di Mariavittoria Orsolato

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano c’è e, forse, lotta insieme a noi. Non è quell’ectoplasma descritto da Travaglio, né quel narcolettico demonizzato da Beppe Grillo: quando vuole, Napolitano c’è e fa sentire la sua presenza e soprattutto il peso della sua carica. Certo, che lo faccia con i suoi tempi e modi é un altro paio di maniche, ma la notizia del rinvio alle Camere del testo che sarebbe andato a modificare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori - quello che prevede la possibilità per un lavoratore di ricorrere ai giudici del lavoro nel caso in cui il licenziamento fosse stato applicato senza giusta causa - è sinceramente rincuorante per tutti coloro che ormai non speravano più nella salvaguardia dei diritti costituzionali.

Ricorrendo all’articolo 74 della Costituzione, Napolitano si è infatti rifiutato di firmare la nuova legge sulla riforma del lavoro e, come spiegato da una nota del Quirinale, il Presidente “è stato indotto a tale decisione dalla estrema eterogeneità della legge e in particolare dalla complessità e problematicità di alcune disposizioni che disciplinano temi, attinenti alla tutela del lavoro, di indubbia delicatezza sul piano sociale”. Nella lettera che accompagnava il rinvio alle Camere c’era poi indicata nello specfico la norma che il Presidente gradirebbe modificata, se non addirittura espunta: è il famoso articolo 31, che prevede la risoluzione della controversia tra lavoratore e datore di lavoro non solo tramite la giustizia ordinaria ma anche tramite l’arbitrato.

Secondo tale articolo, il reintegro sul posto di lavoro previsto dall’articolo 18 dello Statuto non sarebbe più stato un diritto ma solo una possibilità: il ricorso ad una figura extragiudiziale come quella dell’arbitro (privato cittadino chiamato a giudicare in base al principio di equità e quindi in deroga a quello legislativo) va infatti a cozzare contro gli articoli 4 e 35 della Costituzione che mirano a stabilire un equilibrio tra le parti in causa, tutelando la naturale inferiorità contrattuale di un lavoro subordinato. Un arbitro può infatti decidere di non riassumere il lavoratore ma semplicemente di risarcirlo con una cifra forfettaria e di multare di conseguenza l’azienda, se a ciò si aggiunge il fatto che l’arbitrato è introdotto tramite clausola compromissoria all’interno del contratto di assunzione, ben si comprenderanno i dubbi di Napolitano.

Secondo il Colle, la legge avrebbe infatti i crismi della costituzionalità solo nel caso in cui l’arbitrato fosse deciso da entrambe le parti in causa ma dato che l’articolo 31 prevede l’implicita accettazione di questa possibilitò al momento dell’assunzione - notoriamente una condizione di debolezza contrattuale per il lavoratore - la nuova legge, così com’è, non può e non deve passare. Sempre nella nota inviata alle Camere si legge che il Presidente “ha perciò ritenuto opportuno un ulteriore approfondimento da parte delle Camere, affinché gli apprezzabili intenti riformatori che traspaiono dal provvedimento possano realizzarsi nel quadro di precise garanzie e di un più chiaro e definito equilibrio tra legislazione, contrattazione collettiva e contratto individuale”.

Quello di Napolitano è, in effetti, il primo rinvio del suo settennato, ed è un rinvio anomalo se si pensa al fatto che anche una porcata come il Lodo Alfano è stata sottoscritta senza troppi fronzoli. Le motivazioni addotte dalla prima carica dello Stato suonano infatti nuove e si tingono inevitabilmente di quel colore politico che la sua presidenza aveva cercato di esorcizzare in tutti modi. Puntare il dito sulle ripercussioni sociali che una tale norma potrebbe scatenare, oltre a rispolverare i fasti ideologici di quel Pci che gli ha dato i natali, significa opporsi apertamente al Governo e al suo modo di riformare lo Stato; un modo che evidentemente, secondo Napolitano, non tiene in debito conto delle conseguenze dei suoi atti.

Certo però, questa non è e non sarà la prima battaglia di una possibile guerra tra Palazzo Chigi e il Quirinale: la prossima settimana Napolitano sarà chiamato a decidere sul legittimo impedimento. Appare difficile che dia picche a Berlusconi per due volte di seguito.

