieme per niente.

La povertà dell’Italia, numeri alla mano, non è tanto o solo monetaria, quanto culturale. Soltanto il 16, 4% della popolazione ha un livello d’istruzione alto e la differenza con la media europea è preoccupante. A fronte di questo scenario parlare solo di PIL è riduttivo e fuorviante. Proprio l’ISFOL nelle sue ultime ricerche ha evidenziato come sia fondamentale introdurre nelle valutazioni economiche il concetto più ampio e diffuso di BIL (benessere interno lordo) che non può considerare variabili ininfluenti quelle dell’istruzione, della ricerca o della fuga dei cervelli che mette una triste ipoteca di depauperamento intellettuale sul futuro.

Ma la manovra cancella e taglia, mentre le fiaccolate di protesta dei ricercatori proseguono. Serve un piano programmatico per la ricerca e serve soprattutto che i soldi sprecati per Alitalia e le “grandi opere” tornino ad essere investiti per l’emergenza della ricerca scientifica. Non é meno triste vedere azzerati gli Istituti culturali che dalla Resistenza alla Shoah lavoravano per conservare e insegnare la memoria storica. Il passato non ha valore nella contabilità del governo, né il futuro.

E chi sente la pancia soddisfatta per la mannaia tanto invocata dai padani e da Brunetta sulla pubblica amministrazione, prima o poi capirà dalle nuove generazioni che sarebbe bastato controllo e sorveglianza per correggere i vizi della costosa macchina dello Stato, e che invece, aver cancellato la ricerca pubblica, avrà significato avere meno opportunità, appartenere ad una società in regressione e avere il sogno di andare via. Lontano da qui.

 

di Mariavittoria Orsolato

In ambienti e occasioni internazionali, Berlusconi e il suo governo da sempre cercano spasmodicamente di presentare il nostro sciagurato stivale in una luce che ne esalti l’unicità e l’esclusività. Tolto lo scivolone parigino dell’altro giorno, in cui il premier ha citato i diari di Mussolini per ribadire la sua impotenza nelle decisioni di Stato, ecco che l’entourage di palazzo Chigi tira fuori un asso nella manica che nessun altro governo può vantare di possedere.

Stiamo parlando del condono edilizio, un atto amministrativo che non ha eguali né nella lingua, né nella prassi giuridica di alcuno dei Paesi europei, ma che qui in Italia è considerato l’unica via praticabile per rimpinguare le casse statali. Dacché Berlusconi è al potere sono già stati eseguiti 4 condoni tra edilizi e fiscali, e quella “sanatoria catastale” prevista all’interno della manovra da 24 miliardi voluta dal ministro Tremonti, altro non sarebbe se non il quinto colpo di spugna in 8 anni di governo effettivo.

L’operazione in sé pare innocua: censire e regolarizzare al catasto più di due milioni di immobili; se però a questo si aggiunge che i proprietari si vedranno ridotti di un terzo la sanzione amministrativa che gli spetterebbe, ben si capirà come mai in molti abbiano storto il naso di fronte all’annuncio dell’esecutivo. Le associazioni ambientaliste sono sul piede di guerra e parlano di un condono edilizio mascherato da sanatoria, devastante per il territorio e deludente per i conti pubblici; ma secondo i calcoli del Ministero del Tesoro questa operazione è necessaria a sostenere - con i 6 miliardi di extra-gettito previsti - la mega-manovra di lacrime e sangue approvata nei giorni scorsi.

In effetti, con le case che sono sfuggite ai registri del catasto ci si potrebbe costruire una nuova Milano: attualmente al vaglio dell’Agenzia del Territorio ci sono ben 1.400.000 case “fantasma”, 870.000 ex fabbricati rurali e un numero ancora imprecisato di ampliamenti, che entro il 31 dicembre 2010 dovranno essere regolarizzati con l’aggiornamento catastale.

