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di Ilvio Pannullo
Dopo l’approvazione del cosiddetto decreto “salva Alcoa” si esulta con cautela per le pendenze relative al caso della multinazionale americana dell’alluminio con sede in Sardegna. Si tratta, in particolare, del decreto legge che vuole incrementare la sicurezza del sistema elettrico nelle Isole maggiori (Sardegna e Sicilia) consentendo così di evitare eventuali black-out. Un provvedimento conosciuto anche come “salva Alcoa”, perché la multinazionale americana dell'alluminio è fra i clienti che possono ottenere un beneficio in termini di minor costo dell'energia per il triennio, accedendo al servizio di interrompibilità, ossia il servizio che consente, nei luoghi dove ce ne è bisogno, come appunto le isole, di mantenere in equilibrio il rapporto tra produzione di energia e consumi.
L’unico possibile intralcio alla buona riuscita dell’operazione è la possibilità, assolutamente concreta, che la Commissione Europea interpreti l’operazione come un aiuto di Stato simulato e ne revochi l’efficacia, condannando lo Stato italiano all’abrogazione del provvedimento e l’azienda americana a pagare quanto indebitamente risparmiato. Questa eventualità, tutt’altro che remota, porterebbe inevitabilmente alla chiusura degli stabilimenti sardi con conseguenze disastrose per l’economia di dell’intera regione.
''Vediamo quali sono i chiarimenti dell'Italia alle richieste della Commissione, ma il clima mi pare abbastanza positivo, il primo incontro è andato bene''. E' il commissario europeo all'Industria Antonio Tajani a riassumere così il punto sulla vertenza Alcoa. Pare dunque si possa ancora sperare. Per il polo industriale di Portovesme, nella costa sudoccidentale della Sardegna, arrivano tuttavia due notizie contrastanti. Da una parte la multinazionale americana leader nel settore dell'alluminio che ha deciso di ritirare la cassa integrazione, rinunciando dunque chiudere lo stabilimento almeno per i prossimi sei mesi. Una boccata d'ossigeno a termine, insomma, che non sembra essere all'orizzonte per i lavoratori dell'altro stabilimento a rischio, l’Euralluminia, della russa Rusal, che ha annunciato la proroga della cassa integrazione per un altro anno. Ciò significa che i lavoratori - un migliaio tra diretti e imprese d'appalto - vedranno prorogare la cassa integrazione per un altro anno. Questo perché, a differenza dell'Alcoa, per Eulalluminia il problema non è legato ai costi energetici ma gli alti costi dell'olio combustibile del carbon coke. Il futuro dell’alluminio in Sardegna appare dunque tutt’altro che roseo.
Nonostante infatti sul versante Alcoa la produzione sarà assicurata sino ad agosto, parlare di vittoria sarebbe davvero eccessivo. Lavoratori e sindacati mostrano cauto ottimismo e richiedono che le istituzioni, governo e regione in testa, inizino a lavorare subito per trovare una soluzione nel caso in cui, fra sei mesi, la multinazionale americana dovesse decidere di smobilitare. "Questo risultato è stato accolto con piacere per il semplice fatto che l'alternativa era la chiusura - commenta Fabio Enne, segretario generale della Femca Cisl del Sulcis Iglesiente - ma non possiamo parlare di una vittoria su tutti i fronti, in quanto il nostro obiettivo è la prospettiva di lungo periodo incentrata sulla produzione di alluminio primario, settore importante che non va perduto".
Nel Sulcis Iglesiente e nella città capoluogo, Iglesias, in particolare, l'attività estrattiva è stata infatti per secoli la linfa vitale del tessuto economico. Cessata quell'epoca e chiuse anche le ultime gallerie, a fine anni 90 si è posto il problema della riconversione; lo Stato italiano pensò che l'erogazione di finanziamenti a chi si fosse fatto carico di avviare nuove attività fosse la soluzione migliore. In tanti si sono aggrappati a quella speranza, centinaia di lavoratori hanno iniziato a guardare al futuro con più ottimismo. Un errore colossale. Quella che era stata ribattezzata "la nuova vita industriale" di questo pezzo di Sardegna, si è rivelato in realtà un tremendo inganno.
