di Rosa Ana De Santis

La macchina della verità si muove lenta, a piccoli passi. Ma va avanti, inesorabile. Siamo alla relazione conclusiva dell'inchiesta sull'efficacia, l'efficienza e l'appropriatezza delle cure prestate a Stefano Cucchi, che mette un altro tassello in un puzzle impazzito, i cui pezzi escono a singhiozzo tra una lettera nascosta, una seconda autopsia e il silenzio colpevole di tutti i protagonisti. Mentre una famiglia semplice non si arrende.

La storia è già grande, forse infinita come altre simili, ed è tutta sulle spalle di un giovanissimo ed esile ragazzo morto in modo violento e senza motivo nelle mani dei nostri poliziotti e nelle stanze di un ospedale pubblico. Da raccontare c’è lo Stato sul banco degli imputati e il motivato imbarazzo delle Istituzioni. La Commissione ha votato all’unanimità la relazione finale che sarà inviata alla Procura di Roma e al Presidente Schifani e Ignazio Marino rilascia le prime dichiarazioni che non lasciano scampo.

Stefano Cucchi aveva lesioni traumatiche su tutto il corpo, ma è morto per disidratazione e per l’eccessiva perdita di peso. Dieci chili in 6 giorni nella speranza di lanciare un messaggio di protesta e di avere attenzione dai legali o dagli operatori della Comunità. Un messaggio occultato deliberatamente, una famiglia tenuta all’oscuro e un’attenzione dalle autorità che è arrivata solo quando Stefano era in una bara. L’altro dato che emerge chiaro dalla relazione conclusiva sanitaria è che la rianimazione operata sul corpo di Cucchi è arrivata dopo qualche ora dal decesso.

Il simbolo irrimediabile di un abbandono fisico ed emotivo e di un accanimento complessivo di violenze in cui il giovane detenuto è stato lasciato per giorni. Senza che qualcuno riesca ancora a spiegarne il perché, ammesso che ce ne siano. Il quadro indiziario si compone così di lesioni inferte da parte di chi aveva in custodia Stefano, dato che al momento dell’arresto non ne aveva, e di abbandono da parte dell’ospedale che avrebbe dovuto curarle. Un’unione maledetta che l’ha ucciso. L’indagine della Commissione d’Inchiesta può rafforzare il lavoro della Procura e dare coraggio ad  un’inchiesta che corre il grande rischio di non arrivare alla verità.  Il tutto è stato riassunto in sette punti di criticità.

Le lesioni sono recenti e le “ecchimosi palpebrali sono state probabilmente prodotte da una succussione diretta delle due orbite”. Il ricovero è stato deciso con quattro ore di ritardo. L’ortopedico si è limitato ad una consulenza telefonica. La cartella clinica non ha seguito adeguatamente il paziente nei suoi spostamenti. La decisione del ricovero definitivo presso la struttura protetta del Pertini rimane difficile da ricondurre a valutazioni sanitarie. Non da ultimo, il primario non ha mai visitato il paziente ormai diventato grave, non sono state adottate misure diagnostiche eccezionali come il caso avrebbe necessitato e, infine, sul posto dove è morto Stefano, mancavano  supporti per la rianimazione.

Come ribadisce la senatrice radicale Donatella Poretti, nel commentare la votazione del Senato, emerge chiaramente il ritratto di un detenuto malmenato in sciopero della fame e della sete. E lasciato morire senza alcun tentativo di accogliere la sua protesta, anche solo per poterlo salvare. Qualche giorno fa quando a morire era stato il dissidente cubano  Orlando Zapata l’indignazione aveva cosparso i nostri giornali di retorica. Facile fare i titoli di accusa contro Cuba “carnefice”.  Ma il caso italiano non è meno feroce, anzi.  Stefano in ospedale era arrivato in tempo per esser salvato, ma le ragioni “cautelative” - come dichiara Marino - hanno prevalso su quelle “sanitarie”. Una scelta ignobile e di cui è davvero difficile trovare la coerenza quando quegli stessi medici invece, stando a quanto ha tuonato il governo, non avrebbero dovuto lasciar morire Eluana nonostante le sentenze del Tribunale.

