di Rosa Ana De Santis

La piazza del milione taroccato ha nascosto il corteo che sabato scorso in quelle stesse ore sfilava per difendere l’oro blu. In testa il profetico Padre Zanotelli, le numerose associazioni impegnate, fedeli di chiese cristiane e cittadini comuni. La Giornata mondiale dell’acqua rende ancora più gravi le scelte del nostro governo. Anche su questo la maggioranza ha deciso di andare avanti a colpi di fiducia, togliendo a una questione politica di così grande rilievo ogni dignità e ogni possibilità di approfondimento.

Il Parlamento messo all’angolo non può ragionare - se non a vuoto - su cosa questo comporterà nelle regioni in cui c’è un problema forte di accesso all’acqua, delle conseguenze nefaste per l’agricoltura, dell’iniquità fuori controllo dei canoni e delle tariffe regionali e, soprattutto, dell’immoralità su cui poggia la speculazione del profitto sulla risorsa primaria della vita. E’ ancora una volta l’Italia dei Valori ad alzare i toni e a reagire scomposta all’ennesima immoralità del governo.

Lo scenario internazionale spinge alla ricerca di nuove soluzioni. La scarsità di acqua è - e sarà sempre di più - il motore di nuovi conflitti. La scelta dell’Italia arriva inoltre in controtendenza con quella di molti altri Paesi Europei. La Francia, ad esempio, ha già deciso di tornare indietro sulla questione dell’acqua, riconoscendo il fallimento anche economico della scelta della privatizzazione. Prezzi da capogiro e cattive gestioni, che miglioravano solo in prossimità del rinnovo, hanno costretto molti comuni francesi a ritornare alla proprietà pubblica. La qualità certificata della risorsa idrica pubblica, grazie alla buona pubblicità, non è presa in considerazione, né considerata attendibile e l’Italia è arrivata così ad essere il terzo paese al mondo per consumo di acqua in bottiglia. Un prodotto tra tanti altri sul bancone del supermercato.

Il far west dei canoni sulle minerali - ad esempio - basta a preparaci al peggio su quello che potrà accadere quando nelle nostre case entreranno le Spa dell’acqua senza passare per le bottiglie di plastica. A parte il Veneto e il Lazio, infatti, Legambiente e Altreconomia denunciano tutte le altre Regioni italiane come inadempienti rispetto ai canoni previsti dalle linee guida nazionali. Una giungla normativa di cui le Istituzioni centrali sembrano curarsi davvero poco.

Segnala Bruxelles inoltre che i numeri dell’Italia sull’erogazione dell’acqua sono tutt’altro che positivi. Il sistema idrico ha gravissime falle, disperde enormi quantità d’acqua e il nostro Sud è sempre più assetato. L'Istituto nazionale di economia agraria - Inea - (controllato dal Ministero delle Politiche Agricole), studi alla mano parla di ammodernamento delle reti idriche e di educazione al risparmio come misure anti-siccità. Ma qualcuno, in quale altro angolo del Palazzo, ha altri piani.

Molte regioni dell’Europa del Sud ricorrono sempre di più a desalinizzare l’acqua del mare, denunciando una situazione climatica sempre più difficile da sostenere e un bisogno crescente. Un buon motivo per fare affari a quanto pare.

La Giornata mondiale dell’acqua ci consegna numeri neri. Un miliardo di persone oggi sul pianeta ha difficoltà nell’accesso all’acqua e, entro il 2030, una persona su tre vivrà in zone in cui scarseggerà. Ogni giorno 4.900 bambini muoiono per tutte le malattie connesse all’assenza di acqua potabile. Moltissimi Paesi, ad esempio il Kenya, hanno la mancanza di acqua in cima alla lista dei loro problemi; il business di chi potrebbe aiutarli, forse come ha fatto finora la Nestlè con il latte in polvere per tantissime donne africane mandate a morire di dissinteria, è facile immaginare. Un mercato diabolico che arriva a mettere i tentacoli sulla fonte della vita.

