di Ilvio Pannullo

Che la Costituzione repubblicana del 1948 non piacesse al Presidente del Consiglio era cosa nota da molto tempo. Quanto sta accadendo in questi giorni, tuttavia, dà modo di capire chiaramente quale sia il filo rosso che collega le 99 proposte di modifica giacenti in Parlamento. L'ultima uscita in ordine di tempo del Ministro dei Lavori Pubblici, Renato Brunetta, secondo il quale l'affermazione che "l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro" non significherebbe nulla, è solo la punta dell'iceberg.

La volontà politica eversiva che anima la maggioranza di governo emerge, infatti, in tutta la sua brutalità, dalla lettura attenta delle proposte di modifica già depositate dai parlamentari nelle rispettive camere di appartenenza. Non che questi godano di una indipendenza politica od intellettuale, ma dopo le esternazioni del premier, secondo il quale la Costituzione italiana sarebbe nulla più che "una legge fatta molti anni fa, sotto l'influenza della fine di una dittatura e con la presenza al tavolo di forze ideologizzate che hanno guardato alla costituzione russa come a un modello", l'assalto è iniziato.

Si va dai leghisti, come il deputato Giacomo Stucchi, che pensa all'autonomia della provincia di Bergamo, al più temerario senatore del Popolo della Libertà, Lucio Malan, che vorrebbe revisionare "l'ordinamento della Repubblica sulla base del principio della divisione dei poteri". Anticipando di un anno il Ministro Brunetta, nel novembre del 2008 Malan proponeva di modificare l'articolo 1, trasformando l'Italia in una Repubblica "fondata sui principi di libertà e responsabilità, sul lavoro e sulla civiltà dei cittadini che la formano". Una Repubblica - così la sogna Malan - dove i senatori a vita non votano, il Presidente del Consiglio non presta giuramento e il governo non ha bisogno della fiducia delle Camere. A questi si aggiunge Davide Caparini che vorrebbe stralciare dal testo dell'articolo 33 quella parte secondo cui la scuola privata vive “senza oneri per lo Stato”.

Il loro meglio però, prevedibilmente, i parlamentari del PdL lo esprimono in materia di giustizia: si contano infatti ben quattro disegni di legge per il ripristino dell'immunità parlamentare e si lavora anche su come semplificare il procedimento legislativo. Una proposta del deputato Giorgio Jannone vorrebbe modificare l'articolo 72 e fare in modo che "non sempre l'assemblea sia chiamata a votare progetti di legge approvandoli articolo per articolo e con votazione finale". Un tentativo forse da interpretare come un servizio al presidente Berlusconi, che già aveva proposto, in una delle sue tante uscite dissennate, di approvare le leggi attraverso il voto dei soli capigruppo. C'è chi poi come Raffaello Vignali vorrebbe addirittura modificare gli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale, supremo organo di garanzia insieme al Presidente della Repubblica dell'ordine costituzionale, rea di essersi messa troppe volte contro gli interessi del Re di Arcore.

Le riforme riguardanti la magistratura sono, ovviamente, tra le più stravaganti. Giuseppe Valentino propone una corte di giustizia disciplinare, Antonio Caruso un'alta corte di giustizia, Gaetano Pecorella, forse stanco di doversi sempre studiare tutte le carte dei molti processi a carico del suo assai munifico cliente, passa invece il suo tempo occupandosi di PM e Procure, immagina una divisione delle carriere sancita dalla stessa Costituzione. Ovviamente proporre una modifica non equivale a modificare, ma quello che tuttavia colpisce - e che traspare palesemente dalle molte proposte già depositate - è la totale ignoranza delle ragioni storiche e politiche che portarono a quello straordinario compromesso ideologico che ha rappresentato, e tuttora rappresenta, la Costituzione italiana del 1948. Una carta unica, che rappresenta un punto fermo nella storia del costituzionalismo europeo e che viene considerata da molti addetti ai lavori come un vero è proprio prodigio giuridico, proprio per quella lungimiranza delle disposizioni che la rendono, ancora oggi a distanza di più di 60 anni, straordinariamente attuale.

