di Cinzia Frassi

Mai come quest'anno la Festa di Liberazione dal fascismo e dal nazismo è occasione per osservare. Il tentativo della destra di riscrivere la storia potrà sembrare un dettaglio, elemento trascurabile dei ritmi e delle strategie della politica della seconda repubblica italiana. In realtà non c’è niente di casuale: si tratta di fatti marginali certo, ma di tanti piccoli sassolini che, se collegati dal tratto di una penna, ne delineano il percorso verso il revisionismo storico della Resistenza, della Storia d'Italia, della Liberazione dal fascismo e dal nazifascismo.

E' vero, ogni anno, a ridosso d’importanti ricorrenze, c'è chi si fa avanti con sortite di diverso tipo. Nel 2000 dalla destra venne la proposta di istituire una commissione per la revisione dei libri di storia scolastici perché giudicati "marxisti". Ci sono stati anche vari tentativi di mettere sullo stesso piano coloro che hanno combattuto per la Patria e i caduti della Repubblica di Salò, alleati dell’invasore tedesco. Nel 2008 Ignazio La Russa, durante la celebrazione dell'Armistizio dell'8 settembre, disse che era suo dovere morale ricordare i caduti di Salò. Oggi è ministro della Difesa. Accanto a lui c'era il Presidente della Repubblica a bacchettarlo.

Ma ce n'è per tutti i gusti anche quest'anno alla viglia della Festa della Liberazione. Ad esempio a Milano è stata firmata nei giorni scorsi un'ordinanza che consente ai negozi di restare aperti, forse nel tentativo di trasformare la ricorrenza in una sorta di shopping natalizio fuori stagione. Ma il caso più eclatante se l'è inventato il Presidente della Provincia di Salerno, che si è preso la briga di diffondere manifesti in cui la Liberazione diventa inno agli americani salvatori contro l'avanzata comunista. Un tantino miope.

Luciano Violante a questo proposito ha dichiarato: “C’è una sorta di complesso d’inferiorità da parte di coloro che non riconoscono quello che è stato il ruolo della lotta di liberazione per riconquistare la democrazia in Italia. Vedo che a Salerno c’è un Presidente di Provincia che dice che sono stati liberati dagli americani. C’è chi vieta di cantare “Bella ciao” come a Sassuolo, e anche in Friuli c’è qualcosa del genere. Inviterei queste personalità del centrodestra a pensare che l’Italia è stata liberata insieme da americani, neozelandesi, australiani e italiani». Sarebbe stato meglio lo avesse ricordato quando lui stesso parlò delle "ragioni dei ragazzi di Salò", dimenticando la differenza che passa tra il torto e la ragione, tra l’onore e la vergogna.

Questi solo alcuni elementi di una lunga stagione di tentativi di distrarre la storia, ritoccarla come il trucco dei dirigenti di partito sotto i riflettori delle loro convention. Un pezzetto alla volta si erode la realtà storica: senza bisogno di idealizzare la Resistenza e la Liberazione, il 25 aprile si festeggia e si onora il sacrificio di coloro che si sono battuti per la Patria contro il ventennio fascista e l'occupazione nazista. Il 25 aprile si festeggia la Liberazione per mano dei partigiani, giovani e vecchi, uomini e donne, cattolici e non.

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che alla vigilia del 25 aprile si trovava a Milano al Teatro alla Scala per le celebrazioni della Liberazione, ha sottolineato l'importanza di mettere alla base dell'identità dello Stato la verità storica. Davanti ad una platea molto coinvolta non ha mancato di spendere parole circa l'unità stessa. In sala era presente il Presidente del Consiglio, “l'uomo delle riforme” come amano definirlo i suoi e la Lega che mette alla base del suo ricatto politico proprio il federalismo. Il Presidente Napolitano ha sottolineato che “l'idea di dividere l'Italia in più stati è fuori dalla storia e dalla realtà” ed ha continuato dicendo che l'unità d'Italia “non può essere oggetto di irrisione né considerarsi mito obsoleto o residuo del passato”. E ancora: “quelle autonomie regionali e locali di cui si sta rinnovando e accrescendo il ruolo secondo un'ispirazione federalistica, è la strada per far crescere di più e meglio tutto il nostro Paese e per affrontare obiettivi quali il diritto al lavoro e garantire il futuro dei giovani”. Ai cenni di approvazione del Presidente del Consiglio si sono poi unite le parole del ministro Calderoli, a dir poco sinistre: “Le sue parole mi fanno condividere la posizione sull'unità”.