Sorella Acqua, umile e preziosa, come la celebrava Francesco d’Assisi, sembra non risvegliare nulla di quella mistica reverenza che ostenta vistosa il Presidente del Consiglio nel ringraziare il Papa per le parole dure - e in ritardo di anni -  contro i pedofili, ricambiando la cortesia con la radiazione di Busi. Un mercato della fede che fa audience e che dà la nausea. Mentre gli assetati sono già succulenti numeri a tanti zeri, al santo Padre rimane giusto il tempo di una preghiera.


 

di Mariavittoria Orsolato

Le proteste, i ricorsi e le sentenze non sono serviti a nulla: il consiglio d'amministrazione della Rai non sblocca i programmi di approfondimento politico e, sebbene il direttore generale Mauro Masi -  impegnato con devozione  ad “aggiustare” gli innumerevoli problemi della tv pubblica - abbia invitato la commissione di vigilanza a sondare eventuali strade alternative, pare ormai chiaro che fino al 30 marzo non potremo più assistere a programmi come Annozero, Ballarò e, si, anche Porta a porta.

Il continuo rimpallo di colpe, responsabilità e giurisdizione, oltre a dare l’ennesima prova (se mai ce ne fosse ancora bisogno) di come a viale Mazzini l’abbonato non conti un bel niente, ha finito col privare gli elettori di quella finestra sull’Italia apparentemente in grado di mostrare una realtà diversa da quella confezionata dai proclami elettorali. Per sopperire a questa mancanza, il regolamento sulla par condicio affida l’informazione alle tribune elettorali - di per sé inguardabili - e ai telegiornali, da sempre considerati il medium più efficace e diretto per arrivare in modo incisivo nelle case degli italiani. Tutto questo avrebbe un senso se i diretti interessati, ovvero gli spettatori, considerassero autorevoli i mezzobusti che a pranzo e a cena li ragguagliano sul quotidiano: pare infatti che l’opinione che i cittadini hanno dei tg non sia delle migliori, anzi.

Secondo l’indagine condotta dalla società indipendente di ricerche, Simulation Intelligence, la stragrande maggioranza degli italiani considera i telegiornali alla stregua di organi di partito e non riesce a fidarsi del taglio dato alle notizie, troppo parziali per poter rendere appieno la verità. Si scopre così che notiziari intoccabili sotto il punto di vista dello share, come Tg1 e Tg5, sono ritenuti obiettivi da meno di un italiano su quattro e non va meglio agli altri, attestati tutti (con l’eccezione del 21% concesso al Tg3) su percentuali inferiori al 20%. Nel dettaglio possiamo vedere come Sky Tg24 riscuota solo il 19%, il Tg2 arrivi a malapena la 18% e il TgLa7 si piazzi male con il 15%, non ci sono sorprese invece per i due fanalini di coda, Studio Aperto e Tg4, attestati rispettivamente al 14% e al 13% della credibilità.

La spietatezza dei telespettatori non si esaurisce però solo nel giudizio di merito: secondo il campione intervistato dai sondaggisti, il 58% ritiene i telegiornali per nulla interessanti, il 79% non li reputa accurati e completi e, come sopraccitato, l’82 per cento non li considera imparziali e obiettivi. Quella che si profila agli occhi del giornalismo televisivo è quindi praticamente un ecatombe professionale e, dati i risultati del sondaggio, pare che agli elettori non mancheranno poi così tanto i volti di Santoro, Floris e Bruno Vespa.

Il monito all’informazione è chiaro ed evidente, ma forse la colpa non è proprio tutta dei giornalisti: nel regno catodico e politico del Caimano, i tentativi di obiettività si sono tramutati per proclama in attacchi ad personam, in iettature da sibille dark e in faziosi contro-altari, atti solo a dimostrare come il re e la sua corte siano nudi. L’esempio più lampante è proprio quel Marco Travaglio che, seppur esecrabile nei suoi modi altezzosi, è sempre stato tacciato di comunismo pur essendo dichiaratamente un uomo di destra. Non che qui si voglia fare l’apologia del buon giornalismo, ma è evidente che la percezione delle notizie ha subìto in questi 15 anni una forte distorsione, un’alterazione che tinge necessariamente di rosso o nero la fattualità di una notizia e che spinge i telespettatori ad orientarsi solo in base all’appartenenza partitica di questa o quella testata.