La Costituzione del 1948 trovò la sua premessa nella resistenza, nel ripudio dello Stato autoritario e dei suoi dogmi, nella volontà di ripristinare la democrazia e i principi dello Stato di diritto, umiliati durante il ventennio fascista. Sulla base dell'idea liberale che vuole il potere regolato e sottoposto a limiti giuridici per garantire diritti e libertà, storicamente congiunto all'idea democratica, s’innestarono elementi propri delle dottrine delle due ideologie dominanti: quella cristiano sociale e quella socialista. La Costituzione italiana va, infatti, collocata in uno scenario più ampio, addirittura mondiale, traversato da idee e speranze comuni maturate attraverso esperienze tragiche che non si volevano ripetere.

Per questi motivi, nonostante sia corretto, è tuttavia riduttivo vedere nella Costituzione solo il prodotto dell'antifascismo, il rigetto della dittatura come esperienza italiana. La lotta antifascista s’iscrive, infatti, nell'ampio scenario di una guerra mondiale condotta e vinta contro tutti i fascismi, uno scenario dominato dall'intento di costruire un mondo diverso e migliore, che potesse ridare dignità alla persona umana. Il valore della persona era nella cultura comune dei costituenti; tutti, dal primo all'ultimo, siano essi stati comunisti, socialisti, liberali, repubblicani o democristiani. Un'unione di forze, di spiriti e d’intenti che oggi sarebbe impensabile, ma che allora si raggiunse dando alla luce il documento che oggi è alla base dell'unità nazionale. I costituenti erano infatti decisi nell'affermare i diritti non solo come garanzia di una sfera intoccabile di libertà e di partecipazione politica, ma anche come tutela effettiva dei diritti stessi attraverso l'assicurazione di condizioni esistenziali dignitose.

Accanto alle libertà tradizionali, di pensiero, di espressione, di religione, si affiancavano la libertà dalla paura e dal bisogno. Accanto alla necessità di assicurare teoricamente al cittadino le libertà politiche si sentì la necessità di metterlo in condizione di potersene praticamente servire. Di libertà politica "potrà parlarsi solo in un ordinamento in cui essa sia accompagnata per tutti dalla garanzia di quel minimo benessere economico", senza il quale la possibilità di esercitare i propri diritti viene meno.

Così parlava Carlo Rosselli, grande giurista al cui pensiero s’ispirò quel Piero Calamandrei del gruppo autonomista, cui si deve uno dei passaggi forse più importanti della nostra Costituzione: quell'articolo tre comma due, secondo il quale "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica economica e sociale del paese".

È per tutte queste ragioni che la costituzione trova in se stessa la propria ragione di esistere. In essa si trova la piena esplicazione di quei principi su cui si fonda il potere costituito ed è per questo che anche le leggi di revisione costituzionale sono sottoposte al giudizio di costituzionalità. In altri termini, non è possibile inserire nella Costituzione quello che si vuole: per esempio, purtroppo per Brunetta, non vi si potrebbe inserire una norma che dica: "L'Italia una Repubblica democratica fondata sulla rendita finanziaria"; perché sarebbe in contrasto con il principio fondamentale previsto dall'articolo 1, secondo il quale "l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro". Perciò una norma del genere, anche se è prevista con una legge di revisione costituzionale, sarebbe essa stessa incostituzionale.

Così, anche un lodo Alfano costituzionalizzato sarebbe sempre incostituzionale, perché in contrasto con l'articolo 3, quello che perentoriamente afferma che "tutti cittadini sono uguali davanti alla legge". Dovranno darsi dunque pace: sia che la loro impunità sia prevista da una legge ordinaria, sia che sia prevista da una legge costituzionale, sempre incostituzionale rimarrà. Il nostro paese ha già conosciuto il cancro della dittatura, è riuscito a liberarsene e ha deciso di dotarsi degli indispensabili strumenti giuridici necessari per evitare una ricaduta. La Costituzione è la nostra storia, per questo va difesa a tutti i costi.

di Rosa Ana De Santis

La scuola del Ministro Gelmini inizia l’anno con l’annuncio del tetto massimo del 30% per la presenza di alunni stranieri nelle classi italiane. L’annuncio arriva nel giorno della rivolta degli schiavi immigrati di Rosarno e a corononamento di un anno pessimo, fatto di riforma a singhiozzi che ha seriamente compromesso il diritto all’istruzione, lasciandosi alle spalle tanti docenti disoccupati, classi numerose e alunni disabili senza adeguate ore di sostegno. Ma non era abbastanza. Il clima d’insofferenza e d’intolleranza ormai dilagante verso gli immigrati, doveva trovare una consacrazione formale da parte delle Istituzioni e nessun luogo poteva essere più adatto se non quello dell’educazione pubblica.