Un teatrino di facciata che dimostra quanto poco attendibile e onesta, nel senso ampio del termine, sia oggi la compagine politica tutta, con poche eccezioni nominali. Una messa in scena che si estende anche ai preparativi per le prossime celebrazioni del 150esimo dell'Unità d'Italia, dove l'ex Presidente Carlo Azeglio Ciampi ha rassegnato le dimissioni e, a seguire, altre personalità.

Ad osservare con attenzione, a mettere insieme questi eventi ed altri, è chiara l'intenzione di mettere da parte la storia, di lasciarla dimenticare e dove non è possibile, cercare quanto meno di cucirle addosso altri significati. A fare il resto c'è un'informazione che ruota attorno ai fatti del momento, li esalta, li gonfia, li usa fino a consumarli e il giorno successivo ricomincia da capo.

Anche in occasione d’importanti ricorrenze come quella di oggi, come la prossima dell'Unità d'Italia, si spendono poche parole, poche energie e poco impegno, soprattutto dalla compagine politica che governa oggi il paese che avverte il passato storico italiano come un nemico.

Oggi però saranno le piazze d'Italia a resuscitare la storia, a tramandarla, a farla rivivere alle nuove generazioni. Per questo motivo sono importanti le celebrazioni storiche: sono un modo concreto di passaggio del testimone. Un segnale importante, estremamente emblematico, soprattutto in questo momento storico, è stata l'apertura delle iscrizioni, avvenuta nel 2006, dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia. I testimoni della Resistenza fanno sapere che, ad oggi, i nuovi iscritti dell'ANPI sono under 30. Forse non tutto è perduto.

 

di Fabrizio Casari

Una rottura politica insanabile e inevitabile. La messa in onda dello scontro tra Berlusconi e Fini ha rappresentato, per la prima volta nella storia della monarchia assoluta forzitaliota, non solo e non tanto la prima discontinuità pubblica, ma anche la presentazione in società di due modelli di destra diversi, forse inconciliabili. Il racconto dello scontro alla direzione del predellino vede un capo supremo che reagisce nervosamente a critiche politiche precise, articolate senza sconti, per quanto non esasperate nei toni e non ultimative nell’esito proposto.

Alle critiche il cavaliere ha risposto invitando Fini a dimettersi dal suo ruolo a Montecitorio. Come se Montecitorio fosse un ramo d’azienda. Buffa questa storia per la quale se si vuole far politica ci si dovrebbe dimettere dallo scranno più alto di Montecitorio. Il Presidente della Camera non è forse una nomina politica? O viene eletto per concorso pubblico? E perché il ruolo di garanzia istituzionale dovrebbe far velo su quello politico? Sembra un’ammissione d’inconciliabilità dei due livelli: il che non è nuovo, ma nemmeno confortante.

Lo scontro tra i cofondatori del Pdl indica anche molte altre cose, sia di contorno che di sostanza. Nella prima categoria si possono iscrivere l’imbarazzo generale di una platea di dipendenti di fronte alle critiche al capo (che di loro decide presente, futuro e modello 730) a cui si possono aggiungere le piroette dei voltagabbana, i voltafaccia dei fedeli a tempo, la rappresentazione plastica ed urlata di un partito di eletti che divengono peones. Alla seconda categoria va invece iscritta della fine della mediazione tra le diverse istanze della destra italiana, che aveva fino ad ora tenuto insieme le pulsioni xenofobe con la questione meridionale, l’ideologia dell’impresa con quella della rappresentanza corporativa del mondo del lavoro.

