di Ilvio Pannullo

Dopo l’approvazione del cosiddetto decreto “salva Alcoa” si esulta con cautela per le pendenze relative al caso della multinazionale americana dell’alluminio con sede in Sardegna. Si tratta, in particolare, del decreto legge che vuole incrementare la sicurezza del sistema elettrico nelle Isole maggiori (Sardegna e Sicilia) consentendo così di evitare eventuali black-out. Un provvedimento conosciuto anche come “salva Alcoa”, perché la multinazionale americana dell'alluminio è fra i clienti che possono ottenere un beneficio in termini di minor costo dell'energia per il triennio, accedendo al servizio di interrompibilità, ossia il servizio che consente, nei luoghi dove ce ne è bisogno, come appunto le isole, di mantenere in equilibrio il rapporto tra produzione di energia e consumi.

L’unico possibile intralcio alla buona riuscita dell’operazione è la possibilità, assolutamente concreta, che la Commissione Europea interpreti l’operazione come un aiuto di Stato simulato e ne revochi l’efficacia, condannando lo Stato italiano all’abrogazione del provvedimento e l’azienda americana a pagare quanto indebitamente risparmiato. Questa eventualità, tutt’altro che remota, porterebbe inevitabilmente alla chiusura degli stabilimenti sardi con conseguenze disastrose per l’economia di dell’intera regione.

''Vediamo quali sono i chiarimenti dell'Italia alle richieste della Commissione, ma il clima mi pare abbastanza positivo, il primo incontro è andato bene''. E' il commissario europeo all'Industria Antonio Tajani a riassumere così il punto sulla vertenza Alcoa. Pare dunque si possa ancora sperare. Per il polo industriale di Portovesme, nella costa sudoccidentale della Sardegna, arrivano tuttavia due notizie contrastanti. Da una parte la multinazionale americana leader nel settore dell'alluminio che ha deciso di ritirare la cassa integrazione, rinunciando dunque chiudere lo stabilimento almeno per i prossimi sei mesi. Una boccata d'ossigeno a termine, insomma, che non sembra essere all'orizzonte per i lavoratori dell'altro stabilimento a rischio, l’Euralluminia, della russa Rusal, che ha annunciato la proroga della cassa integrazione per un altro anno. Ciò significa che i lavoratori - un migliaio tra diretti e imprese d'appalto - vedranno prorogare la cassa integrazione per un altro anno. Questo perché, a differenza dell'Alcoa, per Eulalluminia il problema non è legato ai costi energetici ma gli alti costi dell'olio combustibile del carbon coke. Il futuro dell’alluminio in Sardegna appare dunque tutt’altro che roseo.

Nonostante infatti sul versante Alcoa la produzione sarà assicurata sino ad agosto, parlare di vittoria sarebbe davvero eccessivo. Lavoratori e sindacati mostrano cauto ottimismo e richiedono che le istituzioni, governo e regione in testa, inizino a lavorare subito per trovare una soluzione nel caso in cui, fra sei mesi, la multinazionale americana dovesse decidere di smobilitare. "Questo risultato è stato accolto con piacere per il semplice fatto che l'alternativa era la chiusura - commenta Fabio Enne, segretario generale della Femca Cisl del Sulcis Iglesiente - ma non possiamo parlare di una vittoria su tutti i fronti, in quanto il nostro obiettivo è la prospettiva di lungo periodo incentrata sulla produzione di alluminio primario, settore importante che non va perduto".

Nel Sulcis Iglesiente e nella città capoluogo, Iglesias, in particolare, l'attività estrattiva è stata infatti per secoli la linfa vitale del tessuto economico. Cessata quell'epoca e chiuse anche le ultime gallerie, a fine anni 90 si è posto il problema della riconversione; lo Stato italiano pensò che l'erogazione di finanziamenti a chi si fosse fatto carico di avviare nuove attività fosse la soluzione migliore. In tanti si sono aggrappati a quella speranza, centinaia di lavoratori hanno iniziato a guardare al futuro con più ottimismo. Un errore colossale. Quella che era stata ribattezzata "la nuova vita industriale" di questo pezzo di Sardegna, si è rivelato in realtà un tremendo inganno.