Il provvedimento del Ministro fonda le ragioni di questa regolamentazione d’accesso nella tutela della didattica dell’integrazione e nell’impedimento di classi-ghetto per soli stranieri. Il dato interessante è che il Ministro parli genericamente di alunni non italiani. L’omissione di specifiche che darebbero indicazioni necessarie e molto importanti ai dirigenti scolastici, tradisce l’ambizione autentica che ha ispirato le carte. La scuola dei presepi e del bianco natale, quella delle classi ponte, quella dei cori per soli cattolici, quella che deve tenere i crocefissi sulle cattedre. Una scuola che non abbia tracce evidenti di altre culture o di altri stranieri. Una scuola per soli italiani che si disturbi per somma bontà cristiana di riservare qualche aula ai figli degli immigrati.

L’elemento che inficerebbe la corretta didattica, nel caso di forte presenza di stranieri, sarebbe la non conoscenza della lingua italiana. Davvero bizzarro che un obiettivo della scuola si trasformi in una premessa imprescindibile di accesso. Strano soprattutto per la velocità di apprendimento che i più piccoli hanno sulle lingue straniere. Vale lo stesso per i bambini e i giovani italiani che parlano ricorrendo agli idiomi dialettali e che non conoscono la vera lingua italiana e la sua grammatica? No, se la memoria non ci tradisce. Solo qualche mese fa la proposta della Lega di insegnare i dialetti a scuola, rubando tempo alla didattica tradizionale, non aveva destato ilarità o rimbrotti dal governo e la Gelmini, pur non ravvedendone l’urgenza, l’aveva considerata una proposta interessante. E la didattica e l’italiano?

Il tetto massimo del 30% di stranieri può, anche per la fumosità dei termini e delle indicazioni utilizzate, aprire la strada a discriminazioni pesantissime e, soprattutto, inficiare sul lungo periodo l’unica seria possibilità di integrare diverse culture in un Paese che, come tutto l’Occidente, vive la grande odissea dell’immigrazione. Chi sono poi gli stranieri da limitare? I figli d’immigrati appena arrivati in Italia che non parlano bene la nostra lingua? I figli di seconda generazione, che da tempo appartengono alla nostra società e al nostro Paese? E cosa accadrà per quelli in eccesso? Andranno a finire nelle classi ghetto, che il Ministro voleva scongiurare, per imparare l’italiano con una bella etichetta sulla schiena che li faccia riconoscere da tutti come alunni non italiani?

Se la smania dei tagli non avesse ispirato la riforma dei numeri, avremmo ancora le famose ore di compresenza e i docenti, ora disoccupati, sarebbero stati, adesso più di prima,  preziosi nel lavoro di integrazione necessario a portare a termine il programma ministeriale (quello che rimaneva incompleto ben prima che arrivassero gli stranieri) e nell’opera straordinaria e difficile di portare sui banchi di scuola tanti mondi diversi. Una lezione di civiltà che proprio nella scuola pubblica i figli di tutti avrebbero dovuto imparare, lasciando ai grandi tutto il tempo della delusione e del cinismo realistico. Sfuma così, con quest’annuncio d’italianità che puzza di fascismo, il progetto di una pacifica convivenza di diverse culture e si avvicina il rischio per tutti di un futuro che vuole parlare una sola lingua e credere in un solo dio.

 

di Ilvio Pannullo

Ormai non possono esserci più dubbi. Non che ve ne fossero mai stati, ma vederlo scritto su di un documento ufficiale del Governo ha un peso diverso. La notizia è che il mandante - o meglio, l'utilizzatore finale - dei dossier Sismi, era Silvio Berlusconi. Dietro le schedature di massa dei magistrati e dei presunti avversari politici del premier da parte del Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare e lo spionaggio operato dalla security di Telecom di almeno cinquemila cittadini, c'era l'avallo del governo. Questo perché sia l'ufficio di Via Nazionale a Roma, dove i servizi militari monitoravano l'attività di chi era considerato nemico del premier, sia la compagnia telefonica, rientrano in qualche modo negli "assetti operativi" del Sismi.