Il cemento dell’anticomunismo non basta più; soprattutto è inutile, vista l’assenza, appunto, dei comunisti. La posizione di Fini rende palese, sul piano personale e politico, l’esaurirsi di ogni funzione politica del Presidente della Camera, che vede la fine di un progetto politico di lungo respiro per una destra che, caso unico in Europa, continua a manifestarsi solo attraverso l’odio di classe e le pulsioni cesariste del proprietario di tutto. D’altra parte il predellino non aveva mai convinto l’ex delfino di Almirante. Roba di plastica, uno spot elettorale, un modo per riperpetrare all’infinito lo strapotere di Silvio e l’assoluta inutilità di tutto il resto. Già solo la richiesta di dibattito politico, non a caso, è sembrata al cavaliere un’onta da lavare con le dimissioni da Presidente della Camera.

Fini ha altro per la testa. Cerca la definitiva fuoriuscita dalle radici del Msi, in vista della formazione di una destra europea, venata di gaullismo e peculiarità italiana. Una destra moderna, riposizionata in un’epoca dove non ci sono più bolscevichi da combattere e agrari da sostenere, ma dove il disordine internazionale e la crisi di leadership statunitense, l’incompiuto progetto europeo, le contraddizioni del modello di sviluppo, la crisi degli stati-nazioni, l’incertezza identitaria dei popoli, obbligano ad un ripensamento generale di tipo sistemico.

Altro che secessione e longobardi, altro che acqua del Po e Borghezio: Fini ha un’idea della destra come destra europea, che assume le coordinate generali del sistema politico democratico che possono essere aggiustate alle singole specificità, ma che non possono considerarsi alternative al sistema di rappresentanza previsto dalla democrazia, anche quando fosse solo formale. Pur mantenendo l’impianto generale della cultura di provenienza, il Presidente della Camera chiede laicità delle istituzioni, diritti civili, percorso inclusivo dell’immigrazione: un’idea di destra che è esattamente all’opposto della mistura di xenofobia e Vandea propria della Lega.

E che il problema dell’identità della destra - e quindi della sua stessa prospettiva per il dopo-Berlusconi - sia rappresentato dalla Lega, è sotto gli occhi di tutti. Il dato delle ultime regionali parla chiaro: due milioni e mezzo di voti persi dal Pdl, di cui l’80% cannibalizzati dalla Lega. Un travaso che si spiega anche con l’assunzione da parte di tutto il Pdl delle tesi leghiste che, quindi, divengono d’un colpo tesi della destra italiana tutta e premiano, di conseguenza, chi sul territorio le spaccia. Si delinea quindi un’azienda con la Lega che detiene la quota di maggioranza del pacchetto azionario.

Ma Berlusconi (diversamente da Bossi, che nel ’94 fece cadere il governo di fronte alla cannibalizzazione della Lega al nord da parte di Forza Italia) tace e acconsente allo strapotere del partito xenofobo; ne ha un bisogno vitale per far passare le leggi ad personam. Ha bisogno disperato della lega per vincere in tutti i collegi del nord e per ridisegnare a sua immagine e convenienza l’architettura costituzionale italiana. Bossi, dal canto suo, si presenta con il figlio (autentico scienziato della politica) e Calderoli, a disegnare il percorso di riforme costituzionali. Il disegno è più o meno questo: tu consegni a noi il federalismo fiscale, le banche, gli enti e la divisione in tre del paese, noi consegniamo a te il potere politico assoluto. Lo scambio è la leadership del Pdl a Tremonti in cambio dell’ascesa al Quirinale di Berlusconi.

Roba da stomaci forti, comunque indigeribile per Fini, che con l’apertura dello scontro interno lancia un messaggio preciso: la destra non ha in Berlusconi l’unico ed ultimo rappresentante e la sua ascesa al Quirinale non è praticabile anche per la destra non berlusconiana. Anche per questo la reazione di Berlusconi è stata scomposta: è perfettamente consapevole che in gioco é sia la messa in discussione della sua leadership da parte di chi considera comunque un suo suddito (ingrato, per giunta), sia una pietra importante alle caviglie per la corsa al Quirinale.

