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di Mariavittoria Orsolato
Ormai immancabili in ogni scandalo politico che si rispetti, spuntano le escort anche nella maxi inchiesta sul G8 della Maddalena, sui Grandi eventi e sulla scuola marescialli di Firenze. Sarebbero state circa 350, tutte d’alto bordo e con listini che non scendevano sotto i 500 euro, ragazze reperite tramite vie sicure, come internet, oppure reclutate tra il sottobosco di quella Roma bene a cui attingono anche politici, calciatori, attori e imprenditori. Squillo italiane ma anche russe, brasiliane o cubane da portarsi dietro in ogni occasione: ai ricevimenti, alle serate ufficiali, alle inaugurazioni e persino ai sopralluoghi dei lavori del G8 tra Sardegna, Lazio e Toscana.
Finora le escort citate nei faldoni delle inchieste di Perugia e Firenze si contavano sulle dita di una mano ma le intercettazioni telefoniche hanno reso chiaro che questo tipo di sollazzo era un vero e proprio sistema per ingraziarsi quella “cricca” di funzionari di Stato utili alle assegnazioni degli appalti milionari, Balducci escluso ovviamente. I carabinieri del Ros di Firenze devono infatti ringraziare il provveditore alle opere pubbliche della Toscana, Fabio De Santis, e il suo imperdonabile cattivo gusto: ascoltandolo bullarsi con gli amici sulle prestazioni di questa o quella ragazza, sono arrivati a scoprire come le “zoccole” - così gentilmente apostrofate dagli utilizzatori finali - fossero impiegate alla stregua di bustarelle in carne (tanta) ed ossa. I magistrati hanno infatti ribadito come “l’attività di indagine fino a questo momento svolta ha evidenziato la sistematicità con la quale le persone poste ai vertici delle società e coinvolte nel presente procedimento, sono incorse allo strumento della corruzione per ottenere l’aggiudicazione di appalti pubblici”.
A pagare le discrete ragazze non sarebbe però stato il solo Diego Anemone, già demiurgo della lobby interessata ai favori della pubblica amministrazione e incarcerato un mese fa per lo scoppio dell’affaire Bertolaso; secondo gli inquirenti ci sarebbe anche “qualcun altro” molto vicino a Balducci “e agli ambienti politico-economici di ben precisi personaggi finiti sott’inchiesta”. Come Guido Ballari, l’imprenditore pasticcione che dopo aver procacciato un appuntamento con una casalinga disperata della Balduina, chiama De Santis per dirgli: “Minchia Fabio, siamo stati fortunati, cinque minuti dopo che sei uscito da quella casa è rientrato il marito…Sai che casino succedeva?”. Noblesse oblige.
Le indagini dei magistrati perugini e fiorentini proseguono però anche in direzione interna: se infatti è ormai appurato che il procuratore Achille Toro ha effettivamente intralciato le indagini dei carabinieri del Nucleo Ecologico (non accordando i permessi per le intercettazioni), da quanto si apprende anche il procuratore capo Giovanni Ferrara era restio a procedere nei confronti della “cricca”. Secondo i verbali del pm Assunta Cocomello, “il dottor Ferrara e il dottor Toro segnalavano la necessità di individuare il passaggio di somme di denaro... Al massimo individuavano elementi per ipotizzare un abuso d’ufficio. Il dottor Ferrara mi ha anche responsabilizzato in ordine alla delicatezza dell’indagine in relazione a una eventuale fuga di notizie in pieno G8”. Tutte queste reticenze hanno necessariamente indispettito i carabinieri del Noe al punto che l’11 febbraio, al momento del passaggio dell’inchiesta nelle mani della Guardia di Finanza, hanno deciso di mettere per iscritto i loro dubbi in una nota riservata al comando.