È una nota diffusa ieri da Palazzo Chigi, probabilmente per smorzare il crescente stupore degli addetti ai lavori, a sgomberare il campo da tutte le possibili interpretazioni di quello che passerà alla storia come l’ennesimo scandalo, l’ennesimo segreto di un’Italia dove ad infrangere la legge sono quelle stesse istituzioni che ne dovrebbero garantire la corretta applicazione. Il comunicato chiarisce, infatti, che il segreto di Stato opposto da Mancini sarebbe stato confermato con riguardo ai soli atti processuali "riferibili alle relazioni internazionali tra servizi ed agli interna corporis degli organi informativi".

La Procura della Repubblica dunque non potrà, a causa della decisione presa dal Governo, indagare all’interno dei meccanismi dei Servizi segreti militari per ragioni di opportunità politica. Tuttavia, appare difficile comprendere a cosa quest'ultima formula faccia riferimento, considerando che il Mancini risulta accusato di associazione per delinquere, corruzione e rivelazione di notizie non divulgabili, e dal momento che il capo d'accusa formulato dal Pubblico Ministero "non riguarda la divulgazione di fatti coperti da segreto di Stato", bensì unicamente la “compravendita” che lo stesso Mancini avrebbe fatto di "informazioni patrimonio di sue conoscenze professionali” nel seno del Sismi.

La questione si pone in questi termini: la sentenza costituzionale emessa l’ 11 marzo 2009  in rapporto al "caso Abu Omar”, precisava che il segreto di Stato dovesse essere interpretato estensivamente anche con riferimento agli "assetti organizzativi ed operativi" del Sismi. Appare però poco verosimile la ricostruzione secondo la quale si dovrebbe forse pensare che nei medesimi assetti fossero da inquadrarsi anche gli oscuri rapporti intercorsi, secondo l'accusa, tra il Mancini , ex responsabile del controspionaggio, Giuliano Tavaroli, ex capo della security di Telecom e l'investigatore privato fiorentino, Emanuele Cipriani, coimputati nel processo oramai noto come “affare Telecom”.

Questa, infatti, stando alle memorie difensive depositate agli atti, è la tesi difensiva sostenuta dal Mancini, peraltro neanche puntualmente sviluppata proprio a causa dell’asserita presenza di notizie coperte dal segreto di Stato. Ma proprio questa tesi parrebbe adesso accreditata dal provvedimento di conferma del Presidente del Consiglio, come a voler dire che quei "contatti legittimi di natura istituzionale" vantati dal Mancini con alcuni degli altri imputati, nell'ambito di "rapporti con fonti sotto copertura", fossero davvero riconducibili a materie oggetto di segreto di Stato. Se così fosse, l'esito del processo sarebbe sicuramente segnato e nulla mai si saprebbe su di uno dei più grandi scandali della seconda Repubblica.

Il quadro generale rimane comunque desolante, indipendentemente dalle vicende che riguarderanno il processo in un prossimo futuro. Come sostenuto anche dal titolare della cattedra di procedura penale all’Università di Pavia, Vittorio Grevi, sulle pagine del Corriere della Sera, " l'area di operatività del segreto di Stato, per sua natura doverosamente ristretta ed eccezionale, sembrerebbe oggi potersi allargare a dismisura, fino a coprire qualunque attività (anche gravemente illecita) degli esponenti dei servizi e delle loro "fonti esterne", più o meno consapevoli di esserlo". Se si pensa, infatti, che i personaggi coinvolti nell'affare Telecom potranno godere della più totale impunità, coperti da una volontà politica opaca e sempre disponibile al compromesso, c'è veramente motivo di preoccuparsi.

L'utilizzo sconsiderato, infatti, del segreto di Stato quale mezzo di sbarramento opposto al controllo di legalità spettante alla magistratura non può non essere considerato come un atto di sostegno al modus operandi dei servizi. Ne esce un quadro imbarazzante, con un capo del governo che, con una mano, attraverso il sottosegretario alla presidenza del consiglio - quell'infaticabile Gianni Letta di cui nessuno può parlar male - gestisce i servizi segreti, sfruttando la loro capacità di acquisire e gestire informazioni, e con l'altra, attraverso il suo gigantesco impero mediatico, simbolo cristallizzato di una Italia fondata sul conflitto di interessi, dispone a proprio piacimento e secondo l'utilità politica del momento delle informazioni così illecitamente ottenute.