Il denaro pubblico che avrebbe dovuto tradursi nel lavoro per almeno 500 persone in un'area considerata depressa, si perse tra i mille caporali della tristissima catena di comando del potere italiano . Gli elenchi delle società che avrebbero dovuto creare nuova ricchezza, producendo beni alternativi, sono lunghissimi: si va dalla "carboroll" , che avrebbe dovuto produrre sedie a rotelle; alla "Frejus", la fabbrica di biciclette da esportare in tutto il mondo; alla Binex passando per la "New Stone" che avrebbe dovuto lavorare marmi e lapidei provenienti dalle cave della Sardegna. Nell'elenco c'è anche la "Fgold" proveniente dalla privatizzazione di una delle aziende legate all'ente minerario sardo oramai disciolto. Una catena di fallimenti industriali che si trascina fino ad oggi con il caso della multinazionale dell'alluminio americana.
"Dopo la chiusura delle miniere e le erogazioni di fondi pubblici si è scatenata una vera e propria caccia al tesoro - osserva sempre il segretario generale della Femca Cisl Sulcis Iglesiente Fabio Enne - ma purtroppo non siamo stati in grado di effettuare un'attenta operazione di controllo sugli imprenditori che hanno ricevuto i finanziamenti. La riconversione è fallita per una serie di leggerezze: quella più grande è che le iniziative proposte non sono state abbastanza monitorate per verificare se fossero realmente confacenti ai bisogni del territorio. Miliardi di vecchie lire dati a società che hanno speculato senza produrre nulla. Se avessimo in piedi quei progetti avremo settecento posti di lavoro in più. C'è stato un vero sciacallaggio ai danni dei lavoratori e dell'intero territorio".
A detta di Pierluigi Carta, sindaco di Iglesias, l'errore più grosso è stato quello di "non diversificare l'economia e non esercitare la democrazia reale, affidando lo sviluppo del territorio ai burattinai senza scrupoli. Una volta era la miniera, poi le partecipazioni statali e infine i manager. Non è cambiato nulla. Centocinquanta anni di egemonia mineraria, da una parte hanno costruito su Iglesias un moderno sistema industriale e attratto ingenti flussi finanziari; dall'altra hanno finito per limitare fortemente la portata delle altre attività economiche tradizionali della cultura imprenditoriale, impedendo lo sviluppo di un sistema di anticorpi collettivo che riuscisse a difendersi dai mutamenti sempre più veloci dello scorso e del presente secolo".
In una situazione tanto drammatica, in un territorio caratterizzato da una monocultura produttivo-industriale, l'unica alternativa possibile è ricavare dal passato quel patrimonio di memoria e di identità che permetta alle comunità di programmare con orgoglio un futuro che sia sostenibile, partendo proprio dalle risorse naturali, architettoniche e culturali del territorio, così da difenderle dalla speculazione e dal degrado. Di fronte alla globalizzazione selvaggia e all'abbattimento delle barriere doganali, che impongono una competizione selvaggia tra aree economiche del mondo troppo diverse per poter essere anche solo paragonate, serve un'economia capace di sostenere settori tradizionali affiancandoli con il turismo unitamente a i servizi, all'agricoltura e all'artigianato.
Ormai lo Stato non può più intervenire a sostegno delle proprie imprese e dunque a sostegno dell'occupazione sul proprio territorio, essendo l'ordinamento italiano ormai inscritto in una cornice ben più complessa e sofisticata, quale quella dell'ordinamento comunitario. E’ quindi necessario fare è il coordinamento di tutte le istanze produttive legate al territorio e finalizzate allo sviluppo ed al benessere degli stessi territori su cui insistono gli stabilimenti produttivi, non all'esportazione verso mercati lontani anni luce di distanza dai confini italiani. L’alternativa è la depressione economica, sociale e mentale di una terra nota in tutto il mondo per le sue bellezze.
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di Rosa Ana De Santis
I respingimenti voluti dal governo non hanno fatto scendere i numeri degli irregolari e hanno invece leso diritti umani e politici. Non è questione di propaganda politica, ma di numeri. La fruibilità del diritto d’asilo, che sarà bene ricordare figura nei dodici principi fondamentali con cui si apre la Costituzione Italiana, è in brusca diminuzione. A dirlo è Laurens Jolles, rappresentante dell’Unhcr per l’Europa meridionale. Le cifre parlano fin troppo chiaro: se nel 2008 le domande giunte all’Italia erano 30.492, nel 2009 sono state 17.603. Nel resto d’Europa i numeri sono invece rimasti stabili, mentre in Francia e Germania sono persino aumentati. Segno che l’inversione di rotta politica è tutta italiana e di questo governo.