Certo, “colleghi” come Fede o Minzolini, con il loro lampante servilismo, non aiutano la causa e se teniamo conto che ben il 92,8% dell’approvvigionamento informativo ha sede nel tubo catodico, non possiamo biasimare gli italiani in merito al loro giudizio sulle news televisive. Che il web sia una soluzione lo pensano già in molti ed anche gli “epurati temporanei” come Santoro e Floris hanno deciso di sfruttarne le potenzialità per aggirare il divieto di messa in onda posto dalla Rai: se il primo ha organizzato per il 25 marzo a Bologna “Rai per una notte” - un evento da trasmettere in streaming e sulle piattaforme satellitari - il secondo è partito lo scorso 17 marzo con una trasmissione itinerante in 4 tappe “calde” come Torino, L'Aquila, Roma e Cosenza, visualizzabile sul sito della FNSI. Che però i rischi connessi al medium siano tanti lo dimostrano i continui allarmi su Facebook - ormai microcosmo designato - e i suoi gruppi virulenti.

La scelta dell’informazione “fai da te” non implica solo il desiderio di conoscere per giudicare; sottintende un giudizio negativo e senz’appello nei confronti dell’informazione di regime. Vedova del giornalismo d’inchiesta, orfana di editori coraggiosi e vittima di verità confezionate sulla pelle della realtà, l’aspirazione ad una informazione libera in quanto indipendente - e indipendente perché libera - giace sotto i faccioni del minzolinismo.

Il giornalismo italiano - diversamente da quanto sarebbe auspicabile e da ciò che la deontologia prevederebbe - non svolge da quasi 30 anni il ruolo di cane da guardia del potere; né, tanto meno, difende gli utenti dalle menzogne dello stesso. Inevitabile quindi, la crisi di credibilità. I fatti, come diceva qualcuno, hanno la testa dura.

 

di Rosa Ana De Santis

La macchina della verità si muove lenta, a piccoli passi. Ma va avanti, inesorabile. Siamo alla relazione conclusiva dell'inchiesta sull'efficacia, l'efficienza e l'appropriatezza delle cure prestate a Stefano Cucchi, che mette un altro tassello in un puzzle impazzito, i cui pezzi escono a singhiozzo tra una lettera nascosta, una seconda autopsia e il silenzio colpevole di tutti i protagonisti. Mentre una famiglia semplice non si arrende.

La storia è già grande, forse infinita come altre simili, ed è tutta sulle spalle di un giovanissimo ed esile ragazzo morto in modo violento e senza motivo nelle mani dei nostri poliziotti e nelle stanze di un ospedale pubblico. Da raccontare c’è lo Stato sul banco degli imputati e il motivato imbarazzo delle Istituzioni. La Commissione ha votato all’unanimità la relazione finale che sarà inviata alla Procura di Roma e al Presidente Schifani e Ignazio Marino rilascia le prime dichiarazioni che non lasciano scampo.

Stefano Cucchi aveva lesioni traumatiche su tutto il corpo, ma è morto per disidratazione e per l’eccessiva perdita di peso. Dieci chili in 6 giorni nella speranza di lanciare un messaggio di protesta e di avere attenzione dai legali o dagli operatori della Comunità. Un messaggio occultato deliberatamente, una famiglia tenuta all’oscuro e un’attenzione dalle autorità che è arrivata solo quando Stefano era in una bara. L’altro dato che emerge chiaro dalla relazione conclusiva sanitaria è che la rianimazione operata sul corpo di Cucchi è arrivata dopo qualche ora dal decesso.