Quello che emerge dalle procure di Firenze e Perugia assomiglia quindi sempre più alla trama di un romanzo noir e gli ingredienti per una narrazione avvincente ci sono tutti: ragazze, intrallazzi, sbirri e soldi, tanti, tantissimi soldi. Che però ad emergere sia solo la parte più “hot” - quella in grado di solleticare le viscere e non di certo le coscienze - è un dato di fatto che si dovrebbe assumere ai fini di un collettivo esame di coscienza. Rispetto al 1992, a quella Tangentopoli che fece tremare i pilastri della politica e della società di un’Italia esiziale nel suo marciume, nulla è praticamente cambiato; l’unica differenza è che ora, al posto delle bustarelle, si usano ventenni moldave o ucraine perché “parlano poco e non sono tipe che sbroccano e fanno casino”.
Toppa storicamente chi, come lo storico Paolo Mieli, afferma che “il tappo sta per saltare”: dal 1992 ad oggi non c’è stato nessun tappo da far saltare, nessun freno ad ostacolare una deriva che, prima di essere politica, è umana e morale. Votiamo allora per un referendum abrogativo della Merlin: i casini non han senso di rimanere chiusi quando le orge si fanno ormai a cielo aperto.
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di Mariavittoria Orsolato
Esattamente otto anni fa, il 23 marzo del 2002, circa tre milioni di persone si riunirono al Circo Massimo di Roma per difendere il loro diritto al lavoro e per tutelare soprattutto l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, messo in pericolo dalle mire riformiste del secondo governo Berlusconi. Quello per cui allora battagliò il sindacalista Cofferati, era in sostanza la possibilità per un lavoratore di ricorrere ai giudici del lavoro nel caso in cui il licenziamento fosse stato applicato senza giusta causa: il risultato della battaglia tra sindacato e governo fu un successo per la Cgil e una piccola grande vittoria per gli stipendiati. Ma questa ormai è storia e purtroppo gli avvenimenti recenti hanno preso tutt’altra piega.
Lo scorso mercoledì, dopo quasi 2 anni di dibattimento, il Senato ha infatti approvato con 151 voti favorevoli, 83 contrari e 5 astenuti il ddl sulla riforma del lavoro che, oltre a contenere norme sui lavori usuranti, ammortizzatori sociali e apprendistato (che ora potrà iniziare a 15 anni, sottraendo di fatto un anno all’obbligatorietà della pubblica istruzione), comprende anche una sostanziale modifica proprio a quell’articolo 18 per cui tanto si è lottato. All’articolo 31 possiamo infatti leggere come le controversie scatenate dal licenziamento arbitrario potranno essere risolte anche da un arbitro, in alternativa al giudice. Per quelli che non lo sapessero, gli arbitri sono privati cittadini - e non organi giurisdizionali - cui è affidato il compito di decidere sulle contese non tanto secondo la legge vigente ma in base al criterio di equità; la nomina di questi arbitri può essere poi affidata alle parti in causa o a terzi, e solo in rari casi è preposta dall’autorità giudiziaria.
Il modello è quello anglosassone e contempla la possibilità che già nel contratto di assunzione - anche in deroga ai contratti collettivi - possa essere stabilito, tramite clausola compromissoria, il ricorso a queste figure extragiudiziali in caso di contrasto tra le parti. Ad esempio, se un giudice ritiene che un lavoratore sia stato licenziato senza una giusta causa, in base all’articolo 18, deve necessariamente reintegrarlo al suo posto: ma se per contratto la scelta di risoluzione è affidata agli arbitri, questi decidendo sul principio di equità potrebbero semplicemente sanzionare l’azienda e risarcire con una cifra forfettaria il lavoratore; perciò, a differenza del giudice, è molto difficile che un arbitro reintegri il dipendente al suo posto. Inoltre, quella dell’arbitrato ha in sé un ulteriore ostacolo di natura economica: se per la via giuridica ordinaria è sempre stata garantita la gratuità per legge, il ricorso agli arbitri ha dei costi che devono essere interamente sostenuti dalle parti in causa.