In una simile ricostruzione, purtroppo assai poco fantasiosa, i servizi appaiono strumentali agli interessi del Presidente del Consiglio: uomo certamente ricattabile per il suo passato, per le sue insolite conoscenze, per le sue mai spiegate ricchezze, ma comunque capace di ricattare chiunque si opponga alla sua volontà. Silvio Berlusconi è così, comprende un unico valore: l'obbedienza. Chi serve il capo viene ricompensato con lauti premi, incarichi o magari con un posto in Parlamento; chi coraggiosamente invece gli si oppone si espone alla feroce sete di vendetta. La situazione è dunque drammatica, ma l'importante è che nessuno lo sappia. Dopotutto è un segreto di Stato.

di Mario Braconi

A dispetto dell'occhiuta vigilanza censoria che il regime ha orchestrato anche grazie alla tecnologia fornita da grandi marchi dell'industria europea (Siemens e Nokia tra gli altri), la sanguinosa repressione della dissidenza politica in Iran è stata largamente documentata in Occidente. A chiunque ricercasse una testimonianza diretta delle manovre criminali delle polizie controllate dalla Grande Guida, così come del valore dei suoi oppositori, è stato sufficiente accendere il computer e collegarsi con YouTube.

Immagini con cui è difficile convivere: manifestanti massacrati dalle pallottole o dai paraurti delle camionette, il cui corpo, sotto gli occhi saltellanti di una videocamera o di un telefonino, viene trasformato in una massa informe sanguinolenta, mentre i compagni si affannano in disperati ed inutili tentativi di riportarli in vita. Gli oppositori vengono invariabilmente colpiti al capo: non è un caso, il braccio armato del tiranno colpisce per uccidere.

Dopo i brogli di giugno e dopo i fatti di fine dicembre 2009, Teheran fa fatica a nascondersi dietro una facciata di rispettabilità: ormai è diventato impossibile nascondere delle mani tanto lorde di sangue e nessuno, in Europa come negli USA, potrà dire credibilmente che "non sapeva". A parte, sembra, il nostro Ministro degli Esteri. In un'intervista del 2 gennaio dal Corriere della Sera, Franco Frattini si esibisce in affermazioni funamboliche degne del don Abbondio di manzoniana memoria: se da un lato il Ministro riconosce che "in Iran sono in gioco le libertà fondamentali" (e non da ora ndr) e che l'Italia non intende "voltare la testa" fingendo di non vedere, la posizione ufficiale del nostro Paese è "non interferire con gli assetti politici di quel Paese". Il trionfo della realpolitik all'amatriciana.

Tuttavia, quando Andrea Garibaldi del Corsera gli chiede la sua opinione sull'opportunità di una visita di un gruppo di rappresentanti del Parlamento Europeo, in calendario per il 7 gennaio, la risposta di Frattini è francamente sconcertante: "Credo che quella visita sia opportuna. Sono favorevole ad ogni incontro interparlamentare. Inviterei subito a Montecitorio la commissione esteri del Parlamento iraniano". Frattini dunque invita ufficialmente addirittura dentro la sede del Parlamento della Repubblica Italiana gli incliti rappresentanti di quello stesso governo che abbiamo visto all'opera con gli arresti di massa, le detenzioni arbitrarie, gli assassini politici, gli stupri, le sparizioni, le manganellate; un'idea talmente estrema ed irragionevole da lasciare a bocca aperta anche coloro che ritengono che quel luogo abbia da tempo perso la sua aura sacra. E perché, verrebbe da dire, non invitare questi incliti campioni di democrazia a qualche talk show chez Silvio.

