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di Nicola Lillo
“L’alternativa per una nuova Italia”. Si è aperto con questo slogan il congresso dell’Italia dei Valori, iniziato il 5 febbraio e terminato ieri con la conferma a presidente del partito di Antonio Di Pietro. Una nuova Italia che, in realtà, sembra conformarsi alla precedente. Vittoria inizialmente scontata per l’ex pm, poi confermata dopo il ritiro dello sfidante Barbato. “Siamo pronti a un altro governo per il Paese. Abbiamo fatto resistenza, resistenza, resistenza che ci voleva a un regime piduista, ma ora siamo alla svolta. Siamo pronti al governo”, ha detto Di Pietro, prendendo la parola dopo la conferma per acclamazione. “La piazza non basta. E' finito il tempo della sterile protesta e comincia quello della grande responsabilità di governo che vogliamo”. Il partito “dovrà ora mettere in campo un'azione politica di contrasto e anche di stimolo al governo”.
Parole che non hanno fatto attendere la risposta polemica di Pier Ferdinando Casini: “L'Italia dei Valori è un macigno su qualsiasi alternativa credibile a Berlusconi. Persino Di Pietro - osserva il leader dell'Udc - si rende conto che la posizione dell'Idv è sterile e non porta da nessuna parte”. Ma oltre ai battibecchi e alle solite “frecciate”, il Congresso ha dato qualche spunto su cui riflettere.
Di Pietro ha ribadito di essere pronto a passare la mano fra qualche anno, ma che in questa fase c'è ancora bisogno della sua leadership: “Sento il dovere di continuare a tenere il timone di questa nave finché non arriva in un porto sicuro. Aiutatemi a portare a questa barca alla riva e, dopo di che, io non vedo l'ora di tornare un po' alla mia masseria”. “Porterò questa nave dell'Italia dei valori - ha aggiunto - insieme ai comandanti delle navi della flotta del centrosinistra al 2013 per riconquistare il governo; dopo, mi chiamate come socio onorario e dovrete fare da soli”.
Quello che ha stupito è stato però il tema regionali. Il leader dell'Italia dei Valori ha ribadito la possibilità di trovare un accordo con Vincenzo De Luca, candidato del Pd alla Regione Campania, a patto che accetti “una serie di paletti”. De Luca, intervenuto al congresso e applauditissimo, afferma: “Non possiamo non combattere insieme questa battaglia”. Il risultato è un ossimoro: l’Italia dei Valori appoggia un candidato due volte rinviato a giudizio per reati gravissimi, cioè concussione, associazione per delinquere, falso e truffa. Sicuramente un errore per Di Pietro, che dopo questa apertura al PD potrebbe perdere un po’ di fiducia da parte dell’elettorato.
E’ frutto di una circostanza che nasce da una situazione di stallo. In Campania, infatti, il Pdl ha avanzato la candidatura di Caldoro, craxiano e non lontano da Cosentino e Cesaro. Il Pd sorregge De Luca, che inizialmente non è appoggiato dall’Idv. Ma, causa fermezza del Partito Democratico nella propria decisione, Di Pietro non ha fatto altro che cadere nel ricatto che gli si poneva dinanzi. O De Luca, o la Campania al Pdl. L’errore dell’opposizione è comunque a monte. I Bassolino, Sandra Mastella e tutti gli scandali sorti negli ultimi anni, non hanno fatto muovere un dito al partito di Bersani. Questo lassismo ha portato alla candidatura di un plurinquisito. Unica voce fuori dal coro dei sì, ululati al congresso, è l'europarlamentare dell'Idv, Luigi De Magistris, secondo il quale “la Campania ha bisogno di altro, non di De Luca”.