Ora, che la nuova norma sia penalizzante per i lavoratori è evidente, resta da capire in quale misura. Il fatto che la scelta del campo in cui risolvere la questione avvenga al momento della firma del contratto di lavoro, denota chiaramente come la nuova norma sia tutt’altro che a tutela del potere negoziale dei salariati: messi di fronte alla scelta di adeguarsi o andarsene, i dipendenti saranno costretti ad accettare le regole dei datori di lavoro, pur consapevoli di dover giocare al ribasso in un meccanismo in cui la loro professionalità non avrà tutele garantite in sede giudiziaria. La riforma approvata in Senato pare quindi essere l’ennesimo regalo a quei “capitani coraggiosi” che, pur avendo ridotto ad uno sfacelo la già martoriata economia nazionale, godono ancora di alto riguardo agli occhi della classe politica: agendo sulla base e non sui vertici si perpetra inevitabilmente quell’assunto di ingiustizia sociale secondo cui solo chi può permetterselo, può decidere di rifiutare le regole imposte.
Con questa manovra il Governo ha di fatto aggirato l’ostacolo dello scontro a viso aperto con la categoria: “Questa volta - sostiene Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil - è peggio rispetto al 2002: allora l'attacco all'articolo 18 fu diretto ed era semplice spiegarlo ai lavoratori. Ora l'aggiramento va ben oltre l'articolo 18, impedendo addirittura di arrivare al giudice del lavoro”.
I sindacati però, pur avendo un patrimonio di oltre 10 milioni di iscritti, paiono impietriti di fronte a quella che sempre di più pare una politica del lavoro deviata ad uso e consumo di Confindustria e il fatto che la loro prima reazione al provvedimento sia stata una seppur amara constatazione, denota la manifesta disaffezione a quella che dovrebbe essere la primaria missione dell’attività sindacale: la tutela dei lavoratori. Che poi la categoria sia una specie in via d’estinzione lo dicono i numeri: la maggior parte dei contratti siglati riguarda le collaborazioni a progetto e si risolve in un’occupazione precaria, mal pagata e spesso degradante dal punto di vista delle relazioni umane.
L’Italia del lavoro ha compiuto l’ennesimo passo indietro, ma la politica ora preferisce pensare ai bordelli per gay, alle liste scippate e ai centri di massaggio tailandese per i protettori civili: di questa controriforma del lavoro ci sarà modo di parlare più avanti. Peccato che allora i lavoratori non avranno più nulla di cui discutere relegati, come saranno e già sono, alla cieca accettazione in nome dell’agognato “tozzo di pane”.
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di Rosa Ana De Santis
Napolitano ha firmato il decreto salva-liste. Gli uffici del Quirinale sono rimasti aperti fino alla tarda notte di venerdì per licenziare il testo uscito poche ore prima del Consiglio dei Ministri. Polemiche violente da parte dell’Italia dei Valori, che minaccia una mozione contro il Presidente della Repubblica. Secondo il Presidente della Camera, Fini, non esiste alcun fondamento per la richiesta di Di Pietro di invocare l’impeachment. Napolitano, in perfetta coerenza con i compiti che gli attribuisce la Costituzione, non avendo riscontrato alcun sospetto d’incostituzionalità in questa bega interpretativa di legge e procedure ordinarie, non avrebbe potuto opporsi se non esercitando una forzatura sulla macchina istituzionale. Tutto vero sul filo della rigorosa interpretazione della Magna Charta.
Forse però, verrebbe da aggiungere, qualcosa Napolitano avrebbe potuto farlo. Assecondare la sola interpretazione formale della democrazia e della forma repubblicana, soprattutto quando il governo, questo governo, è il primo ad averla indigesta e a non ossequiarla, se non per proprio comodo come in questo caso, significa perdere di vista la democrazia sostanziale.