Quello che accade tra l’Italia e la Libia e i respingimenti in mare hanno portato a questo. Tutti i respinti nel maggio 2009 erano richiedenti diritto d’asilo. Probabilmente non tutti avrebbero avuto i requisiti per averlo, ma il respingimento indiscriminato ha leso un diritto riconosciuto senza alcuna verifica di merito, rispondendo soltanto all’ossessione di sgombrare le coste e i centri di espulsione. I paesi da cui queste persone fuggono continuano ad essere quelli di sempre. La Somalia, ad esempio, da cui sono scappati l’anno scorso, dalla sola Mogadiscio, 250 mila civili per gli attacchi sferrati dai gruppi armati. Così la Libia e il suo regime “amico” del nostro Berlusconi o l’Eritrea. Eppure gli sbarchi sono calati drasticamente. Segno evidente che qui il diritto d’asilo non esiste. Soltanto l’anno scorso il 50% delle domande sono state accolte. Tutte persone che oggi rimangono in mare o vanno altrove.
L’Alto commissariato Onu per i rifugiati, numeri alla mano, obbliga ad una riflessione che in realtà la cronaca già ci ha messo sotto gli occhi. La fotografia che possiamo fare su tutti i nostri immigrati, quale che sia la causa della loro diaspora, è che possono rimanere qui ed essere tollerati da un clima culturale che non li vuole, ma ne ha bisogno, a patto che siano invisibili. E per essere invisibili, devono rimanere clandestini. Sostare stagnanti nell’illegalità. E’ così che Rosarno non è un fattaccio isolato di cronaca, ma un paradigma di comportamento generalizzato. E’ così che si può lasciare sommerso il razzismo e svenderlo come un’esagerazione di qualcuno, non come una scientifica e organizzata opera del male.
Pensiamo a Mantova e alla squadra degli skinhead. Ed è così che lo sciopero delle braccia dei lavoratori stranieri nessuno l’ha visto né sentito, come se fossero in pochi, pochissimi a lavorare per noi o al posto nostro. Talmente invisibili che nemmeno i loro figli a scuola e il loro diritto di studio vale di più del diritto di “tutelare” il territorio dall’immigrazione clandestina. Se persino i minori non ricevono una speciale tutela, soprattutto pensando che proprio da loro può partire un serio tentativo di costruire l’integrazione, il capolavoro è fatto.
Per quanto non sia consolidata la giurisprudenza su questi temi, il dato chiaro che emerge e che evidenzia in un intervento di commento alla sentenza della Cassazione Gianfranco Schiavone, membro del Consiglio direttivo dell’Asgi (Associazione italiana studi giuridici sull’immigrazione), è che è lo status di straniero a prevalere su qualsiasi altro diritto. L’espulsione è l’azione da privilegiare. A danno di Convenzioni Internazionali e di diritti costituzionali.
L’isolamento italiano è consumato. Una lingua di terra protesa nel mare che rifiuta il linguaggio dell’accoglienza. Quello che del mare è figlio. Un paradosso che disegna bene i contorni incerti di questo Paese. Un paese di vecchi che i figli numerosi ha preferito cacciarli via. Con le loro cartelle, con i genitori che lavorano per noi. A molti di questi non abbiamo permesso nemmeno di chiederci aiuto. Solo perché come scriveva nel secolo scorso Max Frisch sull’immigrazione, “cercavamo braccia, e sono arrivate persone”.
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di Mariavittoria Orsolato
Ormai immancabili in ogni scandalo politico che si rispetti, spuntano le escort anche nella maxi inchiesta sul G8 della Maddalena, sui Grandi eventi e sulla scuola marescialli di Firenze. Sarebbero state circa 350, tutte d’alto bordo e con listini che non scendevano sotto i 500 euro, ragazze reperite tramite vie sicure, come internet, oppure reclutate tra il sottobosco di quella Roma bene a cui attingono anche politici, calciatori, attori e imprenditori. Squillo italiane ma anche russe, brasiliane o cubane da portarsi dietro in ogni occasione: ai ricevimenti, alle serate ufficiali, alle inaugurazioni e persino ai sopralluoghi dei lavori del G8 tra Sardegna, Lazio e Toscana.