Ma l’appuntamento al congresso riserva altri scossoni e, di conseguenza, altre critiche. Gioacchino Genchi, il consulente informatico delle più importanti procure d’Italia (lavorò con Falcone, Borsellino e in ultimo con De Magistris), avrebbe infatti affermato che “nel lancio della statuetta del duomo di Milano a Berlusconi non c'è nulla di vero”. Per poi precisare: “E' evidente che il mio intervento di oggi è stato totalmente frainteso. Le mie parole, infatti, non facevano alcun riferimento alla dinamica dell'attentato e non intendevano affatto metterne in dubbio la veridicità. Mi riferivo, in realtà, a quanto accaduto immediatamente dopo: ovvero, al fatto che la scorta del presidente del Consiglio non abbia provveduto con tempestività e immediatezza ad allontanare il premier da quella situazione di grave pericolo”.
Ma è comunque bufera. Il tema sembra infatti essere un “tabù”, nonostante le voci, i dubbi, i filmati che si sono susseguiti sul web per diversi giorni. Nessuno può parlarne. Ma a rilanciare le sue dichiarazioni è stato, ancora, Luigi De Magistris, per il quale “la magistratura deve fare approfondimenti seri. Come dissi subito - afferma - ci sono aspetti che non mi convincono, ma non credo sia utile aprire una polemica politica. Vero è - aggiunge - che dopo quell'episodio non si è più parlato di vicende di Berlusconi e questa è la cosa grave”.
Risponde pronto il Pdl, con il suo portavoce Daniele Capezzone: “E' inaudito che si sollevino ombre su un attentato che avrebbe potuto uccidere Silvio Berlusconi. Sorge il dubbio che qualcuno desideri un altro caso Tartaglia”. Si accoda Gasparri, che annuncia “un'interrogazione urgente per sapere se il capo della Polizia Antonio Manganelli si avvale ancora della collaborazione di un personaggio del genere nel dipartimento della Pubblica Sicurezza. Se così fosse la cosa sarebbe sconcertante e non priva di conseguenze”.
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di Mariavittoria Orsolato
Alla fine gli altarini sono stati scoperti, e mai come ora una locuzione del genere è stata più appropriata. La storia la conosciamo ormai tutti: l’affaire Boffo è scoppiato come una bomba lo scorso 28 agosto, quando il prezzolato neo direttore de Il Giornale, Vittorio Feltri, accusò in prima pagina il direttore dell’Avvenire di essere “un noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia” in virtù di una sentenza risalente all'agosto del 2004, in cui Boffo è stato condannato a pagare una multa di 516 euro a causa di reiterate igiurie e molestie telefoniche. Sei giorni dopo la pubblicazione della velina - di per sé già alquanto datata, dal momento che la prima versione risale al 2005 - Boffo lascia la direzione del giornale dei vescovi senza nemmeno una pacca sulla spalla, ma anzi sollecitato da ben più d’uno di quei porporati che in 20 anni di redazione aveva rispettosamente ossequiato.
Il polverone scatenato da Il Giornale si è chetato nel giro di poco tempo e, sebbene in molti avessero espresso ragionevoli dubbi sulla buone fede delle fonti di Feltri, è stato solo il 4 dicembre che il direttore si è pubblicamente scusato con il collega, titolando un editoriale “Su Boffo scandalo infondato”. Un autogol che a un qualunque giornalista professionista costerebbe come minimo la cancellazione dall’albo - il povero Alberto Castagna, era stato estromesso per molto meno - ma che al grande vecchio di via Negri ha fruttato solo qualche cenno di biasimo.
Sembrava che ormai la storia fosse finita, che questo brutto capitolo di giornalismo fosse definitavamente archiviato negli annali riservati al cattivo gusto. Questo fino ad un paio di giorni fa, quando Feltri è tornato a soffiare sul fuoco della polemica, fornendo a Il Foglio di Giuliano Ferrara l’identikit della famigerata fonte vaticana, rea di aver creato cotanto patatrac: “Una personalità della Chiesa di cui ci si deve fidare istituzionalmente” e di cui “non si poteva perciò dubitare”. Che questa evanescente fonte primaria fosse il direttore dell’organo ufficiale vaticano, l'Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, sono stati in molti in questi giorni a ventilarlo.