 

 

di Mariavittoria Orsolato

Sarà pur stata messa in commercio il primo aprile, ma la RU486 non è uno scherzo, così come non lo è il motivo per cui la si somministra. A non averlo capito è la Lega Nord, che dopo l’ubriacatura delle Regionali inizia a fare la voce grossa sui temi cari a quell’elettorato cattolico, da molti dato per disperso. I minacciosi veti, che mercoledì e giovedì sono stati scagliati contro la pillola abortiva dai neogovernatori Roberto Cota e Luca Zaia, hanno fatto dimenticare a porporati e simpatizzanti i matrimoni celtici e i riti di purificazione con le acque del Po, ed hanno finalmente rivelato quello che da mesi i fautori della Padania stanno intavolando con il Vaticano.

Il plauso di monsignor Rino Fisichella, presidente della Ponteficia Accademia per la vita, espresso poche ore dopo la vittoria del Carroccio in Piemonte e Veneto, in nome di “una piena condivisione con il pensiero della Chiesa”, ha infatti il valore di un “via libera” all’assalto del bacino d’influenza di San Pietro. Dopo la defezione di Fini, ormai stabile su posizioni ben più laiche della sinistra, nel novero dei graditi alla Curia si è liberato un posto che Berlusconi - causa scandali di vario genere e natura - non può rivendicare solo per sé.

Proprio in questo vuoto si vuole piazzare Bossi, probabilmente conscio che il solo voto territoriale non può dare quel potere contrattuale necessario alle sue strampalate rivendicazioni, prima fra tutte quella che da anni vede la Lega impegnarsi in crociate anti-islamiche. Un appoggio della Chiesa in tal senso, significherebbe un ulteriore sdoganamento di quella filosofia razzista e decisamente medievale secondo cui gli “infedeli” vanno allontanati e repressi, ed in secondo luogo legittimerebbe la lotta senza esclusione di colpi a quell’immigrazione clandestina che i leghisti, nella loro sconfinata grettezza, associano alla pelle scura e al Corano.

Alla Chiesa poco importa che uno dei suoi propri pilastri fondanti sia l’ecumenicità, quella che la nuova Lega di Zaia e Cota sta offrendo è un’iniezione di popolarità cui, dopo le coperture e i silenzi sui preti pedofili, non è minimamente pensabile rinunciare. Tra una Miss Padania e un tricolore bruciato, nel Carroccio torna in auge la Vandea, quella della Lega della prima ora, al tempo interpretata dalla Pivetti, prima che si desse al lattex.

Insomma questo inedito connubio è il più classico dei matrimoni d’interesse: al Carroccio l’appoggio dei vescovi e dei cardinali serve a ricordare al Pdl quanto la sua posizione sia precaria rispetto a quella “Italia che produce”, al Vaticano la Lega è cara nella misura in cui è l’unica a sbilanciarsi sui quei temi etici ( aborto in primis) che la destra di ala berlusconiana ha abbandonato per concentrasi contro toghe rosse e giornalisti poco reticenti.

Fortunatamente, per ora la legge batte l’elucubrazione politico-ideologica e dall’Ordine dei Medici arriva l’ennesima conferma della bontà della Ru486: la pillola abortiva è compatibile con la legge 194 e “chi dice di non volere la Ru486, al di là delle legittime preoccupazioni etiche e morali, mette in discussione la stessa 194” ha detto il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), Amedeo Bianco. Ed anche dalle fila del Governo s’ode una voce fuori dal coro.

La Ministra per le Pari Opportunità, Stefania Prestigiacomo, ha infatti dichiarato in un’intervista a La Repubblica le posizioni di Zaia e Cota sono state assunte “ancora sull'onda dell'euforia legittima per il risultato elettorale” e che “da donna e da madre, davanti a una figlia maggiorenne che volesse decidere per un'interruzione di gravidanza, credo che sarebbe ingiusto impedirle l'accesso ad un intervento non cruento - naturalmente in regime ospedaliero e sotto stretto controllo medico - come quello garantito dalla Ru486”. La Prestigiacomo non è però la sola a far muro contro le velleità dei due neogovernatori leghisti, anche il Ministro della Salute, Ferruccio Fazio, si fa scudo della legge 194 e invita i due a leggersi la legge, ricordando che le leggi vanno sempre rispettate.