Va detto tuttavia che la posizione del Ministro è isolata addirittura all'interno del Popolo delle Libertà, ovvero di un partito che in genere si è distinto per il suo atteggiamento conciliante nei confronti delle semi-dittature, come la Federazione Russa dell'"amico" Vladimir. A quanto riporta il Corsera, Mario Mauro, capodelegazione del PDL al Parlamento Europeo, avrebbe scritto a Jerzy Buzek (presidente del Parlamento) sollecitando una verifica sull'opportunità della spedizione degli 11 eurodeputati alla volta di Teheran. Stupisce favorevolmente anche la dichiarazione di Fabrizio Cicchitto, capogruppo del PDL alla Camera: "Si levi una protesta da parte di tutte le principali forze politiche, in modo da far sentire a quel regime l’isolamento internazionale a cui sta andando incontro: è una situazione gravissima che non consente reticenze o silenzi".

A costo di eccedere con l'ottimismo, sembra che molti politici italiani, tra cui anche i più insospettabili, abbiano manifestato in questo caso un barlume di buon senso. Esattamente quello che sembra disperatamente difettare al nostro Ministro Frattini. A fargli compagnia, solo l'inossidabile Lamberto Dini, infaticabile lobbista di interessi privati nella cosa pubblica ("la posizione di Frattini è corretta, iniziative di isolamento potrebbero rinsaldare il regime e se l’Europa ha deciso la missione e il governo iraniano l’accoglie, è giusto farla").

Del resto, in Iran sono presenti diverse aziende italiane che operano nei settori petrolifero, siderurgico, energetico, petrolchimico, automobilistico, delle costruzioni, delle macchine ed apparecchi meccanici: ENI, Tecnimont, Edison, Ansaldo, FIAT e Fata, per fare qualche nome. Se venisse confermato l'andamento delle variabili evidenziato nei primi tre trimestri del 2009, l'interscambio Italia-Iran (ovvero la somma di importazioni ed esportazioni tra i due Paesi) potrebbe attestarsi sotto i 4 miliardi di Euro (contro i 6 abbondanti registrati nel 2008). Si consideri inoltre che, nel 2008 più della metà delle nostre esportazioni verso la Repubblica islamica erano legate al settore delle attrezzature e macchinari industriali, molto esposto alla concorrenza cinese.

Dunque, benché l'Italia sia il primo partner commerciale dell'Iran tra gli stati membri dell'Unione Europea, per lo Stato Italiano (azionista di ENI) e per gli imprenditori privati che hanno messo soldi in Iran, le cose non vanno troppo bene. Cosa che sembra preoccupare il Ministro Frattini più di quanto lo impressioni il sangue innocente che bagna quotidianamente i marciapiedi e le stanze delle torture di Teheran.

Fortunatamente, alla fine la visita è stata cancellata in extremis il 4 gennaio. Non manca un piccolo "giallo": Barbara Lochbihler, eurodeputato Verde, presidente della Delegazione per i rapporti con l'Iran e capo della delegazione che avrebbe dovuto viaggiare nella repubblica islamica, ha infatti dichiarato alla Reuters che l'incontro è saltato per mancanza delle condizioni minime per le sua tenuta: "La delegazione avrebbe espresso solidarietà al movimento di protesta, cosa che il governo iraniano ha ritenuto troppo pericolosa" ha dichiarato la parlamentare. L'agenzia di stampa del regime iraniano IRNA, invece, citando Ramin Mehmanparast, portavoce del ministro degli Esteri iraniano, si è espressa in modo assai più conciliante: "La data dell'incontro è stata rimandata per garantire una migliore e più costruttiva cooperazione tra organi parlamentari." Cancellazione o riprogrammazione? Non è dato sapere.

C'è però un elemento interessante che può spiegare quale sia il retroscena del cambio di atteggiamento del Parlamento Europeo: la missiva che 15 deputati e senatori americani hanno spedito lo scorso 22 dicembre al presidente dell'Europarlamento, Jerzy Buzek, nella quale il viaggio della delegazione veniva definito "potenzialmente dannoso" ed in grado di sabotare gli sforzi della comunità internazionale volti ad impedire lo sviluppo di un programma nucleare iraniano".

Viene fuori un quadro deprimente delle nostre istituzioni, nazionali od europee che siano: insensibili ai diritti umani, neutrali nei confronti delle più ripugnanti dittature, schiave delle lobby e sempre pronte a genuflettersi agli ordini di scuderia provenienti dagli Stati Uniti. Niente che già non sapessimo.

di Nicola Lillo

“Parole, parole, parole”. Così cantava Mina, duettando con Alberto Lupo nei lontani anni ’70. E questo sembra essere l’esito e l’effetto prodotto dalle parole del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, durante il consueto intervento di fine anno. Napolitano parla di crisi economica, da cui non siamo ancora usciti, di coraggio, riforme economiche e sociali, equità, più cura per chi subisce i danni più gravi, come i ceti deboli e il Mezzogiorno. Parla della riforma del fisco, degli ammortizzatori sociali.