Lo scontro, comunque, è solo agli inizi. Ma l’impressione è che Fini, le cui idee hanno molto più seguito nel suo elettorato che non tra i suoi colonnelli d’un tempo, ha aperto un cammino il cui esito è tutto da verificare: potrebbe portare all’ennesima scissione destinata ad alimentare il nuovo centro con Casini, Rutelli, Rotondi e spiccioli e, forse, con Montezemolo regista arretrato; oppure alla stagione della lenta agonia degli equilibri tenuti fino ad ora con l'assoluta supremazia del capo. Un avvicinarsi speriamo penoso, ma non pericoloso, alla fine del film.

 

di Mariavittoria Orsolato

E’ una lunga marcia quella che il governo ha intrapreso nel tentativo di modificare i fondamentali giuridici dello Statuto dei Lavoratori. Il testo del ddl, approvato dalle Camere lo scorso 3 marzo, è stato rimandato ai mittenti dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, proprio in ragione della norma che avrebbe dovuto introdurre l’arbitraggio legale nelle controversie sui licenziamenti. La norma andava palesemente aggirando quell’articolo 18 dello Statuto per cui, non meno di 8 anni fa, la Cgil di Cofferati riuscì a riempire il Circo Massimo con tre milioni di lavoratori.

Da allora, di acqua sotto i ponti ne è scorsa molta e il progetto del governo Berlusconi, arrivato nel frattempo alla sua quarta edizione, era quello di smantellare l’apparato difensivo del lavoratore licenziato in assenza di giusta causa: inserendo una clausola compromissoria al momento della stipula del contratto, il dipendente sarebbe stato “volontariamente obbligato” a ricorrere ad arbitri - semplici figure extragiudiziali, giudicanti in deroga alla legge - invece che ai giudici del lavoro.

E’ di ieri la notizia che la Commissione Lavoro della Camera ha approvato le modifiche elaborate per non disattendere le indicazioni del Colle, il quale per il nuovo testo gradiva “un più chiaro e definito equilibrio tra legislazione, contrattazione collettiva e contratto individuale”. Tra queste, l’emendamento all’articolo 31 comma 9 presentato dall’onorevole del Pdl Giuliano Cazzola, alleggerisce l’impianto voluto dal governo e sancisce che “la clausola compromissoria non può riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro. Davanti alle commissioni di certificazione le parti possono farsi assistere da un legale di loro fiducia o da un rappresentante dell'organizzazione sindacale o professionale a cui abbiano conferito mandato”. In questo modo, la clausola compromissoria con cui il lavoratore accetta volontariamente di ricorrere a una composizione stragiudiziale del contenzioso potrà essere firmata solo al termine del periodo di prova (ovvero dopo un mese) e non potrà riguardare i licenziamenti.

Certo questa non è una vittoria per quelli che vedevano nel provvedimento governativo una malcelata controriforma del lavoro: l’arbitrato rimane nel testo una possibilità a cui appellarsi e, secondo il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, i 9 emendamenti approvati dalla Commissione Lavoro non sono “sufficienti per cambiare il senso di una legge sbagliata che continua a mantenere punti evidenti di incostituzionalità”.

A onor del vero, sono però diversi i paletti posti alla discrezionalità dell’istituto dell’arbitrato, prima fra tutte la puntualizzazione riguardo il rispetto non solo dei principi generali dell'ordinamento ma pure “dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari”. Secondo i giuslavoristi con questa elaborazione si blindano definitivamente i presupposti dell’articolo 18 e si limita in modo considerevole il futuro ricorso alla pratica della conciliazione arbitrale, che a questo punto non sarebbe più dettata dal principio di equità ma vincolata alle norme e quindi equipollente a quella dei giudici del lavoro.