Se per ora Cota sembra aver fatto un passo indietro dichiarando di non essere mai stato in contrasto con la legge, Zaia - sicuramente sostenuto dal congenito bigottismo dei suoi elettori - afferma di contro: “Ribadisco che la mia coscienza è informata e ordinata nel pensiero della Chiesa”. A dar man forte alla causa i pensa poi quel Casini che dovrebbe stare all’opposizione ma che spesso e volentieri combatte (si fa per dire..) dalla parte opposta: in un’intervista del Tg1 ha auspicato una modifica della 194 in ragione del peso politico della Lega all’interno della coalizione di Governo. Per la modifica della legge sul divorzio, invece, dovremo attendere la terza moglie.

 

di Giovanni Gnazzi

Ha vinto Berlusconi. Ha chiesto un referendum su di lui e ha vinto, strappando quattro regioni al centrosinistra. Non quattro regioni qualsiasi, ma il Lazio, il Piemonte, la Campania e la Calabria. Esiti diversi tra loro, perché se per quanto riguarda la Campania o la Calabria, la sconfitta del centrosinistra era nell’aria, visto l’orrendo spettacolo offerto negli ultimi anni, quella del Piemonte e, in qualche misura, del Lazio, non sono certo state sconfitte risultato di malgoverno, cosa del resto riscontrabile anche nelle proporzioni del voto. Meglio quindi non perdersi in oziosi origami sulle cause locali dell’affermazione della destra, perché il voto è stato un voto politico, non amministrativo.

La campagna elettorale ha riproposto, senza soluzione di continuità, una realtà che da quindici anni appare irremovibile: quale che sia la scadenza, quale che sia la posta in gioco, la campagna elettorale della destra è di Berlusconi. Nessuno può onestamente dire che siano i candidati locali a sfidarsi: chiunque sia il candidato del centrosinistra, l’avversario è il presidente del Consiglio con il suo strapotere mediatico che, per risultare ulteriormente più efficace, si giova delle norme che vietano il dibattito elettorale sul tubo catodico. Perché queste norme? Perché la par condicio ridurrebbe profondamente il vergognoso squilibrio dell’informazione pubblica e privata a favore del Premier. Nessun dibattito va mandato in onda proprio per permettere a lui stesso di essere l’unico a poter parlare, in ogni canale e a qualunque ora.

Ogni campagna elettorale è falsata: completamente diverso il peso della comunicazione tra le forze in campo. Anche per questo, prima che per l’innato cesarismo, Berlusconi si agita per chiudere la bocca alle trasmissioni sgradite. Lui, più di chiunque altro, sa quanto può influire un parziale ripristino delle condizioni minime di equilibrio nella comunicazione, e cerca di evitarlo ad ogni costo.

E’ quindi relativo discettare su questioni locali perdendo di vista la centralità di questo elemento. Ignorare questa vergognosa sproporzione nell’accesso all’informazione, alla quale si aggiunge l’evidente differenza d’investimenti economici per le campagne elettorali tra destra e centro-sinistra, significa girare a vuoto, cercare con la lente in un angolo quello che è visibile a occhio nudo davanti alla finestra.

Ma, pure fatte queste considerazioni, non è possibile negare l’altro dato - non meno determinante - di queste elezioni. Il berlusconismo non è alle corde. Il blocco sociale della destra continua ad essere maggioritario e s’identifica - pure con sfumature diverse - con l’impianto culturale, prima ancora che politico, della destra. E’ un blocco sociale ideologico e identitario, che sceglie sulla base dell’appartenenza e della difesa degli interessi che la coalizione berlusconiana garantisce. Ha nel darwinismo sociale e nella guerra alla cultura i suoi segni identitari più precisi. Sa benissimo quali politiche padronali propone e quanto odio di classe dimostra, così come conosce la fumosità delle promesse e l’incapacità cronica di governare.

Ma è proprio l’incapacità di governare che viene premiata da un elettorato che vede le regole come un freno, l’equilibrio istituzionale come debolezza, la competenza come una minaccia alle leggi del “fai da te”. Non ha nessuna tensione di tipo morale, né vede nel rispetto delle regole e del confronto politico un elemento distintivo della qualità del progetto politico. Anzi, come una tifoseria di ultras, gode proprio nel vedere la sua squadra vincere, anche contro il regolamento se serve. In questo senso, risulta davvero ingenua l’idea di metterla in crisi a partire dall’evidenziazione della incompatibilità democratica del premier.