Il simbolo irrimediabile di un abbandono fisico ed emotivo e di un accanimento complessivo di violenze in cui il giovane detenuto è stato lasciato per giorni. Senza che qualcuno riesca ancora a spiegarne il perché, ammesso che ce ne siano. Il quadro indiziario si compone così di lesioni inferte da parte di chi aveva in custodia Stefano, dato che al momento dell’arresto non ne aveva, e di abbandono da parte dell’ospedale che avrebbe dovuto curarle. Un’unione maledetta che l’ha ucciso. L’indagine della Commissione d’Inchiesta può rafforzare il lavoro della Procura e dare coraggio ad  un’inchiesta che corre il grande rischio di non arrivare alla verità.  Il tutto è stato riassunto in sette punti di criticità.

Le lesioni sono recenti e le “ecchimosi palpebrali sono state probabilmente prodotte da una succussione diretta delle due orbite”. Il ricovero è stato deciso con quattro ore di ritardo. L’ortopedico si è limitato ad una consulenza telefonica. La cartella clinica non ha seguito adeguatamente il paziente nei suoi spostamenti. La decisione del ricovero definitivo presso la struttura protetta del Pertini rimane difficile da ricondurre a valutazioni sanitarie. Non da ultimo, il primario non ha mai visitato il paziente ormai diventato grave, non sono state adottate misure diagnostiche eccezionali come il caso avrebbe necessitato e, infine, sul posto dove è morto Stefano, mancavano  supporti per la rianimazione.

Come ribadisce la senatrice radicale Donatella Poretti, nel commentare la votazione del Senato, emerge chiaramente il ritratto di un detenuto malmenato in sciopero della fame e della sete. E lasciato morire senza alcun tentativo di accogliere la sua protesta, anche solo per poterlo salvare. Qualche giorno fa quando a morire era stato il dissidente cubano  Orlando Zapata l’indignazione aveva cosparso i nostri giornali di retorica. Facile fare i titoli di accusa contro Cuba “carnefice”.  Ma il caso italiano non è meno feroce, anzi.  Stefano in ospedale era arrivato in tempo per esser salvato, ma le ragioni “cautelative” - come dichiara Marino - hanno prevalso su quelle “sanitarie”. Una scelta ignobile e di cui è davvero difficile trovare la coerenza quando quegli stessi medici invece, stando a quanto ha tuonato il governo, non avrebbero dovuto lasciar morire Eluana nonostante le sentenze del Tribunale.

La storia di Stefano denuncia il dato grave per cui in Italia le condizioni di salute di un detenuto non valgono come quelle di un cittadino libero e le omissioni dei medici unite alle violenze delle divise lanciano una pesante ombra di sospetto sullo Stato. Sulle sue braccia. Quelle che Stefano l’hanno picchiato duramente, quelle che non l’hanno salvato portandogli in stanza un familiare, un legale, un operatore della sua comunità. L’acqua che lo avrebbe salvato. Un bicchiere di umana giustizia.

di Mariavittoria Orsolato

“Non scenderemo in piazza perché la vera opposizione si fa in Parlamento”. Così parlò Pier Ferdinando Casini alla vigilia della manifestazione che, lo scorso sabato, ha visto a Roma oltre duecentomila persone, arrivate da tutta Italia per protestare contro lo spudorato aggiramento delle regole attuato dal Governo con il decreto salva-liste. Che la dichiarazione fosse in controtendenza rispetto alla pur insperata mobilitazione di quel Pd con cui divide i banchi della minoranza, ce lo si poteva aspettare da uno che con lo scudo crociato ci si è costruito la sua fortuna; quello che però si auspicava - soprattutto in vista della prossima chiamata alle urne - era che almeno Casini avesse il buon gusto di non smentirsi nell’immediato: quella è roba da premier e non gli si addirà mai.

Da quanto si è potuto apprendere leggendo il blog di Massimo Donadi, capogruppo alla Camera dei flagellatori dell’Idv, erano infatti ben 17 i deputati dell’Udc assenti martedì al dibattimento sulla costituzionalità del decreto salva-liste: Michele Vietti, primo firmatario della mozione del partito, Rocco Buttiglione, Paola Binetti, Lorenzo Cesa, Francesco Bosi, Angelo Cera, Luciano Ciocchetti, Teresio Delfino, Antonio De Poli, Gian Luca Galetti, Mauro Libè, Gabriella Mondello, Savino Pezzotta, Michele Piasacane, Lorenzo Poli Nedo, Domenico Zinzi e ovviamente lui, Pier Ferdinando Casini.