La ragione di ciò risiederebbe nelle lotte intestine della Curia per l’affermazione delle nuove linee politico-pastorali: da mesi, infatti, sotto il Cupolone si sta consumando un duello serratissimo tra le posizioni progressiste dell’ex presidente della Cei, Camillo Ruini, e quelle più intransigenti del Segretario di Stato Vaticano, Tarcisio Bertone. Proprio lui sarebbe il “Sua Eccellenza” cui era indirizzata la nota informativa giunta nelle mani avide di Feltri; e, se a ciò si aggiunge il fatto che lo stesso Vian firmi da tempo articoli filogovernativi su Il Giornale sotto lo pseudonimo di Diana Alfieri, ben si capirà come mai buona parte dei commentatori abbia individuato nell’anomala coppia le figure papaline tirate in ballo tardivamente da Feltri. Ad ulteriore conferma delle illazioni della carta stampata, arriva poi la secca smentita del cardinale prefetto della Congregazione dei Vescovi, monsignor Giovanni Battista Re, che a La Repubblica bolla le rivelazioni di questi giorni come “una squallida manovra ordita da chissà chi per coprire la vera fonte ispiratrice”.
Trovati i personaggi, resta ora da ricostruire il movente dell’attacco a Boffo. La fonte ispiratrice menzionata da monsignor Re potrebbe essere in realtà un Giano bifronte. Il caso Boffo aveva infatti inevitabilmente evidenziato gli attriti tra Governo e Chiesa, seguiti allo scandalo che aveva coinvolto Berlusconi, la diciottenne Noemi Letizia e una folta schiera di giovani manze orbitanti tra Palazzo Chigi e Villa Certosa. Pare perciò più che plausibile che l’attacco all’ex direttore di Avvenire sia stato in realtà un’azione involontariamente concertata: da una parte il Presidente del Consiglio che aveva organizzato sul giornale di famiglia una macelleria mediatica contro chiunque (dall'ex moglie Veronica, all’alleato Fini, per arrivare anche al Boffo che, rispondendo alle lettere dei suoi confusi lettori, si portava inevitabilmente sulle posizioni dell’opposizione) abbia provato a calcare la mano sulle sue senili frivolezze; dall’altra il Vaticano, che aveva bisogno di rendere credibile l’atteggiamento fin troppo indulgente rivolto ad una figura istituzionale che, per quanto deprecabile negli atteggiamenti, è pur sempre un ottimo ricettacolo di rivendicazioni curiali.
Boffo insomma, con una sola mossa era riuscito a mettersi contro due dei più influenti centri di potere italiani e la nota del casellario giudiziario, pervenuta prima sulle scrivanie di oltre duecento vescovi e poi su quella di Feltri, ha avuto risvolti positivi per entrambe le parti in causa: Boffo si è dimesso lasciando il giornale dei vescovi in mani più malleabili, la Curia ha screditato la fazione Ruiniana rappresentata dall’Avvenire ed ha perciò ampliato lo spazio di manovra del braccio destro di Ratzinger - il segretario Bertone appunto - mentre il nostro caro Padron’ Silvio l’ha sfangata con la solita buona dose di vittimismo.
Allo stato attuale dei fatti è ancora però d'obbligo l'uso del condizionale. Il prossimo 22 febbraio Vittorio Feltri dovrà rispondere all'Ordine dei Giornalisti lombardo sulla sua pessima deontologia professionale, e sarà forse in quella sede che buona parte dell'intricato puzzle potrà risolversi. Per chi invece crede che in questa vicenda non ci sia solo la mano del Vaticano, basteranno le parole con cui l'ex direttore di Il Giornale, Mario Giordano, si accomiatò dai suoi lettori il 21 agosto: "Nelle battaglie politiche non ci siamo mai tirati indietro (...) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornale, editori, ingegneri, first lady o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori de Il Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento delle rispettive alcove". Il timido Giordano aveva deciso di tirarsi indietro, di non avvallare quel gioco sporco in cui lo stesso premier stava sguazzando. Il vecchio Feltri, da brava volpe del giornalismo nostrano, è fatto di tutt'altra pasta.