Certo, la sanatoria non cancella gli effetti penali dell’infrazione, come invece fa il condono, ma nella realtà dei fatti le conseguenze delle due diverse iniziative potrebbero essere, e anzi saranno, affatto dissimili: se infatti non tutti gli immobili “fantasma” sono penalmente rilevanti, è invece pacifico e necessario che un immobile abusivo non sia segnalato. Ed è proprio in questo semplice sillogismo che si nasconde quello che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti, si è così alacremente ostinato a negare: nel momento in cui il proprietario denuncia il suo immobile costruito illegalmente, dovrebbe immediatamente scattare la denuncia penale - a meno che, come sempre, non ci sia la prescrizione a vanificare tutto - ma quale italiano andrebbe spontaneamente ad auto-denunciarsi per pagare una proprietà che verrebbe distrutta?

Nemmeno il più onesto, e lo sa bene il caro Giulio che, nel calcolo del gettito extra, ha sicuramente tenuto conto di questa piccola ma fondamentale variabile ed ha agito di conseguenza. Sebbene il testo vero e proprio della mega-manovra non sia ancora stato reso pubblico, è presumibile che nell’articolo riguardante la sanatoria ci sia un comma, un emendamento o chissà quale altra fattucchierìa giuridica che prevede la regolarizzazione non solo a livello fiscale ma anche urbanistico. Et voilà il quinto condono dell’era Berlusconi: i fuorilegge sentitamente ringraziano (per l’ennesima volta).

Che si chiami condono o sanatoria, gli effetti disastrosi sull’ambiente e il territorio saranno però gli stessi; quello che potrebbe variare è la misura in cui la sanatoria saprà essere finanziariamente vantaggiosa. Trattandosi di una manovra prettamente fiscale, la regolarizzazione degli immobili “fantasma” porterebbe alle casse dello Stato solo il gettito previsto dal pagamento dell’Ici e non quello relativo all’oblazione di condono.

Se a ciò si aggiunge che a causa delle incaute promesse elettorali di Padron’ Silvio, l’Ici sulla prima casa non si paga nemmeno più, viene da pensare che pur di mantenere la formalità linguistica la maggioranza si sia tirata la cosiddetta zappa sui piedi, rinunciando a una cospicua fetta di quello che sarebbe stato l’effettivo guadagno in caso di condono vero e proprio. Quindi oltre al sicuro danno ambientale, si aggiunge anche la beffa del mancato vantaggio economico: più che una manovra, un compendio di esternalità negative.

Esternalità che sono soprattutto politiche e sociali nella misura in cui, come spiega in modo egregio Stefano Pareglio, professore di Economia Ambientale all’Università Cattolica di Milano, “si crea nei cittadini la convinzione che chi commette un abuso e aspetta il condono paga meno di chi rispetta le regole”. L’evidenza della tesi di Pareglio la si può già scorgere in Campania dove, dopo il decreto legge sulla sospensione delle demolizioni abusive dello scorso aprile, sono già in molti ad aver cominciato nuove costruzioni ed ora lavorano in fretta e furia per rispettare i tempi di proroga dello scorso condono edilizio. Perché, in Italia, se non ne approfitti sei un fesso.

 

 

di Cinzia Frassi

Il 28 maggio 1974, a Brescia, una bomba nascosta in un cestino portarifiuti esplose mentre era in corso una manifestazione indetta dal Comitato Antifascista. Piazza Loggia era gremita di gente. L'esplosione fu estremamente violenta e si avvertì in tutta la città. La notizia si diffuse rapidamente e molti di noi restarono con il fiato sospeso fino al rientro a casa dei familiari che lavoravano o che erano comunque fuori casa e nei pressi del centro storico. L'attentato fascista fece 8 morti e 103 feriti e oggi ancora nessun colpevole.

Mentre si preparano gli appuntamenti per celebrare la ricorrenza,  entra nel vivo l'ultimo processo, derivante dalla terza istruttoria, che ha portato al rinvio a giudizio per concorso in strage di nomi "illustri": Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, l'ex generale dell'Arma, Francesco Delfino, e uno dei suoi infiltrati, Giovanni Maifredi, autista del ministro dell'Interno dell'epoca Paolo Emilio Taviani e uomo dei servizi segreti. E ancora: Delfo Zorzi, condannato per la strage di Piazza Fontana e ormai cittadino giapponese e Carlo Maria Maggi, militante di spicco di Ordine Nuovo.