La storia di Stefano denuncia il dato grave per cui in Italia le condizioni di salute di un detenuto non valgono come quelle di un cittadino libero e le omissioni dei medici unite alle violenze delle divise lanciano una pesante ombra di sospetto sullo Stato. Sulle sue braccia. Quelle che Stefano l’hanno picchiato duramente, quelle che non l’hanno salvato portandogli in stanza un familiare, un legale, un operatore della sua comunità. L’acqua che lo avrebbe salvato. Un bicchiere di umana giustizia.

di Mariavittoria Orsolato

“Non scenderemo in piazza perché la vera opposizione si fa in Parlamento”. Così parlò Pier Ferdinando Casini alla vigilia della manifestazione che, lo scorso sabato, ha visto a Roma oltre duecentomila persone, arrivate da tutta Italia per protestare contro lo spudorato aggiramento delle regole attuato dal Governo con il decreto salva-liste. Che la dichiarazione fosse in controtendenza rispetto alla pur insperata mobilitazione di quel Pd con cui divide i banchi della minoranza, ce lo si poteva aspettare da uno che con lo scudo crociato ci si è costruito la sua fortuna; quello che però si auspicava - soprattutto in vista della prossima chiamata alle urne - era che almeno Casini avesse il buon gusto di non smentirsi nell’immediato: quella è roba da premier e non gli si addirà mai.

Da quanto si è potuto apprendere leggendo il blog di Massimo Donadi, capogruppo alla Camera dei flagellatori dell’Idv, erano infatti ben 17 i deputati dell’Udc assenti martedì al dibattimento sulla costituzionalità del decreto salva-liste: Michele Vietti, primo firmatario della mozione del partito, Rocco Buttiglione, Paola Binetti, Lorenzo Cesa, Francesco Bosi, Angelo Cera, Luciano Ciocchetti, Teresio Delfino, Antonio De Poli, Gian Luca Galetti, Mauro Libè, Gabriella Mondello, Savino Pezzotta, Michele Piasacane, Lorenzo Poli Nedo, Domenico Zinzi e ovviamente lui, Pier Ferdinando Casini.

Tenendo conto che la maggioranza è riuscita a salvare il decreto in corner, con uno scarto di soli 13 voti, possiamo leggere il comportamento dei deputati scudocrociati come l’ennesimo regalo fatto a quelli che dovrebbero osteggiare ma con cui in realtà si ritrovano spesso ad amoreggiare. La storia della fu Democrazia Cristiana è infatti costellata di alleanze di facciata e intrisa di impareggiabile cerchiobottismo: è sufficiente vedere come per le regionali nel Lazio il partito di Pierfurby si sia schierato con Renata Polverini e con la peggiore rappresentanza del Pdl, vedi quel senatore Fazzone che meno di un anno fà impedì il commissariamento del comune di Fondi per infiltrazioni mafiose.

Pungolati in merito al colpo basso inferto a quella stessa opposizione da loro rappresentata alle Camere, gli esponenti dell’Udc non hanno potuto resistere alla ghiotta occasione di vittimismo in stile Azione Cattolica, e con Cesa hanno replicato candidi: “L’Udc non può contare né sui potenti mezzi televisivi né sulle disponibilità economiche del Pd e del Pdl. Per questo anche i suoi parlamentari vanno in prima persona nelle regioni dove si vota a fare campagna elettorale tra la gente”. Chapeau.

Date le premesse non ci si riesce a proprio a capacitare dell’insistenza con cui Bersani e il suo Pd vadano cercando l’alleanza di cotante personalità politiche: l’episodio della Puglia, in cui il partito pur di avere al suo fianco Casini era arrivato a rinunciare  alla naturale intesa con Nichi Vendola - ovvero l’unica figura in grado di rappresentare perlomeno decentemente la sinistra istituzionale -, dovrebbe ben rendere il livello di schizofrenia raggiunto dal monstrum politico voluto da Walter Veltroni. La spirale distruttiva che Bersani e i suoi hanno imboccato, scegliendo di fare sistematicamente ciò che ai loro elettori non piace, è palese in quello che potrebbe sembrare dilettantismo politico, ma che i più attenti sapranno decifrare come innegabile spaesamento di fronte alle continue sfide che un governo quale il Berlusconi quater di continuo propone.

Partecipare da protagonisti alla manifestazione di quel popolo viola snobbato e addirittura osteggiato solo 4 mesi fa, è prova incontrovertibile di come ormai i vertici siano definitivamente scollati da quella base che ha fatto dei residui del Pci un partito quantomeno eleggibile. Chi una volta avrebbe votato i Ds, ora vota Di Pietro e le sue fin troppo semplici soluzioni, mentre chi prima, seppur turandosi il naso, si recava alle urne a mettere una croce sul male minore, ora si rassegna all’evidenza del fatto che ad oggi, in questa infinita telenovela politica, non ci siano reali alternative all’annichilimento.