Il denaro pubblico che avrebbe dovuto tradursi nel lavoro per almeno 500 persone in un'area considerata depressa, si perse tra i mille caporali della tristissima catena di comando del potere italiano . Gli elenchi delle società che avrebbero dovuto creare nuova ricchezza, producendo beni alternativi, sono lunghissimi: si va dalla "carboroll" , che avrebbe dovuto produrre sedie a rotelle; alla "Frejus", la fabbrica di biciclette da esportare in tutto il mondo; alla Binex passando per la "New Stone" che avrebbe dovuto lavorare marmi e lapidei provenienti dalle cave della Sardegna. Nell'elenco c'è anche la "Fgold" proveniente dalla privatizzazione di una delle aziende legate all'ente minerario sardo oramai disciolto. Una catena di fallimenti industriali che si trascina fino ad oggi con il caso della multinazionale dell'alluminio americana.

"Dopo la chiusura delle miniere e le erogazioni di fondi pubblici si è scatenata una vera e propria caccia al tesoro - osserva sempre il segretario generale della Femca Cisl Sulcis Iglesiente Fabio Enne - ma purtroppo non siamo stati in grado di effettuare un'attenta operazione di controllo sugli imprenditori che hanno ricevuto i finanziamenti. La riconversione è fallita per una serie di leggerezze: quella più grande è che le iniziative proposte non sono state abbastanza monitorate per verificare se fossero realmente confacenti ai bisogni del territorio. Miliardi di vecchie lire dati a società che hanno speculato senza produrre nulla. Se avessimo in piedi quei progetti avremo settecento posti di lavoro in più. C'è stato un vero sciacallaggio ai danni dei lavoratori e dell'intero territorio".

A detta di Pierluigi Carta, sindaco di Iglesias, l'errore più grosso è stato quello di "non diversificare l'economia e non esercitare la democrazia reale, affidando lo sviluppo del territorio ai burattinai senza scrupoli. Una volta era la miniera, poi le partecipazioni statali e infine i manager. Non è cambiato nulla. Centocinquanta anni di egemonia mineraria, da una parte hanno costruito su Iglesias un moderno sistema industriale e attratto ingenti flussi finanziari; dall'altra hanno finito per limitare fortemente la portata delle altre attività economiche tradizionali della cultura imprenditoriale, impedendo lo sviluppo di un sistema di anticorpi collettivo che riuscisse a difendersi dai mutamenti sempre più veloci dello scorso e del presente secolo".

In una situazione tanto drammatica, in un territorio caratterizzato da una monocultura produttivo-industriale, l'unica alternativa possibile è ricavare dal passato quel patrimonio di memoria e di identità che permetta alle comunità di programmare con orgoglio un futuro che sia sostenibile, partendo proprio dalle risorse naturali, architettoniche e culturali del territorio, così da difenderle dalla speculazione e dal degrado. Di fronte alla globalizzazione selvaggia e all'abbattimento delle barriere doganali, che impongono una competizione selvaggia tra aree economiche del mondo troppo diverse per poter essere anche solo paragonate, serve un'economia capace di sostenere settori tradizionali affiancandoli con il turismo unitamente a i servizi, all'agricoltura e all'artigianato.

Ormai lo Stato non può più intervenire a sostegno delle proprie imprese e dunque a sostegno dell'occupazione sul proprio territorio, essendo l'ordinamento italiano ormai inscritto in una cornice ben più complessa e sofisticata, quale quella dell'ordinamento comunitario. E’ quindi necessario fare è il coordinamento di tutte le istanze produttive legate al territorio e finalizzate allo sviluppo ed al benessere degli stessi territori su cui insistono gli stabilimenti produttivi, non all'esportazione verso mercati lontani anni luce di distanza dai confini italiani. L’alternativa è la depressione economica, sociale e mentale di una terra nota in tutto il mondo per le sue bellezze.

 

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