In questi giorni nell'aula della Corte d'Assise in cui si sta celebrando il processo ai cinque imputati della strage, sono entrati in scena i periti Paolo Egidi, Federico Boffi e Paolo Zacchei della polizia scientifica divisione IV, sezione II, della direzione centrale anticrime della polizia di Stato di Roma. La ricostruzione della scena è stata realizzata in 3D, tenendo conto di ogni particolare possibile, partendo dalle immagini dell'epoca, dai rilievi e dalle testimonianze. Questo per rispondere a quesiti importantissimi per il procedimento: l'esplosivo utilizzato, la sua provenienza, l’innesco e anche la sua compatibilità rispetto a quello sequestrato in altre occasioni, soprattutto nel ’74. In base alle conclusioni della perizia, si smonta letteralmente la versione di Carlo Digilio, esperto di armi e vicino alla cellula ordinovista del Veneto che, tra le altre cose, non parlò dell'innesco. In base alla ricostruzione, infatti, sembra che l'ordigno avesse un dispositivo di innesco  radiocomandato.

Le conclusioni dei periti ci dicono anche che l'esplosivo era a base di tritolo, presumibilmente di impiego militare,  perché contenente tritolo e nitrato di ammonio, esplosivo polverulento per impieghi militari. Precisano anche che si trattò di almeno un chilo di esplosivo. Ciò consente anche di stabilire la compatibilità con l'esplosivo che il 19 maggio del '74 fece saltare in aria Silvio Ferrai e la sua Vespa e con quello sequestrato nella sua abitazione pochi giorni dopo la strage. Non sono risultati invece compatibili i cinquanta chili di esplosivo sequestrati a Spedini e Borromeo, arrestati proprio da Francesco Delfino, all'epoca capitano dei Carabinieri e oggi imputato per la strage. Spedini e Borromeo si sono sempre dichiarati vittime di una trappola ordita proprio dall'ex-capitano e da Maifredi.

Francesco Delfino é una figura curiosa, emblematica nell'esperienza italiana della strategia nera della tensione. Già al suo arrivo a Brescia nel '71 veniva indicato come uomo dei servizi segreti e il suo nome salta fuori in moltissime vicende ancora non chiarite e fra le altre anche il sequestro Moro, oltre che nel depistaggio appunto alle indagini per la strage di Piazza Loggia. Per la maggior parte dei bresciani, tuttavia, Delfino è l'uomo del sequestro Giuseppe Soffiantini, un imprenditore locale, condannato a tre anni e quattro mesi per truffa aggravata: in sostanza si è messo in tasca 800 milioni di vecchie lire promettendo la liberazione del sequestrato.

Un emblematico personaggio in un'emblematica vicenda, l'ennesima legata alla storia italiana nel periodo più caldo, soprattutto a causa del feeling tra destra nostrana e Cia d'oltreoceano per costruire a tavolino e scientificamente la famosa “strategia della tensione”, che si è poi tradotta nelle varie piste nere delle stragi. Così è anche in questo terzo processo che, udienza dopo udienza, scandaglia ogni dettaglio, ogni particolare, cercando la verità e una risposta definitiva per i familiari delle vittime. Questa come altre stragi impunite vede l'impegno di persone che, al di là delle celebrazioni in punta di cravatta, dedicano tempo ed energie perché non si scriva la parola fine senza colpevoli.