I nervi del diritto e delle garanzie. Se questo episodio rende anche solo pensabile che la legge possa essere non soltanto aggirata, ma declinata di volta in volta, secondo i particolarismi e le ragioni delle parti, c’è il rischio che l’idea stessa della legge s’indebolisca e che passi l’idea che il governi possa piegarla alla propria causa. Va in fumo così la storia di chi ha creduto che sovrana fosse la legge più degli stessi sovrani.
L’opposizione si è data appuntamento a sabato 13 marzo. Con tutta calma e per dare meno fastidio possibile, verrebbe da dire. Chissà che proprio il vuoto politico dell’opposizione non abbia influenzato le scelte del Quirinale. L’unica vittoria di negoziato è stata quella di convertire il testo del decreto da innovativo - com’era uscito dalle mani del Governo - a interpretativo, che sembrerebbe voler rimanere circoscritto al pasticcio del Lazio e della Lombardia. Intanto, il Tar lombardo ha accolto la richiesta di sospensiva presentata da Formigoni e, in attesa di pronunciarsi nel merito, ha intanto riammesso il listino del presidente della regione uscente. Formigoni, conscio di quello che comporterà tra gli elettori il decreto governativo appena licenziato, si è affrettato a dire che lui non ne aveva bisogno.
L’eccezione alle regole ha comunque trovato la sua benedizione ed è doveroso chiedersi quali conseguenze questo potrebbe avere per gli esclusi del passato e per quelli delle prossime elezioni. Si procederà ogni volta con la creazione ad arte di leggine su misura per salvare gli sconfitti o, più semplicemente, gli analfabeti delle regole del gioco in democrazia? E quando dovesse essere il turno della coalizione di centro sinistra, chi si muoverà per fare lo stesso imbroglio?
Tutto sommato, stando alle prime percentuali di orientamento di voto nel Lazio, ad esempio, è andata bene così. Ai cittadini questo sfacciato intervento per sabotare le regole non è piaciuto troppo. Sono in calo le preferenze per le liste della Polverini e, se la Bonino rimarrà al suo posto, senza inseguire le petizioni ossessive del suo partito, forse il confronto elettorale può dirsi ancora aperto. Vincere senza il PDL a Roma sarebbe stata forse l’anticamera di un’invivibile governabilità della Regione e per il centro sinistra poteva diventare una vittoria di Pirro. Durerebbe poco tempo e senza speranza. La vittoria degli uomini di Berlusconi porterà invece, ancora una volta, il peso e l’incognita di una vistosa intolleranza alle regole della società democratica e l’equazione volgare tra il consiglio dei ministri e un cda aziendale. Un’affronto alla dignità delle Istituzioni che, prima o poi, avrà bisogno del coraggio degli uomini di Stato. I pochi rimasti.
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di Giovanni Cecini
Fino ad ora poco si è parlato dell’imminente sciopero generale indetto dalla Cgil per il prossimo 12 marzo. In effetti è un provvedimento nato da lontano, se si considera l’ampia e costante attività del principale sindacato nazionale verso le politiche dell’occupazione, in una visione globale riguardante i diritti sociali e le risposte contro la crisi. Questo appuntamento rappresenta un importante banco di prova per testare la reazione dei lavoratori dipendenti, settore sensibile del Paese in tempo di crisi economica e, per questo, spesso laboratorio di mostruosi esperimenti contrattuali.
A tutto ciò si aggiunge la recente astensione dal lavoro degli stranieri residenti, altro strato sociale disagiato, ma non sempre adeguatamente rappresentato. I fenomeni di Rosarno hanno sì acceso più di un riflettore sulla problematica, che agli occhi dei più rasenta la schiavitù, ma non abbastanza per avviare una serie riflessione umana prima che sociale e politica. La realtà é che gli immigrati sono allo stesso tempo una preoccupazione in termini elettorali, soprattutto per consistenti frange conservatrici e xenofobe del Governo, ma anche una preziosa e indispensabile risorsa, se su di essi si basa una pesante fetta del Pil nazionale e dei relativi tributi e contribuzioni.