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di Nicola Lillo
Comunali e Regionali in una volta sola. Doppie elezioni per la rossa Bologna. Dopo le dimissioni di Flavio Delbono, da sindaco del capoluogo emiliano romagnolo, lo scontro fra maggioranza e opposizione si apre su più fronti. Sono diversi i nomi di cui si parla per la poltrona della città. Il Pdl avanza la candidatura di Giancarlo Mazzuca, già in corsa per la Regione. Ritiratosi dalla contesa, sembrerebbe essere la prima carta estratta dal mazzo del Pdl. Lega e Udc, però, non sembrano convinte della scelta, soprattutto, a causa della gestione verticistica del partito. Non vogliono accodarsi alle decisioni prese dal “grande capo”. È probabile, comunque, che la scelta ricadrà, nonostante tutto, sull’ex direttore del Resto del Carlino, Mazzuca, già in corsa per la poltrona di governatore della Regione.
Sul fronte Pd, invece, si parla già di primarie, le quali dopo le (dis)avventure pugliesi, con dichiarazioni a catena, critiche e fratture sembrerebbero quasi naturali e logiche. Ma nel Partito Democratico la logica spesso sembra latitare. I nomi presentati sono, comunque, diversi e non si esclude la candidatura di un esponente della cosiddetta “società civile”: Duccio Campagnoli, assessore regionale alle Attività produttive; Luciano Sita, figura forte della giunta Delbono e ex numero uno di Granarolo; Maurizio Cevenini, Presidente del consiglio comunale, tifosissimo del Bologna e recordman di matrimoni celebrati, amatissimo per altro in città.
Per la Regione il discorso è differente. Il Pdl, dopo il ritiro di Mazzuca, candida l’avvocatessa bolognese Anna Maria Bernini, con il placet dei coordinatori nazionali del Pdl - Sandro Bondi, Ignazio La Russa e Denis Verdini - e l’intercessione di Berlusconi. Anche in questo caso le conseguenti critiche della Lega e dell’Udc, che anche qui vorrebbero prendere posto al tavolo delle trattative. La politica dei “due forni”, nonostante le critiche sia dalla maggioranza che dall’opposizione, continua a dilagare. “Valuteremo, prendendo atto che il Pdl ritiene di vincere da solo” afferma il leader Udc. “Noi siamo disponibili - ha aggiunto - ma partendo dal rispetto di tutti”. La decisione del Pdl? “L'ho letto sui giornali. Evidentemente pensano di essere autosufficienti e di poter vincere da soli”.
Per il Pd, alla Regione la scelta sicura ricade su Vasco Errani. Eletto già Presidente della Regione Emilia Romagna il 16 aprile 2000 con un’ampia coalizione di centrosinistra, e rieletto poi per una seconda volta nelle regionali del 3 e 4 aprile 2005, con il 62.7% dei voti, potrebbe dunque ricoprire la poltrona di governatore per la terza volta. Dopo lo scandalo Delbono, la sua posizione ha iniziato a vacillare, giacché l’ex sindaco è indagato per differenti reati (abuso d’ufficio, peculato e truffa aggravata) compiuti durante la sua presenza al fianco di Errani, come vice della Regione. Alcuni dubbi sulla ricandidatura dell’attuale governatore erano dunque sorti, dubbi per lo più di natura politica. Stralciata comunque qualsiasi incertezza, la proposta del nome di Errani non sembra ora vacillare.
Un problema però potrebbe esserci. E non di natura politica, né morale, bensì legislativo. La legge ordinaria numero 165 del 2 luglio 2004, prevede, infatti, all’articolo 2 punto F, “la non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto, sulla base della normativa regionale adottata in materia”. Traduzione: non più di due mandati consecutivi. Errani, per legge, non può quindi diventare nuovamente Presidente della Regione. Almeno per queste elezioni. Alle prossime se ne potrà parlare.