“Se ci sono persone che ancora tacciono la verità sulla strage di piazza Loggia, vuol dire che ci sono cose importanti da sapere, cose che ci riguardano”. Sono parole pronunciate di recente proprio a Brescia all'auditorium San Barnaba, dove il signor Misteri d'Italia, Carlo Lucarelli, ha parlato agli studenti delle scuole cittadine in occasione della Giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Lucarelli ha aggiunto che “queste ricorrenze devono diventare delle occasioni per accendere degli interruttori che devono rimanere aperti tutti l'anno. C'è ancora un processo in corso: incominciate a seguirlo. Si deve combattere l'oblio con l'informazione, con la scuola e l'attività politica”.

Il problema delle commemorazioni, infatti, è il day after e tutti quelli dopo fino alla successiva celebrazione. Le autorità si mettono in fila e le iniziative nobili si sprecano, ma non è sufficiente per arrivare a scrivere la parola fine di vicende come quella della strage in questione. Intanto la memoria storica si scontra con un'informazione sempre più miope e una conoscenza molto limitata nei giovani di queste vicende della storia italiana.

 

 

di Ilvio Pannullo

Inizialmente aveva negato l’esistenza stessa della crisi, scoppiata in seguito al collasso del mercato immobiliare americano e propagatasi nelle Borse valori di tutto il mondo, causa allegro utilizzo di strumenti finanziari incomprensibili agli stessi sedicenti esperti del settore. Successivamente, l’aveva imputata ai media, salvo poi affermare trionfalmente che la crisi era alle spalle e che il sistema Italia aveva dimostrato al mondo intero la propria granitica solidità patrimoniale. Ma ora la musica è cambiata e Berlusconi, mai così alle corde, chiede a Tremonti l’ennesima piroetta, gelando con una doccia di freddo realismo il bonario e credulone popolo italiano.

Una doccia che costerà ai cittadini del bel paese ben 25 miliardi di Euro. La crisi insomma c’era se il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, parlando al forum dell'Ocse ha commentato la necessità della manovra con queste parole: "Siamo a un tornante della Storia, non siamo in una congiuntura economica". "L'intensità dei fenomeni che vediamo - ha aggiunto - è storica e sta modificando la predisposizione dell'esistenza, dell'economia e della politica".

Le parole del ministro - gliene va dato atto - sono oneste e rappresentano una corretta descrizione di quanto sta accadendo oggi in Europa. Non si può, però, non ricordare tutto quanto è stato detto e scritto prima di oggi. Chi aveva occhi per leggere e una mente ancora avida di sapere perché non avvizzita dalla propaganda - totalizzante dunque poco meno che totalitaria - ne era pienamente consapevole già da tempo. Poche sono state le voci che nelle sedi istituzionali hanno osato sfidare il muro di silenzio alzato dal re di Arcore a copertura della verità.

Anti-italiani, disfattisti, catastrofisti; questi gli epiteti usati contro coloro che non si sono piegati alla volontà di omertoso silenzio imposta da Berlusconi all’intero mainstream generalista. Prima si è negata la crisi, poi dall’oggi al domani si è scoperto che era già un triste ricordo e adesso si scopre che sarà necessaria una manovra da 25 miliardi, per evitare che i mercati individuino nel nostro paese il prossimo bersaglio su cui concentrare il fuoco della speculazione.

Si aggiunga a questo che sulla necessità della manovra l’allegro venditore di ottimismo non ha detto una sola parola. Da buon comunicatore sa che il format del doppio petto blu, con sorriso smagliante e battuta felice, non può essere incrinato dall’assunzione di quelle responsabilità che, in qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri, è suo preciso dovere assumersi. Accade così che ad annunciare la manovra sia l’anima nera di tutti i governi Berlusconi: quel Gianni Letta che parla poco, ma che è onnipresente in tutti i salotti che contano e in tutte le celebrazioni di Stato.

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ha confermato ieri che la manovra conterrà “una serie di sacrifici molto pesanti, molto duri che siamo costretti a prendere, spero in maniera provvisoria, con una temporaneità anche già definita, per salvare il nostro Paese dal rischio Grecia.” Letta parla di “una manovra straordinaria che chiamiamo “Provvedimenti urgenti per la stabilità finanziaria e per la competitività economica” che ci è imposta dall'Europa, così come per gli altri Paesi, dalla Spagna al Portogallo, dalla Francia alla Gran Bretagna, alla Germania, che stanno prendendo provvedimenti, nel disperato, ma spero vittorioso tentativo, di scongiurare una crisi epocale e di salvare l'Euro”. Non male per una crisi che, a sentir loro, doveva essere già alle spalle.