Nella logica globale - o più semplicemente continentale - lo spettro della Grecia è presente in modo costante e le colpe dei finanzieri sono puntualmente pagate dai comuni cittadini. Anche per questi motivi lo sciopero rappresenta un appuntamento serio e di valore, proprio alla vigilia per la Cgil di un Congresso nazionale, in cui la presenza di due mozioni contrapposte sta scaldando oltre misura la temperatura delle assemblee di base.
Di fronte al segretario confederale uscente, Guglielmo Epifani, si è schierata una variegata formazione capeggiata da Domenico Moccia, Carlo Podda e Gianni Rinaldini, rispettivamente segretari delle Federazioni sindacali del credito e assicurazioni, della funzione pubblica e dei metalmeccanici. Alla luce delle posizioni proposte, più che una fase congressuale costruttiva e innovativa, sembra in realtà un confuso assalto alla diligenza dell’unica istituzione di Sinistra rimasta in Italia.
Dopo le ripetute frammentazioni partitiche post Ulivo-Unione e la scomparsa politica di alcune storiche formazioni dagli scranni parlamentari, la possibilità di lacerare dall’interno anche la Confederazione Generale Italiana del Lavoro rappresenterebbe, oltre a un’azione sciocca, l’ennesima e ultima azione masochista tanto in voga tra i cosiddetti “sinistrati”. A ben vedere la contrapposizione, secondo l’opinione della tanto ricercata generazione dei giovani sindacalisti, non sarebbe costruttiva, perché incentrata su logiche di segreteria, più che di reazione organica allo stato di crisi e all’unilateralismo nei quali Governo e Confindustria esprimono interessi egoistici, facendo ricadere il costo delle scelte su lavoratori e pensionati. Anche qui, le grida dei dimostranti ellenici sono ammonitrici, se proprio in questi giorni ad Atene si parla d’inasprimenti «all’italiana» dopo i rincari su benzina, tabacchi ed alcolici.
In questo clima si rischia di perdere l’obiettivo democratico del Congresso Cgil, ossia quello di selezionare la migliore classe dirigente e poter rispondere alle reali esigenze sociali ed economiche di un Paese che, spesso, fa della burocrazia e dell’illegalità diffusa i capri espiatori per la mancanza di serie riforme strutturali. Di fronte a una carrellata incessante di provvedimenti legislativi e contrattuali, sbandierati come rinnovamenti e cambiamenti, l’Italia, anno dopo anno, ha perso credibilità internazionale, quote di mercato a vantaggio delle realtà emergenti e, non da ultimo, il potere d’acquisto di quello che si chiamava ceto medio, impoverito oltre misura.
Ecco perché esaminando la mozione - cosiddetta riformatrice - dei vari Moccia, Podda e Rinaldini, verrebbe da chiedersi in che modo le rispettive Federazioni sindacali (Fisac, Fp e Fiom) stanno reagendo allo smantellamento dei contratti nazionali e, da ultimo, alle forme privatistiche tra aziende e singoli lavoratori per esonerare le prime dagli obblighi contenuti dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Dopo i casi di Fiat, Alcoa, Yamaha, la precarizzazione di scuola e funzione pubblica in genere, gli accordi di Intesa Sanpaolo rivolti ad assumere cassintegrati, ma a condizioni subcontrattuali, ci sembra di essere entrati in una giungla, in un sistema darwiniano dove solo l’umiliazione salariale e dei diritti dei singoli può garantire un posto di lavoro, a patto che poi sia comunque liquidabile unilateralmente e senza un adeguato sistema di ammortizzatori sociali.
Tutto ciò dovrebbe essere la priorità del Congresso, che si svolgerà a Rimini il prossimo maggio, dove una Cgil rafforzata dallo sciopero, sanando quel conflitto tra anziani e giovani al suo interno, riaffermerebbe quella concordia sociale che deve essere raffermata tra padri e figli, spezzando quel divario generazionale che, ormai da anni, si sta sviluppando nel nostro sistema giuslavorista.