Un’altra correzione permette poi di saltare un grado di giudizio in caso di impugnazione del lodo emesso dall’arbitro: se il pronunciamento viene considerato illegittimo, si arriva direttamente in Cassazione senza passare dalla Corte d’Appello; cosa che, oltre a snellire i tempi della giustizia, rende definitiva e incontrovertibile l’eventuale sentenza di reintegro.

La questione ora sta tutta nelle modalità e nella frequenza con cui l’arbitrato verrà inserito nelle svariate tipologie di contratto che affollano un mondo del lavoro già esanime. Il prossimo martedì la Commissione Lavoro dovrebbe dare mandato al relatore di riferire in aula e il dibattimento alle Camere comincerà il giorno successivo: secondo gli auspìci degli uomini di governo e secondo le previsioni, non dovrebbero intervenire nuovi emendamenti né ci dovrebbero essere impedimenti al via libera definitivo sul testo approvato ieri.

Nel frattempo la Cgil, sempre più isolata, chiama i suoi alla mobilitazione e fissa per il 26 e il 28 aprile dei presidi nazionali per protestare contro le nuove disposizioni governative, ribadendo la lontananza dalle posizioni espresse nell’accordo siglato dalle parti sociali prima che il Capo dello Stato lo rinviasse alle Camere. Il braccio di ferro sembra però ormai terminato. Confindustria non festeggia, il Quirinale sì. 

di Nicola Lillo

L’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, era a conoscenza dei contatti avviati dal Ros dei carabinieri tra Vito Ciancimino e il generale Francesco Delfino. Un altro tassello si aggiunge al mosaico che i pm Nino Di Matteo e Antonio Ingroia stanno cercando di formare. È ripreso, infatti, il processo a carico del generale Mario Mori e del colonnello Muro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss mafioso Bernardo Provenzano nell’ottobre del 1995.

In aula erano attesi l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli e il magistrato ed ex dirigente del Ministero della Giustizia, Liliana Ferraro, collaboratrice di Giovanni Falcone, assente, però, per motivi di salute. I due erano stati citati dopo le dichiarazioni rese in aula da Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, nell’ambito della presunta trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra dopo le stragi del 1992.

Martelli inizia il suo racconto rispondendo alle domande del pm Ingroia, con un breve excursus sul suo mandato, per poi concentrarsi su quanto già aveva detto alla trasmissione Annozero. Dichiarazioni che fecero “sobbalzare dalla sedia” Michele Santoro e Sandro Ruotolo. Il racconto svela che il capitano dell’Arma De Donno incontrò Liliana Ferraro a fine giugno 1992, annunciandole che dopo aver agganciato Massimo Ciancimino, avrebbero potuto incontrare il padre Vito, con l’obiettivo di fermare le stragi. De Donno chiese supporto politico al ministero. La Ferraro aveva già risposto al capitano: “rivolgetevi a Borsellino”. “Il giudice Ferraro poi mi disse - dichiara Martelli - di aver incontrato il capitano dei carabinieri De Donno, il quale le aveva fatto riferimento ad un’azione del Ros destinata a porre fine al periodo stragista”.

L’ex Guardasigilli, venuto a conoscenza della richiesta del Ros, racconta che si adirò “per il rifiuto da parte del Ros di accettare una legge appena varata (quella che istituì la Dia competente su quelle indagini, ndr) e continuavano la loro iniziativa senza giustificazioni, né rispetto della gerarchia competente. La trovai una sorta d’insubordinazione. Io informai subito il capo della Dia, Tavormina, e il ministero dell’Interno”. Chi era il ministro in questione? Martelli non ricorda con precisione. Fino a fine giugno c’era Vincenzo Scotti e il primo luglio s’insediò Nicola Mancino. “Ritengo che fosse Nicola Mancino” conferma poi, precisando anche che “se minimamente avessi avuto sentore di una trattativa l’avrei denunciata pubblicamente”. “Sono convinto che lo scopo del Ros – continua – fosse virtuoso: fermare le stragi, arrestare i latitanti.