E’ il blocco sociale della sinistra che non c’è; o, quantomeno, non è rappresentato. La campagna elettorale su cui si fomenta il centrosinistra è ormai sempre la stessa: intercettazioni, avvisi di garanzia, scandali di varia natura, appelli d’ipotetici intellettuali e via dicendo. Mancava solo il film di Moretti, stavolta, per completare il quadro. Tutto destinato a evidenziare la scorrettezza e l’illegittimità, prima che l’illegalità, dei comportamenti di Berlusconi. Giusto, ma da solo non paga. Non è questo che vogliono gli italiani: che Berlusconi é quello che è, lo sanno tutti, chi lo vota e chi non lo vota; che l’emergenza democratica sia ormai alle porte lo avvertono tutti, i suoi amici e i suoi oppositori.

E’ il percorso identitario della sinistra che non si vede, come non si vede il suo progetto politico, il suo programma elettorale. Non si capisce quale sia lo schieramento, ridotto a un dato variabile secondo i casi e le tornate elettorali. Passare con disinvoltura da Casini alla Bonino significa proporre la battaglia delle idee come una mascherata dell’opportunismo; continuare a tenere in vita il PD, che non riesce a vincere nemmeno un’elezione, quale che sia, significa perseverare in un errore politico di tipo strategico e tattico.

Serve, urgentemente, lo scioglimento del PD, la sua ridefinizione in due blocchi - uno socialdemocratico, dove far confluire tutta la sinistra, e uno di orientamento cattolico-popolare - destinati a due target elettorali diversi nella raccolta dei voti e ad un’alleanza politica per il governo del Paese.

Non è un caso che l’unica vittoria politica significativa sia stata in Puglia, dove Niki Vendola rappresenta la storia della sinistra che non si camuffa da liberale. Si dichiara comunista e omosessuale e propone un’idea di coalizione ed un programma elettorale che è tutto interno alle corde culturali della sinistra, non a quelle dei democristiani. Vendola propone, prima ancora che una giunta ed un programma, l’idea dell’unità a sinistra, guidata dalla sinistra e che parla al popolo della sinistra. Tutto quello che, infatti, vince da sempre nelle regioni “rosse”.

L’affermazione della Lega non sarà indolore per la fisionomia del PDL. Per la riforma di tipo presidenzialista che ha in mente (che in realtà è solo il tentativo di arrivare al Quirinale) Berlusconi avrà un disperato bisogno di Bossi; questi, è ovvio, chiederà in cambio, nello stesso progetto, il riassetto dell’Italia con la divisione in tre della nazione. Il cavaliere accetterà, non può rischiare i suoi affari. Quindi Fini, che pure non vuole siffatto progetto, avrà due sole strade: uscire con la minoranza dei suoi (la maggioranza ormai sta con Berlusconi) e cercare con Casini la costruzione della nuova destra moderata, o accettare il nuovo assetto padano del partito del predellino. Vedremo già dalla formazione della giunta Polverini i primi segnali. Il voto di Roma città è suonato come una campana a morto per Alemanno (che con Berlusconi ha un patto di ferro) e la Polverini, invece, sta con Fini. Vedremo se saranno le prove generali dell’addio o del mesto ritorno a Corte.

di Mariavittoria Orsolato

Dal palco di piazza San Giovanni, quello del milione presunto, il premier Berlusconi ha fatto un elenco delle innumerevoli migliorie che lui e il suo governo hanno apportato al nostro ingrato stivale. Tra le tante, è stata citata la “epocale riforma del sistema scolastico e universitario” a firma di Maria Stella Gelmini: il disegno di legge è però ancora al vaglio delle Camere, dove tutti gli schieramenti stanno facendo a gara per introdurre emendamenti (ben 800), ma i risultati di questo alacre legiferare paiono peggiorativi in modo stranamente bipartisan.

A segnalare le preoccupanti evoluzioni di quella che è a tutti gli effetti una controriforma sulla pelle degli atenei, ci pensa l’ANDU (Associazione Nazionale Docenti Universitari) che sul suo sito fa una puntuale disamina delle nuove disposizioni, preconizzando quelli che saranno i risvolti di questa non inedita alleanza tra lobbismo universitario, politica e Confindustria.