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di Nicola Lillo
Anche la prostituzione nell’indagine sulla “cricca” che gestiva i Grandi eventi. Per di più, con il coinvolgimento di un uomo legato al Vaticano. In un capitolo dell’informativa dei carabinieri, si evidenzia come “l’ingegner Balducci, per organizzare incontri occasionali di tipo sessuale, si avvale dell’intermediazione di due soggetti che si ritiene possano far parte di una rete organizzata, operante soprattutto nella capitale, di sfruttatori o comunque favoreggiatori della prostituzione maschile”. Su questo punto è stata avviata un’indagine parallela, frutto di numerosissimi messaggi sms, intercettazioni che riguardano i costumi sessuali di Angelo Balducci, ex numero uno del Consiglio dei Lavori Pubblici in carcere nell'ambito dell'inchiesta sui Grandi eventi.
Il tutto si concentra sull’attività di Chinedu Thiomas Ehiem, il corista nigeriano della Cappella Giulia, o anche “reverenda Cappella Musicale della Sacrosanta Basilica Papale di San Pietro”. Sarebbe lui, insieme a Lorenzo Renzi, residente nella capitale, ad offrire le prestazioni dei ragazzi, per lo più stranieri, in cambio di soldi e favori. All’anagrafe di Roma il corista è registrato come “religioso”, anche se in Vaticano hanno precisato: “Chinedu non è un religioso, né un seminarista”. La reazione della Santa Sede è stata immediata, con la cacciata dal coro del giovane nigeriano.
Ma non sembra finire qui. Dalle intercettazioni risultano anche coinvolti alcuni seminaristi, invischiati nei festini gay. In un’intercettazione si legge, infatti, la domanda di Balducci ad Ehiem: “A che ora deve ritornare in Seminario?”. E nell'inchiesta compare anche il nome dell'ex direttore del Sismi, Nicolò Pollari, grande guru delle barbe finte deviate. A che titolo e con quali responsabilità lo vedremo (forse).
Balducci intratteneva rapporti stretti con il Vaticano. È il direttore del Tg1, Augusto Minzolini a riferirlo. Tra i due intercorrevano ottimi rapporti. In un’intercettazione è lo stesso Balducci a chiedere un favore a Minzolini per suo figlio (attore in un film Rai), favore poi concretizzatosi con un’intervista di Mollica. “Sì, ma il film che interpretava era importante, e mi pare fosse Rai”, si difende così Minzolini, aggiungendo che “Balducci era una mia ottima fonte in Vaticano. Mi dette quindici giorni prima la notizia della nomina di Bagnasco. Una volta cenai da lui con monsignor Sandri. Diego Anemone l’ho conosciuto attraverso di lui. Ma sono contatti di lavoro. Mi invitavano alla partita, ma per fortuna io non vado mai. Magari per telefono posso averlo chiamato “tesoro”. Ma lo faccio con tutti. Non vorrei passare per…”.
Inoltre Balducci faceva parte di quel gruppo che un tempo veniva chiamato i “Cavalieri di spada e cappa”, ora meglio noti come “Gentiluomini di Sua Santità”. Faceva dunque parte della “Famiglia Pontificia”, composta da uomini che “si distinguono per il bende delle anime e la gloria del nome del Signore”. Dopo la divulgazione di queste intercettazioni, però, è stato depennato. Membro dal 2001, oggi “non può ottemperare agli impegni di gentiluomo pontificio ed è comunque implicato in seri problemi”. Balducci non è il primo. Già Umberto Ortolani, coinvolto sia nel caso Calvi sia nella P2, fu eliminato dall’elenco degli appartenenti alla Famiglia.
Intanto, scherzo del destino, Benedetto XVI sabato riceverà volontari e personale della Protezione Civile. Un appuntamento fissato già prima dell’inchiesta. Ma che lascia un certo imbarazzo nella Santa Sede.