Finora le escort citate nei faldoni delle inchieste di Perugia e Firenze si contavano sulle dita di una mano ma le intercettazioni telefoniche hanno reso chiaro che questo tipo di sollazzo era un vero e proprio sistema per ingraziarsi quella “cricca” di funzionari di Stato utili alle assegnazioni degli appalti milionari, Balducci escluso ovviamente. I carabinieri del Ros di Firenze devono infatti ringraziare il provveditore alle opere pubbliche della Toscana, Fabio De Santis, e il suo imperdonabile cattivo gusto: ascoltandolo bullarsi con gli amici sulle prestazioni di questa o quella ragazza, sono arrivati a scoprire come le “zoccole” - così gentilmente apostrofate dagli utilizzatori finali - fossero impiegate alla stregua di bustarelle in carne (tanta) ed ossa. I magistrati hanno infatti ribadito come “l’attività di indagine fino a questo momento svolta ha evidenziato la sistematicità con la quale le persone poste ai vertici delle società e coinvolte nel presente procedimento, sono incorse allo strumento della corruzione per ottenere l’aggiudicazione di appalti pubblici”.
A pagare le discrete ragazze non sarebbe però stato il solo Diego Anemone, già demiurgo della lobby interessata ai favori della pubblica amministrazione e incarcerato un mese fa per lo scoppio dell’affaire Bertolaso; secondo gli inquirenti ci sarebbe anche “qualcun altro” molto vicino a Balducci “e agli ambienti politico-economici di ben precisi personaggi finiti sott’inchiesta”. Come Guido Ballari, l’imprenditore pasticcione che dopo aver procacciato un appuntamento con una casalinga disperata della Balduina, chiama De Santis per dirgli: “Minchia Fabio, siamo stati fortunati, cinque minuti dopo che sei uscito da quella casa è rientrato il marito…Sai che casino succedeva?”. Noblesse oblige.
Le indagini dei magistrati perugini e fiorentini proseguono però anche in direzione interna: se infatti è ormai appurato che il procuratore Achille Toro ha effettivamente intralciato le indagini dei carabinieri del Nucleo Ecologico (non accordando i permessi per le intercettazioni), da quanto si apprende anche il procuratore capo Giovanni Ferrara era restio a procedere nei confronti della “cricca”. Secondo i verbali del pm Assunta Cocomello, “il dottor Ferrara e il dottor Toro segnalavano la necessità di individuare il passaggio di somme di denaro... Al massimo individuavano elementi per ipotizzare un abuso d’ufficio. Il dottor Ferrara mi ha anche responsabilizzato in ordine alla delicatezza dell’indagine in relazione a una eventuale fuga di notizie in pieno G8”. Tutte queste reticenze hanno necessariamente indispettito i carabinieri del Noe al punto che l’11 febbraio, al momento del passaggio dell’inchiesta nelle mani della Guardia di Finanza, hanno deciso di mettere per iscritto i loro dubbi in una nota riservata al comando.
Quello che emerge dalle procure di Firenze e Perugia assomiglia quindi sempre più alla trama di un romanzo noir e gli ingredienti per una narrazione avvincente ci sono tutti: ragazze, intrallazzi, sbirri e soldi, tanti, tantissimi soldi. Che però ad emergere sia solo la parte più “hot” - quella in grado di solleticare le viscere e non di certo le coscienze - è un dato di fatto che si dovrebbe assumere ai fini di un collettivo esame di coscienza. Rispetto al 1992, a quella Tangentopoli che fece tremare i pilastri della politica e della società di un’Italia esiziale nel suo marciume, nulla è praticamente cambiato; l’unica differenza è che ora, al posto delle bustarelle, si usano ventenni moldave o ucraine perché “parlano poco e non sono tipe che sbroccano e fanno casino”.
Toppa storicamente chi, come lo storico Paolo Mieli, afferma che “il tappo sta per saltare”: dal 1992 ad oggi non c’è stato nessun tappo da far saltare, nessun freno ad ostacolare una deriva che, prima di essere politica, è umana e morale. Votiamo allora per un referendum abrogativo della Merlin: i casini non han senso di rimanere chiusi quando le orge si fanno ormai a cielo aperto.
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di Mariavittoria Orsolato
Esattamente otto anni fa, il 23 marzo del 2002, circa tre milioni di persone si riunirono al Circo Massimo di Roma per difendere il loro diritto al lavoro e per tutelare soprattutto l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, messo in pericolo dalle mire riformiste del secondo governo Berlusconi. Quello per cui allora battagliò il sindacalista Cofferati, era in sostanza la possibilità per un lavoratore di ricorrere ai giudici del lavoro nel caso in cui il licenziamento fosse stato applicato senza giusta causa: il risultato della battaglia tra sindacato e governo fu un successo per la Cgil e una piccola grande vittoria per gli stipendiati. Ma questa ormai è storia e purtroppo gli avvenimenti recenti hanno preso tutt’altra piega.