 

di Nicola Lillo

Talk show sì, talk show no? In uno stato democratico e di diritto la risposta sorgerebbe spontanea. L’Italia, invece, non sembra rientrare pienamente in questa categoria, e il dubbio continua a correre in viale Mazzini. Anzi, più che di dubbio dovrebbe parlarsi di certezza. È di ieri, infatti, la decisione del consiglio di amministrazione della Rai, che ha confermato la sospensione dei talk show politici sulla tv pubblica fino alle prossime elezioni regionali, demandando la decisione alla commissione di Vigilanza. In seguito al ricorso di Sky e La7 contro il regolamento dell'Autorità di garanzia nel periodo della campagna elettorale, il Tar, venerdì scorso, aveva emesso una sentenza pronunciando la sua contrarietà alla decisione assunta dall’Agcom.

Il cda Rai, riunitosi ieri, ha però stabilito che “alla luce delle ordinanze del Tar, in relazione alla regolamentazione in materia di informazione e comunicazione politica in periodo elettorale, il Consiglio di Amministrazione della Rai, dopo un ampio dibattito, ha approvato a maggioranza la delibera con la quale - recita la nota di viale Mazzini - ha dato mandato al Direttore Generale di acquisire al più presto dalla Commissione Parlamentare per l'Indirizzo Generale e la Vigilanza dei Servizi Radiotelevisivi le valutazioni di competenza, cui la Rai dovrà adeguarsi”. Cinque a quattro e serranda ancora abbassata. Problema, invece, non sorge per le emittenti private.

Intanto il presidente della Rai, Paolo Garimberti, si dice “amareggiato” per l'esito della riunione del Cda. Più critico Bersani: “È una cosa da pazzi in un Paese moderno, occidentale, avanzato che si decida ad un certo punto di spegnere la luce. Questo mi pare assurdo”. Interviene anche Giovanni Floris: “E' una decisione errata. E' una situazione caotica, grottesca, paradossale. Per un giornalista non andare in onda o non scrivere é la cosa peggiore che ci sia”. Anche il segretario generale della Fnsi, Siddi, dice la sua: “Se la decisione della Rai una settimana fa era sciagurata oggi è sciagurata al cubo. Una decisione che priva i cittadini di elementi di conoscenza e apprendimento”.

Interviene immediatamente il direttore generale della Rai, Mauro Masi, che invita la commissione parlamentare di Vigilanza, alla quale è stata affidata la decisione, ad assumere eventuali deliberazioni sulla sospensione dei talk show con “urgenza”. In una nota diretta alla commissione scrive: “Si avverte la necessità di rivolgere formale interpello a Codesta Onorevole Commissione, affinché, a fronte delle pronunce del Tribunale Amministrativo del Lazio e della deliberazione conseguentemente presa dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, assuma le eventuali determinazioni rimesse alla sua funzione politica di indirizzo”.

Sarà quindi Masi a rappresentare oggi alla commissione parlamentare di Vigilanza la situazione che si è creata, per cercare di acquisire le valutazioni dell’organismo parlamentare. Il direttore generale delle Rai ha subito inviato una lettera al presidente della Commissione, Sergio Zavoli, per chiedere chiarimenti sull'applicazione del regolamento sulla par condicio dopo la decisione del Tar del Lazio che ha portato all'annullamento della delibera dell'Agcom. È certo, data la composizione delle commissioni, speculare alla divisione maggioranza e opposizione, che la Vigilanza asseconderà la scelta del cda Rai. Le uniche conseguenze saranno, probabilmente, sanzioni amministrative.

Ma il nocciolo del problema lo tocca uno dei giornalisti che saranno costretti a incrociare le braccia fino alle elezioni (e magari anche dopo). Giovanni Floris, conduttore di Ballarò (uno dei quattro programmi coinvolti, insieme a Porta a Porta, Ultima Parola e Annozero), ha affermato che “il problema è il rapporto tra la Rai e la politica; o meglio, il rapporto tra gli organi di controllo e la politica. Se la politica non è alta e nobile e ci prova, devono essere gli editori e i giornalisti a resistere”. Il riferimento è chiaramente alle indagini in corso nella Procura di Trani.