Il problema è infatti tutto in quest’ultima precisazione: tutti i paesi europei usano l'Euro come moneta avente valore legale, tutti si confrontano con lo stesso tasso di interesse deciso dalla Banca centrale europea, ma ciascun paese trova credito al prezzo che si merita in base alla propria affidabilità come debitore. Il risultato è una competizione tra gli stessi paesi dell’eurozona per aggiudicarsi la maggiore fetta di credito possibile messa a disposizione dai mercati. Per evitare di dover garantire tassi sul debito troppo elevati per poter essere sostenuti nel lungo periodo, i paesi sono dunque costretti a manovre economiche straordinarie che avvalorino la loro stabilità patrimoniale.

Difatti, l’adozione di un piano europeo - sotto le pressanti istanze della Casa Bianca, per il riassetto del debito pubblico degli stati membri dell’Unione - non solo non costituisce una panacea, un rimedio durevole alla crisi strutturale che affligge ormai tutti gli stati occidentali, ma va nel senso voluto dal mentore statunitense, di una rapida integrazione dell’Unione Europea, preambolo obbligato alla costituzione di un blocco occidentale monolitico. Toccherà vedere come andrà a finire la storia. Sempre riferendosi alla crisi, infatti, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ha dichiarato che "è come essere in un videogioco. Arriva un mostro, lo sconfiggi, e quando stai gioendo per il successo ne arriva subito un altro". La metafora è accattivante e per stare in tema si potrebbe sostenere che il prossimo nemico da affrontare sarà più pericoloso di quello attuale.

Il piano europeo che risponde alla crisi di fiducia, di solvibilità - largamente artificiale all’inizio, ma ormai diventata contagiosa - attraverso la ricapitalizzazione degli Stati, come se si trattasse di una semplice crisi di liquidità, ricorda infatti il disperato tentativo di chi volesse fermare una palla di cannone con un fazzoletto di carta. Il piano europeo da 750 miliardi di Euro ricorda il piano americano voluto dall’allora sottosegretario al tesoro Paulson, ex CEO di Goldaman Sachs (dell’ammontare di 700 miliardi di dollari,) destinato, dopo il fallimento degli istituti finanziari americani del settembre 2008, a rimetterli in sesto attraverso l’utilizzo indiscriminato d’ingenti fondi pubblici.

Una soluzione di cui al momento si vedono gli effetti malefici: la ricapitalizzazione del settore finanziario ha accresciuto pesantemente il debito degli stati al di qua e al di là dell’Atlantico, senza rimettere in moto l’economia. I debiti privati sono diventati pubblici e adesso quegli stessi istituti “troppo grandi per fallire” speculano sulla solvibilità dei debiti pubblici che il loro stesso salvataggio ha pesantemente aggravato.

In questo modo, la crisi finanziaria nata negli Stati Uniti ha innescato la recessione: ha chiuso cioè la valvola al meccanismo economico, e di conseguenza prosciugato le risorse fiscali degli stati, rendendo ancora più difficile la gestione di un debito ormai considerevole. Ora l’Unione Europea sta per aggiungere debito al debito con qualcosa come 750 miliardi euro che graveranno ancor più sui budgets nazionali (il tasso medio d’indebitamento della zona euro ammonta attualmente a 78%, per l’Italia siamo al 118%), questo in vista di un ipotetico “ristabilire la fiducia dei mercati”. 