Il primo punto affrontato dall’ANDU riguarda l’ANVUR, l’agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca, vera e propria Authority degli atenei i cui poteri sono stati ampliati dall'emendamento del relatore, il senatore Giuseppe Valditara in quota PDL, posto all'articolo 5-bis comma 4. Nel testo si legge: “Nel caso in cui la valutazione effettuata dall’ANVUR ai sensi del comma 3 sia negativa, i professori e i ricercatori sono esclusi dalle commissioni di abilitazione, selezione e promozione del personale accademico, di esame di Stato, nonché dagli organi di valutazione dei progetti di ricerca.” Con ciò s’intende affermare che l'ANVUR avrà il compito di vagliare, caso per caso, ogni professore, ricercatore o assistente iscritto nel libro paga dell'ateneo di competenza e valutarlo in base a quelli standard europei tanto cari al ministro dalla penna rossa.

Certo, l'idea di un organo indipendente che vigili sull'operato di quelli che dovrebbero essere i mentori dei nostri figli è più che allettante, ma visti i precedenti nazionali in materia di Authority, il rischio più grosso è che le valutazioni non vengano fatte sul merito effettivo ma in base all'appartenenza partitica o ideologica. Se a ciò si aggiunge che il primo e importante compito dell'ANVUR è l'assegnazione dei fondi statali, pare lecito, oltre che saggio, metterne in dubbio l'imparzialità.

La critica più forte dell'ANDU è però rivolta al manifesto progetto di trasformare gli atenei in governance sulla falsariga delle ASL territoriali, in cui Rettore e Consiglio di Amministrazione hanno l'ultima parola su ogni delibera riguardante sia l'attività didattica sia il reclutamento e il successivo monitoraggio disciplinare di docenti e ricercatori. Nel dettaglio l'articolo 2 comma 2f prevede che il CdA sia preposto a “funzioni di indirizzo strategico, di approvazione della programmazione finanziaria annuale e triennale e del personale”, “della competenza a deliberare l’attivazione o soppressione di corsi e sedi”, “della competenza ad approvare la proposta di chiamata da parte del dipartimento”, oltre che la “competenza disciplinare relativamente ai professori e ricercatori, ai sensi dell’articolo 5-septies”. In questo modo Rettor e e CdA assumono poteri e giurisdizioni prima impensabili in un sistema di istruzione pubblica, con il conseguente svuotamento pratico e deliberativo di organi indispensabili alla rappresentanza - sia del corpo docenti che di quello studenti - come il Senato Accademico e il Consiglio di Dipartimento e dei Corsi di Studio.

Ma dato che al peggio non c’è mai fine, gli emendamenti proposti da maggioranza e opposizione vanno a toccare soprattutto il capitale umano degli atenei, dove capitale umano sta per docenti di terza fascia, ricercatori e assistenti precari. In base alle nuove disposizioni, infatti, i concorsi saranno bloccati, ci sarà una drastica riduzione dei docenti di ruolo e soprattutto la liquidazione della maggior parte dei precari ad oggi operanti nei settori della ricerca e della didattica. A questi ultimi poi, oltre a non venir nemmeno riconosciuto il merito di portare avanti - in molti casi gratuitamente - il lavoro che i docenti sarebbero tenuti per contratto a svolgere, vengono aumentate le ore di effettivo servizio: se prima infatti le ore non dovevano superare le 350, con l’emendamento all’articolo 5-bis comma 1 e i soliti giochi di parole tanto cari alla nostra maggioranza, le ore rimangono 350 ma invece che essere un limite sono una base, dato che il  testo furbescamente gli antepone un “almeno”.

Se, infine, uno degli obiettivi primari dell'epocale riforma era quello di mettere un freno definitivo alla dilagante pratica del nepotismo e del baronato negli atenei, con gli emendamenti agli articoli 8 e 9 si sconfessa di fatto questo nobile proprosito: i concorsi rimarranno infatti su base locale e l'unico requisito necessario alla candidatura sarà l'abilitazione nazionale all'insegnamento. Alla faccia della tolleranza zero.