Tenendo conto che la maggioranza è riuscita a salvare il decreto in corner, con uno scarto di soli 13 voti, possiamo leggere il comportamento dei deputati scudocrociati come l’ennesimo regalo fatto a quelli che dovrebbero osteggiare ma con cui in realtà si ritrovano spesso ad amoreggiare. La storia della fu Democrazia Cristiana è infatti costellata di alleanze di facciata e intrisa di impareggiabile cerchiobottismo: è sufficiente vedere come per le regionali nel Lazio il partito di Pierfurby si sia schierato con Renata Polverini e con la peggiore rappresentanza del Pdl, vedi quel senatore Fazzone che meno di un anno fà impedì il commissariamento del comune di Fondi per infiltrazioni mafiose.

Pungolati in merito al colpo basso inferto a quella stessa opposizione da loro rappresentata alle Camere, gli esponenti dell’Udc non hanno potuto resistere alla ghiotta occasione di vittimismo in stile Azione Cattolica, e con Cesa hanno replicato candidi: “L’Udc non può contare né sui potenti mezzi televisivi né sulle disponibilità economiche del Pd e del Pdl. Per questo anche i suoi parlamentari vanno in prima persona nelle regioni dove si vota a fare campagna elettorale tra la gente”. Chapeau.

Date le premesse non ci si riesce a proprio a capacitare dell’insistenza con cui Bersani e il suo Pd vadano cercando l’alleanza di cotante personalità politiche: l’episodio della Puglia, in cui il partito pur di avere al suo fianco Casini era arrivato a rinunciare  alla naturale intesa con Nichi Vendola - ovvero l’unica figura in grado di rappresentare perlomeno decentemente la sinistra istituzionale -, dovrebbe ben rendere il livello di schizofrenia raggiunto dal monstrum politico voluto da Walter Veltroni. La spirale distruttiva che Bersani e i suoi hanno imboccato, scegliendo di fare sistematicamente ciò che ai loro elettori non piace, è palese in quello che potrebbe sembrare dilettantismo politico, ma che i più attenti sapranno decifrare come innegabile spaesamento di fronte alle continue sfide che un governo quale il Berlusconi quater di continuo propone.

Partecipare da protagonisti alla manifestazione di quel popolo viola snobbato e addirittura osteggiato solo 4 mesi fa, è prova incontrovertibile di come ormai i vertici siano definitivamente scollati da quella base che ha fatto dei residui del Pci un partito quantomeno eleggibile. Chi una volta avrebbe votato i Ds, ora vota Di Pietro e le sue fin troppo semplici soluzioni, mentre chi prima, seppur turandosi il naso, si recava alle urne a mettere una croce sul male minore, ora si rassegna all’evidenza del fatto che ad oggi, in questa infinita telenovela politica, non ci siano reali alternative all’annichilimento.


 

di Nicola Lillo

Talk show sì, talk show no? In uno stato democratico e di diritto la risposta sorgerebbe spontanea. L’Italia, invece, non sembra rientrare pienamente in questa categoria, e il dubbio continua a correre in viale Mazzini. Anzi, più che di dubbio dovrebbe parlarsi di certezza. È di ieri, infatti, la decisione del consiglio di amministrazione della Rai, che ha confermato la sospensione dei talk show politici sulla tv pubblica fino alle prossime elezioni regionali, demandando la decisione alla commissione di Vigilanza. In seguito al ricorso di Sky e La7 contro il regolamento dell'Autorità di garanzia nel periodo della campagna elettorale, il Tar, venerdì scorso, aveva emesso una sentenza pronunciando la sua contrarietà alla decisione assunta dall’Agcom.