Senza dubbio una prospettiva non molto incoraggiante. In questa cornice il nostro ministro dell’economia ha affermato che la crisi economica "può essere un'opportunità". La crisi, ha aggiunto, "può avere un impatto negativo o anche positivo" sulle strategie europee e internazionali, secondo come verrà gestita. Quello che tuttavia appare certo è che noi la potevamo gestire sicuramente meglio: prima di tutto affrontandola con serietà sin da subito, e in secondo luogo procedendo ad un serio affondo sull’evasione fiscale, il vero scandalo di questo paese, il vero nodo da sciogliere per scongiurare il rischio Grecia.

Ovviamente quello che si vede nel piano varato dal governo non ha nulla a che vedere con questo. Quello che si trova nella manovra, infatti, sono qualche taglio ai ministri, alle auto blu, una spuntatina demagogica alle indennità dei parlamentari, passando alle finestre per la pensione fino ai pedaggi per i raccordi autostradali. Via inoltre le Province più piccole, cioè quelle sotto i 220.000 abitanti che non confinano con Stati esteri e non ricadono in Regioni a statuto speciale. E spunta un «contributo di soggiorno» fino a 10 euro per i turisti negli alberghi di Roma per finanziare «Roma Capitale».

Insomma si raschia il barile e si colpisce lì dove si è sempre colpito: il “mix” di provvedimenti per correggere i conti appare ormai tracciato. E quello che si vede non lascia ben sperare, specie se confrontato con gli altri piani economici varati da Francia e Germania: piani ben più impegnativi che, accanto ai tagli alla spesa, prevedono, saggiamente, robuste iniezioni di capitali nei settori cruciali per la ripresa.

Ora che finalmente si è deciso di affrontare il problema, quello che si dovrebbe chiedere con forza al governo è una precisa assunzione di responsabilità. I numeri ci sono: quello che pare mancare sono gli uomini adatti e la reale volontà di affrontare gli storici problemi del paese.

di Rosa Ana de Santis

Arriva il Piano Sacconi sull’integrazione degli stranieri nel nostro Paese e sulla regolamentazione dei flussi migratori. Passa in superficie la linea morbida del governo per lasciare spazio ad interpretazioni ambigue, scricchiolanti, se non del tutto contraddittorie. Le proposte sono arrivate al Consiglio dei Ministri la scorsa settimana e dovrebbero trovare, proprio in questi giorni, una versione definitiva e concertata. Il documento sdoganerà la novità del permesso di soggiorno a punti.

Una lotteria per mantenere o perdere il patentino di una cittadinanza speciale che, a quanto pare, fatica a trovare strumenti di riconoscimento che non siano legati a uno status giuridico fondato sulla transitorietà. Viene tracciata una fotografia dei flussi migratori attuali con l’orientamento di distinguere, nell’insieme, le diverse identità del migrante. Chi vuole tornare nella terra d’origine, chi attraversa solo l’Italia come tappa intermedia, chi ci vuole rimanere.

La parola chiave che attraversa il piano di governo è “integrazione”. Un ritornello ripetuto a iosa che collide con lo spirito viscerale di tutto il documento e che, soprattutto, aldilà delle applicazioni concrete di provvedimenti spiccioli e prontuari d’azione, non vede nessuna teorizzazione sulla tesi dell’integrazione come evoluzione del concetto di cittadinanza. E se non la prevede è perché non la riconosce. La modalità principale con cui si deve lavorare all’integrazione è quella dell’alfabetizzazione a tappeto per gli stranieri. Scuole, ma anche sportelli nei luoghi di lavoro e particolari permessi studio per i lavoratori, parrocchie e comunità.

Il Ministero dell’Istruzione è l’interlocutore privilegiato e, strano a credersi, Sacconi non vede nell’ipotesi delle classi ponte un limite a questo battesimo dell’integrazione, ma un aiuto. Il 30% di tetto, la limitazione forzata che per effetto collaterale genererà proprio le classi ghetto che vorrebbe evitare, viene raccontata come una tutela per i piccoli studenti che non parlano italiano e non come il primo segnale evidente dell’intolleranza.