Lo scoop, messo in luce da Il Fatto Quotidiano, ha evidenziato una commistione tra controllori e politica. Un presidente del Consiglio spesso al telefono con Innocenzi, membro dell’Agcom, e orgoglioso di definirsi un “soldato di Silvio”. Affermazione che stona con il suo ruolo di membro dell’autorità di garanzia nelle telecomunicazioni. Lo stesso premier al telefono con il direttore del Tg1, al suo servizio quando è più necessario. Risultato: tre reti private in mano, influenze (o meglio: ordini) in Rai. Se qualcuno aveva dubbi sul conflitto d’interessi, forse potrà ricredersi. Si aspettano solo le deposizioni delle intercettazioni, per gustarsi meglio le ruffianate e le leccate. E intanto, se qualcuno è costretto a chiudere, quelli coinvolti nell’inchiesta restano al loro posto. D’altronde si sa: chi striscia non inciampa.

di Ilvio Pannullo

Dopo l’approvazione del cosiddetto decreto “salva Alcoa” si esulta con cautela per le pendenze relative al caso della multinazionale americana dell’alluminio con sede in Sardegna. Si tratta, in particolare, del decreto legge che vuole incrementare la sicurezza del sistema elettrico nelle Isole maggiori (Sardegna e Sicilia) consentendo così di evitare eventuali black-out. Un provvedimento conosciuto anche come “salva Alcoa”, perché la multinazionale americana dell'alluminio è fra i clienti che possono ottenere un beneficio in termini di minor costo dell'energia per il triennio, accedendo al servizio di interrompibilità, ossia il servizio che consente, nei luoghi dove ce ne è bisogno, come appunto le isole, di mantenere in equilibrio il rapporto tra produzione di energia e consumi.

L’unico possibile intralcio alla buona riuscita dell’operazione è la possibilità, assolutamente concreta, che la Commissione Europea interpreti l’operazione come un aiuto di Stato simulato e ne revochi l’efficacia, condannando lo Stato italiano all’abrogazione del provvedimento e l’azienda americana a pagare quanto indebitamente risparmiato. Questa eventualità, tutt’altro che remota, porterebbe inevitabilmente alla chiusura degli stabilimenti sardi con conseguenze disastrose per l’economia di dell’intera regione.

''Vediamo quali sono i chiarimenti dell'Italia alle richieste della Commissione, ma il clima mi pare abbastanza positivo, il primo incontro è andato bene''. E' il commissario europeo all'Industria Antonio Tajani a riassumere così il punto sulla vertenza Alcoa. Pare dunque si possa ancora sperare. Per il polo industriale di Portovesme, nella costa sudoccidentale della Sardegna, arrivano tuttavia due notizie contrastanti. Da una parte la multinazionale americana leader nel settore dell'alluminio che ha deciso di ritirare la cassa integrazione, rinunciando dunque chiudere lo stabilimento almeno per i prossimi sei mesi. Una boccata d'ossigeno a termine, insomma, che non sembra essere all'orizzonte per i lavoratori dell'altro stabilimento a rischio, l’Euralluminia, della russa Rusal, che ha annunciato la proroga della cassa integrazione per un altro anno. Ciò significa che i lavoratori - un migliaio tra diretti e imprese d'appalto - vedranno prorogare la cassa integrazione per un altro anno. Questo perché, a differenza dell'Alcoa, per Eulalluminia il problema non è legato ai costi energetici ma gli alti costi dell'olio combustibile del carbon coke. Il futuro dell’alluminio in Sardegna appare dunque tutt’altro che roseo.

Nonostante infatti sul versante Alcoa la produzione sarà assicurata sino ad agosto, parlare di vittoria sarebbe davvero eccessivo. Lavoratori e sindacati mostrano cauto ottimismo e richiedono che le istituzioni, governo e regione in testa, inizino a lavorare subito per trovare una soluzione nel caso in cui, fra sei mesi, la multinazionale americana dovesse decidere di smobilitare. "Questo risultato è stato accolto con piacere per il semplice fatto che l'alternativa era la chiusura - commenta Fabio Enne, segretario generale della Femca Cisl del Sulcis Iglesiente - ma non possiamo parlare di una vittoria su tutti i fronti, in quanto il nostro obiettivo è la prospettiva di lungo periodo incentrata sulla produzione di alluminio primario, settore importante che non va perduto".