Nomina le riforme: quelle istituzionali e della giustizia, che “non possono essere ancora tenute in sospeso, bloccate da un clima di sospetto”. Sono questi i temi principali toccati nel corso del messaggio di fine anno, il quarto del Settennato. Una ventina di minuti senza mai un cenno ai ricercatori dell’Ispra, alla Fiat di Termini Imerese, a tutte le altre fabbriche in procinto di chiusura. Un discorso per lo più cosparso di buoni propositi.

Sul tema delle riforme - il più caro, attualmente, alla classe politica dirigente - il Presidente Napolitano afferma che occorrono per “un più efficace funzionamento dello Stato e non possono essere bloccate da un clima di sospetto fra le forze politiche e da opposte pregiudiziali”. “E’ essenziale che siano sempre garantiti equilibri fondamentali tra governo e Parlamento, tra potere esecutivo e legislativo e istituzioni di garanzia, e che ci siano regole in cui debbano riconoscersi gli schieramenti sia di governo sia di opposizione. (…). Si andrà avanti, non ci si bloccherà in sterili recriminazioni e contrapposizioni”. Napolitano ha, inoltre, rinnovato la condanna dell’aggressione a Silvio Berlusconi e l’impegno ad operare per “attenuare le tensioni”. “È mio dovere - continua il Presidente - realizzare una maggiore unità della nazione: un impegno che richiede ancora tempo e pazienza, ma da cui non desisterò”. Conclude il discorso dichiarando che “i cittadini italiani in tempi difficili come quelli attuali hanno bisogno di maggiore serenità. Serenità e speranza che sento di potervi trasmettere oggi con il mio augurio per il 2010”.

Plauso unanime per il discorso, a partire dal premier Silvio Berlusconi, tra i primi a telefonare al Capo dello Stato Giorgio Napolitano, dopo aver ascoltato il messaggio, esprimendo personalmente il suo apprezzamento. La voce fuori dal coro é di Antonio Di Pietro. “Il discorso di Napolitano è di per sé condivisibile, come tutte le dichiarazioni di buoni propositi. Sono improcrastinabili riforme che garantiscano un futuro a questo Paese. Ma per quanto riguarda la riforma della giustizia, il problema è sempre lo stesso: le riforme che vuole questo Governo sono solo ed esclusivamente norme per salvare Berlusconi dai suoi guai giudiziari. Su questo tema, non credo si possa parlare di clima di sospetto, ma di certezza, visto che questi provvedimenti sono già all’esame del Parlamento. Sono sicuro - conclude Di Pietro - che il Presidente della Repubblica saprà essere garante dei principi della Costituzione e che, questa volta, non firmerà questi orrori”.

Ma qual è stato il suo effetto? Oltre al plauso unanime e qualche voce fuori dal coro, da evidenziare è l’intervento del ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta. Anche qui, “parole, parole, parole”. Ma non vaghe e generali, come potevano essere quelle di Napolitano, bensì del tutto strampalate. Intervistato da Libero, Brunetta ha affermato che è necessario cambiare anche la prima parte della Costituzione e non solo la seconda (come dichiarato dal Presidente della Repubblica) articolo 1 compreso: “Stabilire che l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla”. Bonaiuti segue dicendo: “Sono del parere che non bisogna mai mettere troppa carne al fuoco, però tutto si può vedere”. Come dire: non tutto subito!

Durissimo invece Di Pietro: “Come volevasi dimostrare: dai un dito e si fregano il braccio”. Per l’ex-pm, le parole del Capo dello Stato sono state “forse incaute visti gli interlocutori”. Per essere più chiaro, il leader dell’IDV ha aggiunto: “Napolitano ha messo il vento in poppa alla barca dei pirati che utilizzerà strumentalmente le dichiarazioni di chi rappresenta le istituzioni per distruggere e mortificare le stesse”. A quali altre parole, ma soprattutto a quali azioni e atti governativi, ci dobbiamo prepare?

 


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