Sorge però tra i giuristi una differente interpretazione della legge. Il tutto ruota intorno all’anno di promulgazione, il 2004, e al primo mandato del Presidente, il 2000. Secondo alcuni il mandato si conta già dal 2000. Questo perché, precedentemente, l’elezione del governatore avveniva da parte del consiglio regionale e non era diretta; la legge parla, testualmente, di “mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto”, quindi il caso di Errani entrerebbe in questa categoria, essendo stato eletto direttamente dai cittadini già due volte. Secondo altri giuristi, invece, il mandato può contarsi dal 2005, ovvero l’anno successivo all’entrata in vigore della legge.
È chiaro che se il problema avesse riguardato solo la Regione Emilia Romagna, il Pdl non avrebbe aspettato un secondo per sventolare ai quattro venti il testo di legge. Errani era, infatti, (almeno fino al “Cinzia gate”) il candidato vincente, secondo i sondaggi. Ma questo problema legislativo riguarda anche il veneto con Giancarlo Galan e la Lombardia con Roberto Formigoni. Rispettivamente Pdl e Pdl. E allora? Chiudiamo gli occhi tutti e che l’inciucio continui. A Roma nessuno vuole sollevare il problema, ne avrebbero da perdere tutti. E allora si tace. Per il Pd è un’altra occasione persa per dimostrare una minima (e possibile) differenziazione dalla maggioranza. Non è la prima volta, non sarà -.purtroppo - l’ultima.
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di Ilvio Pannullo
Il segnale non poteva essere istituzionalmente più plateale: ieri, all’apertura dell’anno giudiziario, l’Associazione nazionale magistrati ha deciso di manifestare apertamente il proprio corale disprezzo nei confronti dell’atteggiamento, ormai palesemente ricattatorio, assunto dall’esecutivo. Con le regionali che si avvicinano, lo scontro tra i due poteri dello Stato - quello chiamato a esprimere la sovranità popolare e quello il cui compito consiste nell’amministrazione della giustizia - ha ormai superato i livelli di guardia.
Dopo l’approvazione con 163 voti favorevoli, 130 contrari e 2 astenuti nell'Aula di Palazzo Madama del provvedimento tristemente noto come “processo breve”, le toghe italiane hanno lanciato il loro grido di allarme, rompendo ogni indugio e rendendo impossibile qualsiasi forma di trattativa rispetto il disegno politico, palesemente anticostituzionale, di prossima attuazione.
A comunicare la levata di scudi della magistratura sono le forme della protesta, resa ineludibile dalla lettura di un comunicato letto congiuntamente in tutte le aule di giustizia. A Milano la protesta scatta quando viene invitata a prendere la parola il sottosegretario alla Giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati. I magistrati milanesi, con indosso le toghe, si alzano ed escono dall’aula. Non ascolteranno la difesa d’ufficio, da parte del rappresentante del governo, degli scempi giuridici voluti dall’esecutivo. I magistrati, non tutti peraltro, rientreranno soltanto una volta terminato il discorso. Idem nella capitale, dove al momento del discorso del rappresentante del Guardasigilli, i magistrati, Costituzione alla mano, hanno preso la strada dell’uscita.
"Tutelare l'autonomia, l'indipendenza e la credibilità della funzione giurisdizionale, ponendola al riparo da ingerenze, condizionamenti e intimidazioni che ne possano compromettere il corretto esercizio". Sono queste invece le parole con cui prende posizione sull’argomento il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Nicola Mancino, intervenendo al Palazzo di Giustizia di Roma alla cerimonia per l'inaugurazione dell'Anno giudiziario alla presenza del Presidente della Repubblica Napolitano e di tutte le alte cariche istituzionali.
Nonostante il tono vagamente conciliante del Quirinale, preposto nell’ordinamento a fare da raccordo tra le istanze della magistratura istituzionalmente intesa ed il circuito politico, rimane un dato da sottolineare: le toghe che si alzano e vanno fuori dalle aule, in piena cerimonia dell'anno giudiziario, non si erano mai viste. Eppure é successo, in quasi tutti i distretti, compresi quelli principali: Roma, Milano, Palermo, Torino, Napoli, Catania.