Per ora tutte queste novità rimangono sulla carta, in attesa di essere approvate dalle Camere in un iter che avrebbe già dovuto essere iniziato ma che per l'enorme mole di emendamenti non sarà discusso fino al 13 aprile. Il ministro è fiducioso sul fatto che la sua creatura venga approvata entro l'estate, nel frattempo attendiamo che l'Onda - il movimento nato spontaneamente dagli studenti di tutti gli atenei italiani nell'ottobre di due anni fa - si faccia sentire ancora e con più voce.

di mazzetta

Le elezioni regionali in corso si sono trasformate nell'ennesimo plebiscito pro o contro Silvio Berlusconi e, questa volta, è indubbiamente per volontà dello stesso Berlusconi. Travolto dagli scandali con l'emersione delle sue allegre serate con prostitute, del suo accompagnarsi a minorenni, lasciato dalla moglie, tradito da parte del suo stesso partito, Berlusconi ha deciso di giocare il tutto per tutto. Ha costretto i suoi sgherri a chiudere la finestra televisiva alle opposizioni, ma non gli è bastato occupare la televisione a ogni ora del giorno e della notte, i sondaggi sono rimasti deludenti.

Ancora più deludente la figuraccia rimediata con la presentazione delle liste per la Provincia di Roma, amplificata da un decreto legge inapplicabile e infine dalla decisione di negare la verità addossando la colpa ai magistrati e i radicali. Una buffonata che ha costretto a una rapida inversione di marcia molti dei suoi sostenitori, che avevano coperto di contumelie il povero Milioni, quello che tirato di qua e di là per cambiare le liste fino all'ultimo, era rimasto fuori e si era dovuto inventare la pietosa scusa del panino. Contrordine camerati, è colpa dei “rossi”. E tutti si sono allineati.

Un disastro anche la manifestazione “oceanica” voluta dal premier, appena qualche decina di migliaia di persone “cammellate” pagando loro i trasporti e anche il pranzo al sacco e poi trasformati in “un milione” da quel Verdini già coinvolto nel sistema delle tangenti che gravita attorno alla Protezione Civile.

Male anche il tentato soccorso della chiesa, che con Bagnasco ha invitato gli elettori a votare i partiti che si oppongono all'aborto. Una scelta pessima, sia perché non si ricordavano da tempo ingerenze vaticane tanto maldestre, sia per il fatto indubitabile che le regioni non hanno alcuna competenza sull'aborto. Per non dire che il pulpito Vaticano non è esattamente quotatissimo e che ha fatto un po' senso questo schierarsi “per la vita” da parte di una gerarchia che sta facendo l'impossibile per negare le evidenti responsabilità nel proteggere i pedofili in tonaca che negli anni hanno stuprato decine di migliaia (almeno) di bambini in giro per il mondo. Ma la Chiesa dopo il caso Boffo ha ottenuto tanto, anche di più dei disoccupati o delle aziende in crisi, per le quali ci sono state solo buone parole, qualcosa doveva pur provare per ringraziare il generoso Silvio

Un disastro e Silvio lo sa, sa che il problema è portare a votare i suoi, ai quali le storie con le prostitute e le minorenni piacciono davvero poco, per non parlare della crisi in Lombardia, dove la corruzione sembra endemica e dove Formigoni ha dato la sua solidarietà ai colleghi tangentari; ma non al povero Pennisi: come mai? Un disastro su tutti i fronti, che difficilmente potrà essere compensato dall'occupazione delle televisioni. Per questo Berlusconi ha già messo le mani avanti e per questo i suoi alleati fremono, sperando di raccogliere i voti dei delusi di destra e che questi elettori non puniscano la coalizione astenendosi.

In tutto questo delirio non si è parlato ovviamente dei temi propri delle elezioni regionali; è difficile sapere e capire cosa propongano destra e sinistra agli elettori ed è difficile capire il senso e l'utilità dell'andare al voto. Un senso queste elezioni però ce l'hanno, ed è quello che gli ha voluto dare Berlusconi, cioè quello di un plebiscito sulla sua persona; una tristezza, ma tant'è. Basta saperlo ed adeguarsi, cercando di dare il colpo di grazia al premier inutile e ormai impazzito come la maionese, che si è addirittura messo a promettere che sconfiggerà il cancro in tre anni.

A sinistra andando a votare e a destra astenendosi, gli italiani che conservano ancora un residuo di dignità e di cultura democratica hanno la possibilità di punire il puttaniere imbizzarrito e di ridurlo, forse, a più miti consigli, indicando anche ai suoi l'unica soluzione utile per il bene del paese: l’uscita di scena di Silvio Berlusconi.

 

 


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