Lo scorso mercoledì, dopo quasi 2 anni di dibattimento, il Senato ha infatti approvato con 151 voti favorevoli, 83 contrari e 5 astenuti il ddl sulla riforma del lavoro che, oltre a contenere norme sui lavori usuranti, ammortizzatori sociali e apprendistato (che ora potrà iniziare a 15 anni, sottraendo di fatto un anno all’obbligatorietà della pubblica istruzione), comprende anche una sostanziale modifica proprio a quell’articolo 18 per cui tanto si è lottato. All’articolo 31 possiamo infatti leggere come le controversie scatenate dal licenziamento arbitrario potranno essere risolte anche da un arbitro, in alternativa al giudice. Per quelli che non lo sapessero, gli arbitri sono privati cittadini - e non organi giurisdizionali - cui è affidato il compito di decidere sulle contese non tanto secondo la legge vigente ma in base al criterio di equità; la nomina di questi arbitri può essere poi affidata alle parti in causa o a terzi, e solo in rari casi è preposta dall’autorità giudiziaria.
Il modello è quello anglosassone e contempla la possibilità che già nel contratto di assunzione - anche in deroga ai contratti collettivi - possa essere stabilito, tramite clausola compromissoria, il ricorso a queste figure extragiudiziali in caso di contrasto tra le parti. Ad esempio, se un giudice ritiene che un lavoratore sia stato licenziato senza una giusta causa, in base all’articolo 18, deve necessariamente reintegrarlo al suo posto: ma se per contratto la scelta di risoluzione è affidata agli arbitri, questi decidendo sul principio di equità potrebbero semplicemente sanzionare l’azienda e risarcire con una cifra forfettaria il lavoratore; perciò, a differenza del giudice, è molto difficile che un arbitro reintegri il dipendente al suo posto. Inoltre, quella dell’arbitrato ha in sé un ulteriore ostacolo di natura economica: se per la via giuridica ordinaria è sempre stata garantita la gratuità per legge, il ricorso agli arbitri ha dei costi che devono essere interamente sostenuti dalle parti in causa.
Ora, che la nuova norma sia penalizzante per i lavoratori è evidente, resta da capire in quale misura. Il fatto che la scelta del campo in cui risolvere la questione avvenga al momento della firma del contratto di lavoro, denota chiaramente come la nuova norma sia tutt’altro che a tutela del potere negoziale dei salariati: messi di fronte alla scelta di adeguarsi o andarsene, i dipendenti saranno costretti ad accettare le regole dei datori di lavoro, pur consapevoli di dover giocare al ribasso in un meccanismo in cui la loro professionalità non avrà tutele garantite in sede giudiziaria. La riforma approvata in Senato pare quindi essere l’ennesimo regalo a quei “capitani coraggiosi” che, pur avendo ridotto ad uno sfacelo la già martoriata economia nazionale, godono ancora di alto riguardo agli occhi della classe politica: agendo sulla base e non sui vertici si perpetra inevitabilmente quell’assunto di ingiustizia sociale secondo cui solo chi può permetterselo, può decidere di rifiutare le regole imposte.
Con questa manovra il Governo ha di fatto aggirato l’ostacolo dello scontro a viso aperto con la categoria: “Questa volta - sostiene Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil - è peggio rispetto al 2002: allora l'attacco all'articolo 18 fu diretto ed era semplice spiegarlo ai lavoratori. Ora l'aggiramento va ben oltre l'articolo 18, impedendo addirittura di arrivare al giudice del lavoro”.
I sindacati però, pur avendo un patrimonio di oltre 10 milioni di iscritti, paiono impietriti di fronte a quella che sempre di più pare una politica del lavoro deviata ad uso e consumo di Confindustria e il fatto che la loro prima reazione al provvedimento sia stata una seppur amara constatazione, denota la manifesta disaffezione a quella che dovrebbe essere la primaria missione dell’attività sindacale: la tutela dei lavoratori. Che poi la categoria sia una specie in via d’estinzione lo dicono i numeri: la maggior parte dei contratti siglati riguarda le collaborazioni a progetto e si risolve in un’occupazione precaria, mal pagata e spesso degradante dal punto di vista delle relazioni umane.