Ma il metodo utilizzato, inaccettabile. Ciancimino era uno dei capimafia più pericolosi una delle menti criminali più raffinate in organico a Cosa nostra. Un boss mafioso a tutti gli effetti, tra i più efferati e più pericolosi in virtù del suo inserimento negli ambienti amministrativi e si stava rischiando di dargli un ruolo super partes. Capivo che i carabinieri avevano un rapporto stretto con lui”.

Rivelazioni che mettono un po’ di luce su quei giorni del 1992. Il racconto dell’ex guardasigilli è certamente importante per la Procura. Un riscontro alle parole di Massimo Ciancimino, già querelato da Nicola Mancino, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Quest’ultimo replica a Martelli: “Né Martelli né altri mi parlò mai di contatti con Ciancimino. Ho sempre escluso, e coerentemente escludo anche oggi, che qualcuno, e perciò neppure il ministro Martelli, mi abbia mai parlato della iniziativa del colonnello Mori del Ros di volere avviare contatti con Vito Ciancimino. Ribadisco che, per quanto riguarda la mia responsabilità di ministro dell’Interno, nessuno mi parlò mai di possibili trattative con la mafia”.

“L’on. Martelli - osserva il vice presidente del Csm - fra Scotti e Mancino usa la forma dubitativa: ma se uno non si ricorda bene è inutile fare nomi. Quando la dottoressa Ferraro avrebbe incontrato De Donno si era nel giugno 1992, ed io mi insediai al Viminale l’1 luglio successivo. Con il Ros non avevo alcuna relazione istituzionale e, perciò, non c’era bisogno di dire a me un fatto che poteva interessare, semmai, il ministro della Difesa dell’epoca, da cui il colonnello Mori dipendeva”.

Intanto, mentre alcuni elementi aprono uno squarcio su una parte della storia del nostro Paese ancora poco chiara, è stata recapitata nell’abitazione di Bologna di Massimo Ciancimino una busta con proiettili di kalashnikov e una lettera contro Violante Martelli, Michele Santoro, Spatuzza e i pm Di Matteo Ingroia e Lari.

Il processo verrà aggiornato al prossimo 4 maggio, mentre l'altro ieri è stato nuovamente interrogato il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo. Ascoltato dal Procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dal pm Antonino Di Matteo, al termine dell’interrogatorio la Procura di Palermo ha acquisito agli atti il libro “Don Vito, le relazioni segrete tra Stato e mafia nel racconto di un testimone d’eccezione”, scritto a quattro mani dallo stesso Massimo Ciancimino e da Francesco La Licata, giornalista de La Stampa, dove si raccontano i retroscena inediti sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra.


 

di Nicola Lillo

Altro giro, altro regalo. Il ddl sul legittimo impedimento è stato promulgato. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, l'altro ieri ha posto la sua firma sul disegno di legge. Il provvedimento, approvato in via definitiva dal Senato il 10 marzo scorso, entrerà in vigore con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. La ventitreesima legge ad personam per il Premier. Un provvedimento che consentirà a Berlusconi e ai suoi ministri di schivare le aule di giustizia per i prossimi 18 mesi.

Un obiettivo fondamentale per il Presidente del Consiglio, intimorito dai diversi procedimenti a suo carico, l’ultimo dei quali è l’inchiesta di Trani, poi trasferita al “porto delle nebbie” di Roma. A Berlusconi non importa se il testo di legge venga o meno spazzato via dalla Corte Costituzionale, come molto probabilmente avverrà. Ciò che per lui conta è saltare i processi, in vista di un nuovo lodo Alfano in salsa costituzionale. Anche se, va ricordato, la nostra Costituzione prevede la possibilità di ritenere incostituzionali anche leggi approvate con procedimento aggravato, dunque leggi costituzionali.