Il cda Rai, riunitosi ieri, ha però stabilito che “alla luce delle ordinanze del Tar, in relazione alla regolamentazione in materia di informazione e comunicazione politica in periodo elettorale, il Consiglio di Amministrazione della Rai, dopo un ampio dibattito, ha approvato a maggioranza la delibera con la quale - recita la nota di viale Mazzini - ha dato mandato al Direttore Generale di acquisire al più presto dalla Commissione Parlamentare per l'Indirizzo Generale e la Vigilanza dei Servizi Radiotelevisivi le valutazioni di competenza, cui la Rai dovrà adeguarsi”. Cinque a quattro e serranda ancora abbassata. Problema, invece, non sorge per le emittenti private.

Intanto il presidente della Rai, Paolo Garimberti, si dice “amareggiato” per l'esito della riunione del Cda. Più critico Bersani: “È una cosa da pazzi in un Paese moderno, occidentale, avanzato che si decida ad un certo punto di spegnere la luce. Questo mi pare assurdo”. Interviene anche Giovanni Floris: “E' una decisione errata. E' una situazione caotica, grottesca, paradossale. Per un giornalista non andare in onda o non scrivere é la cosa peggiore che ci sia”. Anche il segretario generale della Fnsi, Siddi, dice la sua: “Se la decisione della Rai una settimana fa era sciagurata oggi è sciagurata al cubo. Una decisione che priva i cittadini di elementi di conoscenza e apprendimento”.

Interviene immediatamente il direttore generale della Rai, Mauro Masi, che invita la commissione parlamentare di Vigilanza, alla quale è stata affidata la decisione, ad assumere eventuali deliberazioni sulla sospensione dei talk show con “urgenza”. In una nota diretta alla commissione scrive: “Si avverte la necessità di rivolgere formale interpello a Codesta Onorevole Commissione, affinché, a fronte delle pronunce del Tribunale Amministrativo del Lazio e della deliberazione conseguentemente presa dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, assuma le eventuali determinazioni rimesse alla sua funzione politica di indirizzo”.

Sarà quindi Masi a rappresentare oggi alla commissione parlamentare di Vigilanza la situazione che si è creata, per cercare di acquisire le valutazioni dell’organismo parlamentare. Il direttore generale delle Rai ha subito inviato una lettera al presidente della Commissione, Sergio Zavoli, per chiedere chiarimenti sull'applicazione del regolamento sulla par condicio dopo la decisione del Tar del Lazio che ha portato all'annullamento della delibera dell'Agcom. È certo, data la composizione delle commissioni, speculare alla divisione maggioranza e opposizione, che la Vigilanza asseconderà la scelta del cda Rai. Le uniche conseguenze saranno, probabilmente, sanzioni amministrative.

Ma il nocciolo del problema lo tocca uno dei giornalisti che saranno costretti a incrociare le braccia fino alle elezioni (e magari anche dopo). Giovanni Floris, conduttore di Ballarò (uno dei quattro programmi coinvolti, insieme a Porta a Porta, Ultima Parola e Annozero), ha affermato che “il problema è il rapporto tra la Rai e la politica; o meglio, il rapporto tra gli organi di controllo e la politica. Se la politica non è alta e nobile e ci prova, devono essere gli editori e i giornalisti a resistere”. Il riferimento è chiaramente alle indagini in corso nella Procura di Trani.

Lo scoop, messo in luce da Il Fatto Quotidiano, ha evidenziato una commistione tra controllori e politica. Un presidente del Consiglio spesso al telefono con Innocenzi, membro dell’Agcom, e orgoglioso di definirsi un “soldato di Silvio”. Affermazione che stona con il suo ruolo di membro dell’autorità di garanzia nelle telecomunicazioni. Lo stesso premier al telefono con il direttore del Tg1, al suo servizio quando è più necessario. Risultato: tre reti private in mano, influenze (o meglio: ordini) in Rai. Se qualcuno aveva dubbi sul conflitto d’interessi, forse potrà ricredersi. Si aspettano solo le deposizioni delle intercettazioni, per gustarsi meglio le ruffianate e le leccate. E intanto, se qualcuno è costretto a chiudere, quelli coinvolti nell’inchiesta restano al loro posto. D’altronde si sa: chi striscia non inciampa.


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