L’Italia del lavoro ha compiuto l’ennesimo passo indietro, ma la politica ora preferisce pensare ai bordelli per gay, alle liste scippate e ai centri di massaggio tailandese per i protettori civili: di questa controriforma del lavoro ci sarà modo di parlare più avanti. Peccato che allora i lavoratori non avranno più nulla di cui discutere relegati, come saranno e già sono, alla cieca accettazione in nome dell’agognato “tozzo di pane”.
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di Rosa Ana De Santis
Napolitano ha firmato il decreto salva-liste. Gli uffici del Quirinale sono rimasti aperti fino alla tarda notte di venerdì per licenziare il testo uscito poche ore prima del Consiglio dei Ministri. Polemiche violente da parte dell’Italia dei Valori, che minaccia una mozione contro il Presidente della Repubblica. Secondo il Presidente della Camera, Fini, non esiste alcun fondamento per la richiesta di Di Pietro di invocare l’impeachment. Napolitano, in perfetta coerenza con i compiti che gli attribuisce la Costituzione, non avendo riscontrato alcun sospetto d’incostituzionalità in questa bega interpretativa di legge e procedure ordinarie, non avrebbe potuto opporsi se non esercitando una forzatura sulla macchina istituzionale. Tutto vero sul filo della rigorosa interpretazione della Magna Charta.
Forse però, verrebbe da aggiungere, qualcosa Napolitano avrebbe potuto farlo. Assecondare la sola interpretazione formale della democrazia e della forma repubblicana, soprattutto quando il governo, questo governo, è il primo ad averla indigesta e a non ossequiarla, se non per proprio comodo come in questo caso, significa perdere di vista la democrazia sostanziale.
I nervi del diritto e delle garanzie. Se questo episodio rende anche solo pensabile che la legge possa essere non soltanto aggirata, ma declinata di volta in volta, secondo i particolarismi e le ragioni delle parti, c’è il rischio che l’idea stessa della legge s’indebolisca e che passi l’idea che il governi possa piegarla alla propria causa. Va in fumo così la storia di chi ha creduto che sovrana fosse la legge più degli stessi sovrani.
L’opposizione si è data appuntamento a sabato 13 marzo. Con tutta calma e per dare meno fastidio possibile, verrebbe da dire. Chissà che proprio il vuoto politico dell’opposizione non abbia influenzato le scelte del Quirinale. L’unica vittoria di negoziato è stata quella di convertire il testo del decreto da innovativo - com’era uscito dalle mani del Governo - a interpretativo, che sembrerebbe voler rimanere circoscritto al pasticcio del Lazio e della Lombardia. Intanto, il Tar lombardo ha accolto la richiesta di sospensiva presentata da Formigoni e, in attesa di pronunciarsi nel merito, ha intanto riammesso il listino del presidente della regione uscente. Formigoni, conscio di quello che comporterà tra gli elettori il decreto governativo appena licenziato, si è affrettato a dire che lui non ne aveva bisogno.
L’eccezione alle regole ha comunque trovato la sua benedizione ed è doveroso chiedersi quali conseguenze questo potrebbe avere per gli esclusi del passato e per quelli delle prossime elezioni. Si procederà ogni volta con la creazione ad arte di leggine su misura per salvare gli sconfitti o, più semplicemente, gli analfabeti delle regole del gioco in democrazia? E quando dovesse essere il turno della coalizione di centro sinistra, chi si muoverà per fare lo stesso imbroglio?
Tutto sommato, stando alle prime percentuali di orientamento di voto nel Lazio, ad esempio, è andata bene così. Ai cittadini questo sfacciato intervento per sabotare le regole non è piaciuto troppo. Sono in calo le preferenze per le liste della Polverini e, se la Bonino rimarrà al suo posto, senza inseguire le petizioni ossessive del suo partito, forse il confronto elettorale può dirsi ancora aperto. Vincere senza il PDL a Roma sarebbe stata forse l’anticamera di un’invivibile governabilità della Regione e per il centro sinistra poteva diventare una vittoria di Pirro. Durerebbe poco tempo e senza speranza. La vittoria degli uomini di Berlusconi porterà invece, ancora una volta, il peso e l’incognita di una vistosa intolleranza alle regole della società democratica e l’equazione volgare tra il consiglio dei ministri e un cda aziendale. Un’affronto alla dignità delle Istituzioni che, prima o poi, avrà bisogno del coraggio degli uomini di Stato. I pochi rimasti.