Basterebbe farsi un giro davanti alle scuole, ad esempio quelle del nord dove la Gelmini si è tutt’altro che opposta alla richiesta leghista dell’insegnamento degli idiomi dialettali. Sull’alfabetizzazione i due Ministri dovranno intendersi meglio. Così come Sacconi deve essersi distratto quando si rimettevano i crocefissi sulle cattedre a sfregio delle indicazioni europee. Come si coniuga la rivendicazione pubblica di una scelta personale e privata come la fede religiosa con il rispetto delle fedi altrui? Un mistero che il piano del Ministro rimuove.

Il piano Sacconi prevede per il futuro di poter reclutare i lavoratori dai paesi d’origine secondo specifiche competenze professionali o attività ispettive e di formazione ad hoc, senza arrivare all’emergenza prodotta dai flussi migratori esterni. Niente più gommoni, né scafisti, niente esodi della speranza. Una scena ideale in cui l’eccesso di idealismo non svela ingenuità politica; piuttosto un pervicace disconoscimento delle dinamiche reali che alimentano queste odissee, per le quali il tempo della prudenza, ammesso che sia così semplice,  è già passato e lascia del tutto disatteso il problema - questo davvero esplosivo - dei clandestini e dei rimpatri scenografici, ma inefficaci.

E come gestire l’emergenza? Il motto del Ministro diventa “integrazione nella sicurezza”. Controlli sugli adempimenti contrattuali da parte dei datori di lavoro e alloggi a rotazione temporanei. Tutti servizi cui i lavoratori stranieri devono accedere grazie a figure di mediazione e di supporto. Per i minori l’obiettivo è disincentivare l’abbandono scolastico e le partenze illegali. L’eldorado dell’integrazione si conclude degnamente, con l’annuncio di un portale in cui siano evidenziate le buone pratiche e uno sportello online per accogliere tutte le domande degli immigrati. Il prodotto davvero originale, ancora suscettibile di modifiche, cui hanno lavorato d’intesa Ministero dell’Interno, Lavoro e Istruzione è quello del permesso di soggiorno a punti. Se sarà un inutile artificio come quello della patente è presto per dirlo.

L’immigrato tra i 16 e i 65 anni con contratto di lavoro parte da sedici punti (secondo la linea Letta) al momento della stipula. Lo straniero ha una serie di prove da superare che vanno dalla conoscenza della lingua italiana, alla Costituzione, ai valori condivisi della società civile, all’obbligo di istruzione per i figli minori e al giuramento solenne alla Carta Condivisa della Cittadinanza, allo svolgimento di un’attività di volontariato. L’accordo dura due anni, alla scadenza dei quali bisogna arrivare a 30 crediti.

Non basta lavorare e pagare le tasse, bisogna dimostrare di aver assorbito alcuni valori della cultura italiana. Per osmosi e in modo integrale. Come si valuterà quella donna che continuerà ad indossare il chador per esempio? Sono esentati i disabili e in buona parte i minori, per tutti gli altri rimane l’incubo delle decurtazioni dovute a condanne, a sanzioni pecuniarie o a insindacabili giudizi di merito dell’esaminatore di turno. I bocciati tornano a casa, quelli che hanno raggiunto 30 crediti rimangono con riserva e i punti in esubero per gli stranieri modelli danno diritto a partecipare ad attività culturali. Una caritatevole concessione.

Gli stranieri regolari, in sintesi, dovranno essere persone e cittadini eccellenti, secondo giudizi che saranno formulati da appositi organi competenti. Per loro non basterà il rispetto delle regole; la loro cittadinanza è una questione di valore e di merito, non di legge. Ed è soprattutto un privilegio concesso, non un diritto acquisito. Degna e beffarda conclusione di questa grande strategia d’integrazione è chiedere agli stranieri la conoscenza della carta costituzionale. La stessa, per capirci, che i nostri parlamentari davanti alle telecamere di qualche tg satirico, dimostrano di conoscere miseramente poco. Una contraddizione che tradisce l’unica idea che sottende il permesso di soggiorno a punti. L’italianità del sangue è l’amplein irraggiungibile di questa graduatoria di anime.

 


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