Il legittimo impedimento non è altro che una legge a tempo, necessaria, secondo la maggioranza, dopo il vuoto normativo che si è venuto a creare in seguito all’abolizione dell’immunità parlamentare (dopo Tangentopoli). I 18 mesi dovrebbero servire, appunto, per emanare quella riforma costituzionale evocata da Berlusconi. La legge non è altro che un Lodo Alfano o Schifani esteso addirittura ai ministri. Napolitano sembra non essersene reso conto. Difatti questa norma non farà altro che impedire il normale svolgimento dei processi a carico di questi soggetti. Il Presidente della Repubblica non ha neppure capito che si tratta di una legge incostituzionale utile solo ad evitare una sentenza di condanna in primo grado per Berlusconi nel processo Mills. O almeno si spera non abbia capito.

Speranza che si perde leggendo il primo articolo della legge. Come fa notare l’ex magistrato Bruno Tinti, infatti, “l’art. 1 dice che il legittimo impedimento vale per le udienze penali in cui presidente del Consiglio e ministri sono imputati. Quindi non vale quando siano chiamati a testimoniare. Domanda: se il problema consiste nel fatto che la presenza nelle udienze penali è incompatibile con le attività coessenziali alle funzioni di governo, com’è che questa incompatibilità non è stata prevista quando si tratta di testimoniare?”. Inoltre ci si chiede: essendo una norma a tempo, dopo i 18 mesi gli impegni “legittimi” sono cessati o no? Le risposte vengono da se…

Qualche giorno fa Napolitano non firmò il testo che sarebbe andato a modificare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, quello che prevede la possibilità per un lavoratore di ricorrere ai giudici del lavoro nel caso in cui il licenziamento fosse stato applicato senza giusta causa. Il primo rigetto alle camere di una legge dell’attuale maggioranza. Un atto che fece già pensare ad una probabile promulgazione del ddl sul legittimo impedimento. Difatti, due rinvii alle camere consecutivi sarebbero stati sorprendenti per Napolitano. Insomma, una sorta di boccata di ossigeno prima di una nuova firma a favore del Premier.

Se poi lo stesso Napolitano afferma che è inutile non firmare una legge in quanto se la presentano una seconda volta è obbligato a firmarla, qualche problema sorge. Bisognerebbe infatti spiegare che ci si può dissociare da un abuso. Ci si può dimettere. O anche il semplice rinvio è un segnale forte e importante nei confronti della maggioranza. Il garante della Costituzione non può firmare norme palesemente incostituzionali.

Neppure le rivelazioni di Scalari riguardo le liti Ciampi-Berlusconi sembrano aver fatto breccia nell’attuale Presidente della Repubblica. Il giornalista, fondatore di La Repubblica, racconta infatti due episodi in cui Ciampi disse entrambe le volte “no” a Berlusconi, riferendosi alla promulgazione della legge Gasparri e alla nomina di tre giudici della Consulta. “No” che fecero infuriare il Presidente del Consiglio. Gli stessi “no” che oggi si auspicherebbero dal Presidente della Repubblica, nonché garante di una costituzione, che ormai trasversalmente si ha intenzione di stravolgere.

Questa promulgazione, infatti, dà il via a una serie di cambiamenti strutturali delle istituzioni. Oltre alla legge sulle intercettazioni prossima ventura (a cui Berlusconi tiene molto), la giustizia, la par condicio, le istituzioni si preparano a una grossa mutazione. È dell'altro ieri, infatti, la dichiarazione del ministro della Semplificazione, Calderoli, che ha affermato il raggiungimento di un “grande risultato”: cioè un metodo da seguire per le grandi riforme. I ministri competenti predispongano un testo che passa poi al tavolo dei coordinatori dei partiti, per un esame preliminare; il tutto approda poi al Consiglio dei Ministri e quindi in Parlamento. “Tutto quello che c’è da fare nel campo delle riforme - ha detto Calderoli - seguirà questo percorso”. “Il risultato é importante - ha sottolineato il ministro del Carroccio - perché adesso c’è un metodo concreto e condiviso su cui lavorare in tempi rapidi”. Segue a ruota Bersani: “Varare subito il Senato federale e il taglio del numero dei parlamentari”. Come dire, noi ci siamo. E la firma di Napolitano pure.


 


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