Davanti alle legioni mediatiche del Papi in capo, ormai da 16 anni puntate alla testa e al cuore del popolo italiano, la magistratura fa sapere al potere politico che non ci sta ad abbassare la testa e risponde alla volontà di impunità che anima la maggioranza al governo con un’iniziativa finalizzata a cristallizzare, nella mente di chi ancora crede che la giustizia sia tale solo se sia uguale per tutti, l’immagine di uno scontro che dopo gli anni di tangentopoli rinfiamma l’Italia.
Il gioco si fa duro anche perché con la legge sul processo morto che pende come una spada di Damocle sulla testa della giustizia italiana, laddove questa dovesse essere approvata anche dalla Camera dei Deputati senza subire modifiche, calerebbe il sipario sulla Repubblica Italiana: vincerà il Cavaliere che, come Luigi XIV, potrà - a ragione - considerarsi allora legibus solutus, immune cioè dalle leggi, attributo spettante di diritto ad ogni monarca assoluto che si rispetti.
Intanto è già partita la caccia all'aggettivo "breve" nella relazione con cui il primo presidente della Suprema Corte di Cassazione, Carbone, ha aperto l'anno giudiziario al palazzaccio di Roma. Aggettivo che compare solo a pagina 170. L’ordine è chiaro: il fronte del nemico va diviso e ogni singolo elemento di distinzione all’interno della magistratura va sottolineato, in modo da enfatizzare la spaccatura tra magistratura politica e magistratura cooptata, funzionale ai disegni eversivi di Berlusconi.
Il giudizio di chi il diritto lo applica ogni giorno nelle aule dei tribunali di tutta Italia non lascia ampi spazi d’interpretazione. La legge - si legge nel comunicato - "realizza un vero è proprio colpo di spugna, che assicurerà una completa impunità per i tipici reati della criminalità dei colletti bianchi, ma anche per molte insidiose forme di delinquenza diffusa in danno di persone deboli. Si renderà, di fatto, impossibile l'accertamento di delitti come gli omicidi colposi realizzati nell'ambito dell'attività medica, le lesioni personali, le truffe, gli abusi d'ufficio, la corruzione semplice e in atti giudiziari, le frodi comunitarie, le frodi fiscali, i falsi in bilancio, la bancarotta preferenziale, le intercettazioni lecite, i reati informatici, la ricettazione, il traffico di rifiuti, lo sfruttamento della prostituzione, la violenza privata, la falsificazione di documenti pubblici, la calunnia, la falsa testimonianza, l'incendio, l'aborto clandestino".
Saranno inoltre condannati a "immediata estinzione" i processi "per i crack Cirio e Parmalat, per le scalate alle banche Antonio veneta e Bnl, per la corruzione nella vicenda Eni power, per le morti bianche e per le morti d'amianto". In buona sostanza è un po’ come dire che laddove questo testo dovesse veramente divenire legge dello Stato, sarebbe la fine dell’idea stessa di giustizia, non più uguale per tutti, ma su misura per i più potenti.
Vista la gravità della situazione va comunque rilevato come anche il fronte del cavaliere non riesca a serrare compiutamente tutti i ranghi. Se da una parte, infatti, il caudillo di Arcore ha buon gioco nell’insinuarsi tra le divisioni presenti in seno al sindacato delle toghe, con la corrente di Magistratura Indipendente che fa sapere da Napoli che, “pur condividendo senza alcuna riserva sia la profonda critica nei confronti dei progetti di riforma in discussione, sia la necessità che tale critica sia adeguatamente manifestata”, ritiene comunque necessaria “la necessità del dialogo e del confronto con la politica in ogni sede”.
Dall’altra anche tra gli elementi preselezionati dai fedelissimi del capo per rappresentare gli elettori del centro-destra s’individuano dei cedimenti. Enrico Musso, senatore Pdl, ha reso in aula una dichiarazione semplice e lineare: "La maggioranza ha sbagliato a mettere insieme due obiettivi: quello di ridurre i tempi dei processi e quello di tutelare il Presidente del Consiglio dalle vicende giudiziarie che lo riguardano. Lo si sarebbe dovuto ammettere senza problemi, così come del resto fa lo stesso Berlusconi". Un applauso all’onestà.