Nel Sulcis Iglesiente e nella città capoluogo, Iglesias, in particolare, l'attività estrattiva è stata infatti per secoli la linfa vitale del tessuto economico. Cessata quell'epoca e chiuse anche le ultime gallerie, a fine anni 90 si è posto il problema della riconversione; lo Stato italiano pensò che l'erogazione di finanziamenti a chi si fosse fatto carico di avviare nuove attività fosse la soluzione migliore. In tanti si sono aggrappati a quella speranza, centinaia di lavoratori hanno iniziato a guardare al futuro con più ottimismo. Un errore colossale. Quella che era stata ribattezzata "la nuova vita industriale" di questo pezzo di Sardegna, si è rivelato in realtà un tremendo inganno.

Il denaro pubblico che avrebbe dovuto tradursi nel lavoro per almeno 500 persone in un'area considerata depressa, si perse tra i mille caporali della tristissima catena di comando del potere italiano . Gli elenchi delle società che avrebbero dovuto creare nuova ricchezza, producendo beni alternativi, sono lunghissimi: si va dalla "carboroll" , che avrebbe dovuto produrre sedie a rotelle; alla "Frejus", la fabbrica di biciclette da esportare in tutto il mondo; alla Binex passando per la "New Stone" che avrebbe dovuto lavorare marmi e lapidei provenienti dalle cave della Sardegna. Nell'elenco c'è anche la "Fgold" proveniente dalla privatizzazione di una delle aziende legate all'ente minerario sardo oramai disciolto. Una catena di fallimenti industriali che si trascina fino ad oggi con il caso della multinazionale dell'alluminio americana.

"Dopo la chiusura delle miniere e le erogazioni di fondi pubblici si è scatenata una vera e propria caccia al tesoro - osserva sempre il segretario generale della Femca Cisl Sulcis Iglesiente Fabio Enne - ma purtroppo non siamo stati in grado di effettuare un'attenta operazione di controllo sugli imprenditori che hanno ricevuto i finanziamenti. La riconversione è fallita per una serie di leggerezze: quella più grande è che le iniziative proposte non sono state abbastanza monitorate per verificare se fossero realmente confacenti ai bisogni del territorio. Miliardi di vecchie lire dati a società che hanno speculato senza produrre nulla. Se avessimo in piedi quei progetti avremo settecento posti di lavoro in più. C'è stato un vero sciacallaggio ai danni dei lavoratori e dell'intero territorio".

A detta di Pierluigi Carta, sindaco di Iglesias, l'errore più grosso è stato quello di "non diversificare l'economia e non esercitare la democrazia reale, affidando lo sviluppo del territorio ai burattinai senza scrupoli. Una volta era la miniera, poi le partecipazioni statali e infine i manager. Non è cambiato nulla. Centocinquanta anni di egemonia mineraria, da una parte hanno costruito su Iglesias un moderno sistema industriale e attratto ingenti flussi finanziari; dall'altra hanno finito per limitare fortemente la portata delle altre attività economiche tradizionali della cultura imprenditoriale, impedendo lo sviluppo di un sistema di anticorpi collettivo che riuscisse a difendersi dai mutamenti sempre più veloci dello scorso e del presente secolo".

In una situazione tanto drammatica, in un territorio caratterizzato da una monocultura produttivo-industriale, l'unica alternativa possibile è ricavare dal passato quel patrimonio di memoria e di identità che permetta alle comunità di programmare con orgoglio un futuro che sia sostenibile, partendo proprio dalle risorse naturali, architettoniche e culturali del territorio, così da difenderle dalla speculazione e dal degrado. Di fronte alla globalizzazione selvaggia e all'abbattimento delle barriere doganali, che impongono una competizione selvaggia tra aree economiche del mondo troppo diverse per poter essere anche solo paragonate, serve un'economia capace di sostenere settori tradizionali affiancandoli con il turismo unitamente a i servizi, all'agricoltura e all'artigianato.

Ormai lo Stato non può più intervenire a sostegno delle proprie imprese e dunque a sostegno dell'occupazione sul proprio territorio, essendo l'ordinamento italiano ormai inscritto in una cornice ben più complessa e sofisticata, quale quella dell'ordinamento comunitario. E’ quindi necessario fare è il coordinamento di tutte le istanze produttive legate al territorio e finalizzate allo sviluppo ed al benessere degli stessi territori su cui insistono gli stabilimenti produttivi, non all'esportazione verso mercati lontani anni luce di distanza dai confini italiani. L’alternativa è la depressione economica, sociale e mentale di una terra nota in tutto il mondo per le sue bellezze.