Lo stesso relatore Valentino era stato colto nei giorni immediatamente precedenti all'approvazione a dire ad un senatore dell'opposizione: "Basta che non ci tocchiate le norme transitorie. Sul resto si può trattare". Questo perché sono proprio le norme transitorie quelle che garantiranno l'impunità al Presidente del Consiglio, che con questo testo si salverà dai processi pendenti che vedono il suo nome scritto nell’elenco degli imputati. Insomma, se Fini fa sapere che la legge può essere sempre migliorata, i falchi puntualizzano che l’importante è che resti uguale la dedica.
L'onorevole Granata, avamposto finiano alla Camera dei Deputati, lascia intendere che la partita non è del tutto finita: "Non ci stiamo (i finiani all’interno del PdL. ndr) ad approvare un provvedimento che uccide la giustizia", la magistratura ordinaria, quella amministrativa, quella contabile unitamente all'avvocatura dello Stato, parlando con una sola voce, sgomberano il campo di battaglia dal fumo del nemico. Come si può leggere nel documento firmato comitato intermagistratura, il provvedimento ora all’esame della Camera "impropriamente viene denominato misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, perché cancellerà ogni speranza di giustizia per le vittime di reati di particolare gravità".
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di Nicola Lillo
Se la questione morale sembrava essere, su scala nazionale, un problema appartenente per di più alla destra berlusconiana, negli enti locali tira un’aria differente. Il Partito Democratico bolognese, infatti, trema: il sindaco, Flavio Delbono, è indagato per abuso d’ufficio, peculato e truffa. Tutto inizia nel pieno della corsa per la poltrona di sindaco della città rossa, quando Alfredo Cazzola, l’ex patron del Bologna Calcio, della Virtus pallacanestro e del Motor Show, candidato del Pdl, accusa l’avversario Flavio Delbono dai microfoni di Radio Città del Capo, di aver utilizzato soldi pubblici per spese personali. “Le porto - afferma il 15 giugno dello scorso anno - i saluti di Cinzia Cracchi, la sua ex compagna che ha molto da ridire sulla sua moralità…”. A Bologna lo chiamano Cinzia-Gate.
Ma chi è questa Cracchi? La signora è stata la compagna dell’attuale sindaco per sette anni. Era una dipendente comunale, finché Delbono, da ex numero due dell’Emilia Romagna, non l’ha portata con se in Regione, nella sua Segreteria. Prodiano, professore di economia, il cinquantaduenne, che ha preso il posto di Sergio Cofferati, dopo aver lasciato la signora, nel luglio 2008 l’ha trasferita al Cup, la società partecipata che gestisce le prenotazioni per conto delle Asl della Regione. Dalle stelle alle stalle e la Cracchi non ci ha visto più, nonostante avesse mantenuto l’aumento di 800 euro che aveva ottenuto in Regione.
La “vendetta” è un piatto che va servito freddo. Così ha cominciato a fare il giro dei politici considerati ostili all’attuale sindaco, per raccontare tutto quello che sapeva, a partire dai viaggi in giro per il mondo di Delbono con lei al seguito. Tutto con soldi pubblici. E il risultato è stata l’accusa in diretta radio del suo avversario per la corsa a Palazzo D’Accursio, sede del comune. Delbono ha querelato Cazzola per diffamazione e la Procura ha aperto un fascicolo per abuso d’ufficio e peculato contro ignoti. Dopo aver letto le carte della regione Emilia Romagna, della cui giunta Delbono faceva parte all’epoca dei fatti contestati, il procuratore Serpi e il pm Persico chiedono l’archiviazione, poiché “non ci sono irregolarità”. Nel mentre, Cazzola e Delbono firmano l’armistizio con il ritiro della querela e la relativa accettazione del querelato.
Fin qui, era apparso tutto come una mossa politica per azzoppare l’avversario. Una tattica triste che il candidato sindaco Pdl aveva forse imparato dai piani più alti. Ma il 28 novembre il presidente dei gip, Giorgio Florida, nega l’archiviazione dell’inchiesta sui presunti abusi e ordina nuove indagini. La Cracchi e Delbono vengono così iscritti nel registro degli indagati. I primi interrogatori dell’ex compagna confermano le accuse: dall’uso delle auto blu e delle missioni all’estero a spese della Regione, con fidanzata al seguito, per poi passare da Pechino a Parigi e New York. Viaggi in Messico e a Santo Domingo. Gli stipendi aumentati alla segretaria-compagna e poi conservati. Un misterioso bancomat intestato a un amico-prestanome, Mirko Divani, e affidato alla Cracchi. Le ripetute trasferte in Bulgaria, dove la regione Emilia-Romagna ha un ufficio di rappresentanza e il sindaco gestisce imprecisati interessi economici. Alcune voci parlano anche di una settimana in un villaggio vacanze nello Yucatan, che di viaggio istituzionale ha ben poco. Per poi finire con le sedici missioni del vicepresidente tra il 2003 e il 2008. Le accuse formulate sono, dunque, di abuso di ufficio e peculato.
Ma negli ultimi giorni, un altro reato è stato contestato al sindaco: la truffa aggravata. Cinzia Cracchi è infatti dovuta tornare in Procura davanti al procuratore aggiunto Massimiliano Persico e al pm Morena Plazzi, dopo aver dichiarato al Corriere di Bologna, che Delbono le ha offerto “aiuto economico e una consulenza da 1500 euro al mese” per ammorbidire le dichiarazioni davanti ai magistrati. Un’accusa gravissima, che ha portato gli inquirenti alla convocazione del sindaco, sentito ieri (23 gennaio) in Procura.
Il sindaco ha risposto all’accusa prima negando, per poi fare un passo indietro e rovesciare la frittata. “Da dopo il ballottaggio tra i due ci sono stati molti incontri, perché la Cracchi è animata da sentimenti personali. Infatti, era lei che cercava il mio assistito, anche per ricucire un rapporto che, per sette anni, è stato una storia d’amore” dice l’avvocato Paolo Trombetti, nominato peraltro dal sindaco lo scorso ottobre nel cda del Gruppo Hera, la holding multi-servizi del Comune. Numerosi incontro dunque. Ma ci troviamo di fronte a due voci contrastanti. Sarà compito dei pm ora accertare chi dei due stia ammettendo il vero.
Intanto ieri, l’interrogatorio in Procura del sindaco di Bologna è durato cinque ore: nelle prime due ha risposto alle domande del Pm sui viaggi al centro dell’inchiesta, mentre nella seconda parte ha fornito dichiarazioni spontanee in merito agli altri temi emersi. Delbono, rivolgendosi ai cronisti afferma di aver “fornito ampi elementi per dimostrare l’uso corretto delle risorse pubbliche e abbiamo fornito anche documenti e prove testimoniali che potranno attestare la correttezza del mio comportamento”.
Le domande sono tante e le risposte, per ora, sembrano apparentemente poche. La vicenda risulta comunque essere nota a di molti consiglieri comunali già da diverso tempo, forse da Marzo. Ma nessuno di loro informò l’autorità giudiziaria, anche se essendo pubblici ufficiali avrebbero dovuto farlo, codice penale alla mano. Informazioni che forse avrebbero portato ad un differente esito delle elezioni. Di sicuro, ora, all’interno del Pd emiliano tira una brutta aria. E le dimissioni del sindaco, se fossero accertate le accuse nei suoi confronti, non dovrebbero essere cosi lontane.
Soprattutto dopo che Delbono ha dichiarato che non si dimetterà neppure se dovesse essere rinviato a giudizio: “L’idea non esiste e non mi ha mai sfiorato il cervello, è un punto di vista che non mi appartiene, non sono ricattabile perché so perfettamente cos’ho fatto, so di avere sempre rispettato le leggi e speso bene le risorse pubbliche, mai per interessi personali”. Sarà. Ma di sicuro non è un ottimo esempio di etica politica.