 

di Rosa Ana De Santis

I respingimenti voluti dal governo non hanno fatto scendere i numeri degli irregolari e hanno invece leso diritti umani e politici. Non è questione di propaganda politica, ma di numeri. La fruibilità del diritto d’asilo, che sarà bene ricordare figura nei dodici principi fondamentali con cui si apre la Costituzione Italiana, è in brusca diminuzione. A dirlo è Laurens Jolles, rappresentante dell’Unhcr per l’Europa meridionale. Le cifre parlano fin troppo chiaro: se nel 2008 le domande giunte all’Italia erano 30.492, nel 2009 sono state 17.603. Nel resto d’Europa i numeri sono invece rimasti stabili, mentre in Francia e Germania sono persino aumentati. Segno che l’inversione di rotta politica è tutta italiana e di questo governo.

Quello che accade tra l’Italia e la Libia e i respingimenti in mare hanno portato a questo. Tutti i respinti nel maggio 2009 erano richiedenti diritto d’asilo. Probabilmente non tutti avrebbero avuto i requisiti per averlo, ma il respingimento indiscriminato ha leso un diritto riconosciuto senza alcuna verifica di merito, rispondendo soltanto all’ossessione di sgombrare le coste e i centri di espulsione. I paesi da cui queste persone fuggono continuano ad essere quelli di sempre. La Somalia, ad esempio, da cui sono scappati l’anno scorso, dalla sola Mogadiscio, 250 mila civili per gli attacchi sferrati dai gruppi armati. Così la Libia e il suo regime “amico” del nostro Berlusconi o l’Eritrea. Eppure gli sbarchi sono calati drasticamente. Segno evidente che qui il diritto d’asilo non esiste. Soltanto l’anno scorso il 50% delle domande sono state accolte. Tutte persone che oggi rimangono in mare o vanno altrove.

L’Alto commissariato Onu per i rifugiati, numeri alla mano, obbliga ad una riflessione che in realtà la cronaca già ci ha messo sotto gli occhi. La fotografia che possiamo fare su tutti i nostri immigrati, quale che sia la causa della loro diaspora, è che possono rimanere qui ed essere tollerati da un clima culturale che non li vuole, ma ne ha bisogno, a patto che siano invisibili. E per essere invisibili, devono rimanere clandestini. Sostare stagnanti nell’illegalità. E’ così che Rosarno non è un fattaccio isolato di cronaca, ma un paradigma di comportamento generalizzato. E’ così che si può lasciare sommerso il razzismo e svenderlo come un’esagerazione di qualcuno, non come una scientifica e organizzata opera del male.

Pensiamo a Mantova e alla squadra degli skinhead. Ed è così che lo sciopero delle braccia dei lavoratori stranieri nessuno l’ha visto né sentito, come se fossero in pochi, pochissimi a lavorare per noi o al posto nostro. Talmente invisibili che nemmeno i loro figli a scuola e il loro diritto di studio vale di più del diritto di “tutelare” il territorio dall’immigrazione clandestina. Se persino i minori non ricevono una speciale tutela, soprattutto pensando che proprio da loro può partire un serio tentativo di costruire l’integrazione, il capolavoro è fatto.

Per quanto non sia consolidata la giurisprudenza su questi temi, il dato chiaro che emerge e che evidenzia in un intervento di commento alla sentenza della Cassazione Gianfranco Schiavone, membro del Consiglio direttivo dell’Asgi (Associazione italiana studi giuridici sull’immigrazione), è che è lo status di straniero a prevalere su qualsiasi altro diritto. L’espulsione è l’azione da privilegiare. A danno di Convenzioni Internazionali e di diritti costituzionali.

L’isolamento italiano è consumato. Una lingua di terra protesa nel mare che rifiuta il linguaggio dell’accoglienza. Quello che del mare è figlio. Un paradosso che disegna bene i contorni incerti di questo Paese. Un paese di vecchi che i figli numerosi ha preferito cacciarli via. Con le loro cartelle, con i genitori che lavorano per noi. A molti di questi non abbiamo permesso nemmeno di chiederci aiuto. Solo perché come scriveva nel secolo scorso Max Frisch sull’immigrazione, “cercavamo braccia, e sono arrivate persone”.


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