di Ilvio Pannullo

Ormai non possono esserci più dubbi. Non che ve ne fossero mai stati, ma vederlo scritto su di un documento ufficiale del Governo ha un peso diverso. La notizia è che il mandante - o meglio, l'utilizzatore finale - dei dossier Sismi, era Silvio Berlusconi. Dietro le schedature di massa dei magistrati e dei presunti avversari politici del premier da parte del Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare e lo spionaggio operato dalla security di Telecom di almeno cinquemila cittadini, c'era l'avallo del governo. Questo perché sia l'ufficio di Via Nazionale a Roma, dove i servizi militari monitoravano l'attività di chi era considerato nemico del premier, sia la compagnia telefonica, rientrano in qualche modo negli "assetti operativi" del Sismi.

È una nota diffusa ieri da Palazzo Chigi, probabilmente per smorzare il crescente stupore degli addetti ai lavori, a sgomberare il campo da tutte le possibili interpretazioni di quello che passerà alla storia come l’ennesimo scandalo, l’ennesimo segreto di un’Italia dove ad infrangere la legge sono quelle stesse istituzioni che ne dovrebbero garantire la corretta applicazione. Il comunicato chiarisce, infatti, che il segreto di Stato opposto da Mancini sarebbe stato confermato con riguardo ai soli atti processuali "riferibili alle relazioni internazionali tra servizi ed agli interna corporis degli organi informativi".

La Procura della Repubblica dunque non potrà, a causa della decisione presa dal Governo, indagare all’interno dei meccanismi dei Servizi segreti militari per ragioni di opportunità politica. Tuttavia, appare difficile comprendere a cosa quest'ultima formula faccia riferimento, considerando che il Mancini risulta accusato di associazione per delinquere, corruzione e rivelazione di notizie non divulgabili, e dal momento che il capo d'accusa formulato dal Pubblico Ministero "non riguarda la divulgazione di fatti coperti da segreto di Stato", bensì unicamente la “compravendita” che lo stesso Mancini avrebbe fatto di "informazioni patrimonio di sue conoscenze professionali” nel seno del Sismi.

La questione si pone in questi termini: la sentenza costituzionale emessa l’ 11 marzo 2009  in rapporto al "caso Abu Omar”, precisava che il segreto di Stato dovesse essere interpretato estensivamente anche con riferimento agli "assetti organizzativi ed operativi" del Sismi. Appare però poco verosimile la ricostruzione secondo la quale si dovrebbe forse pensare che nei medesimi assetti fossero da inquadrarsi anche gli oscuri rapporti intercorsi, secondo l'accusa, tra il Mancini , ex responsabile del controspionaggio, Giuliano Tavaroli, ex capo della security di Telecom e l'investigatore privato fiorentino, Emanuele Cipriani, coimputati nel processo oramai noto come “affare Telecom”.

Questa, infatti, stando alle memorie difensive depositate agli atti, è la tesi difensiva sostenuta dal Mancini, peraltro neanche puntualmente sviluppata proprio a causa dell’asserita presenza di notizie coperte dal segreto di Stato. Ma proprio questa tesi parrebbe adesso accreditata dal provvedimento di conferma del Presidente del Consiglio, come a voler dire che quei "contatti legittimi di natura istituzionale" vantati dal Mancini con alcuni degli altri imputati, nell'ambito di "rapporti con fonti sotto copertura", fossero davvero riconducibili a materie oggetto di segreto di Stato. Se così fosse, l'esito del processo sarebbe sicuramente segnato e nulla mai si saprebbe su di uno dei più grandi scandali della seconda Repubblica.

Il quadro generale rimane comunque desolante, indipendentemente dalle vicende che riguarderanno il processo in un prossimo futuro. Come sostenuto anche dal titolare della cattedra di procedura penale all’Università di Pavia, Vittorio Grevi, sulle pagine del Corriere della Sera, " l'area di operatività del segreto di Stato, per sua natura doverosamente ristretta ed eccezionale, sembrerebbe oggi potersi allargare a dismisura, fino a coprire qualunque attività (anche gravemente illecita) degli esponenti dei servizi e delle loro "fonti esterne", più o meno consapevoli di esserlo". Se si pensa, infatti, che i personaggi coinvolti nell'affare Telecom potranno godere della più totale impunità, coperti da una volontà politica opaca e sempre disponibile al compromesso, c'è veramente motivo di preoccuparsi.

L'utilizzo sconsiderato, infatti, del segreto di Stato quale mezzo di sbarramento opposto al controllo di legalità spettante alla magistratura non può non essere considerato come un atto di sostegno al modus operandi dei servizi. Ne esce un quadro imbarazzante, con un capo del governo che, con una mano, attraverso il sottosegretario alla presidenza del consiglio - quell'infaticabile Gianni Letta di cui nessuno può parlar male - gestisce i servizi segreti, sfruttando la loro capacità di acquisire e gestire informazioni, e con l'altra, attraverso il suo gigantesco impero mediatico, simbolo cristallizzato di una Italia fondata sul conflitto di interessi, dispone a proprio piacimento e secondo l'utilità politica del momento delle informazioni così illecitamente ottenute.

In una simile ricostruzione, purtroppo assai poco fantasiosa, i servizi appaiono strumentali agli interessi del Presidente del Consiglio: uomo certamente ricattabile per il suo passato, per le sue insolite conoscenze, per le sue mai spiegate ricchezze, ma comunque capace di ricattare chiunque si opponga alla sua volontà. Silvio Berlusconi è così, comprende un unico valore: l'obbedienza. Chi serve il capo viene ricompensato con lauti premi, incarichi o magari con un posto in Parlamento; chi coraggiosamente invece gli si oppone si espone alla feroce sete di vendetta. La situazione è dunque drammatica, ma l'importante è che nessuno lo sappia. Dopotutto è un segreto di Stato.

di Mario Braconi

A dispetto dell'occhiuta vigilanza censoria che il regime ha orchestrato anche grazie alla tecnologia fornita da grandi marchi dell'industria europea (Siemens e Nokia tra gli altri), la sanguinosa repressione della dissidenza politica in Iran è stata largamente documentata in Occidente. A chiunque ricercasse una testimonianza diretta delle manovre criminali delle polizie controllate dalla Grande Guida, così come del valore dei suoi oppositori, è stato sufficiente accendere il computer e collegarsi con YouTube.

Immagini con cui è difficile convivere: manifestanti massacrati dalle pallottole o dai paraurti delle camionette, il cui corpo, sotto gli occhi saltellanti di una videocamera o di un telefonino, viene trasformato in una massa informe sanguinolenta, mentre i compagni si affannano in disperati ed inutili tentativi di riportarli in vita. Gli oppositori vengono invariabilmente colpiti al capo: non è un caso, il braccio armato del tiranno colpisce per uccidere.

Dopo i brogli di giugno e dopo i fatti di fine dicembre 2009, Teheran fa fatica a nascondersi dietro una facciata di rispettabilità: ormai è diventato impossibile nascondere delle mani tanto lorde di sangue e nessuno, in Europa come negli USA, potrà dire credibilmente che "non sapeva". A parte, sembra, il nostro Ministro degli Esteri. In un'intervista del 2 gennaio dal Corriere della Sera, Franco Frattini si esibisce in affermazioni funamboliche degne del don Abbondio di manzoniana memoria: se da un lato il Ministro riconosce che "in Iran sono in gioco le libertà fondamentali" (e non da ora ndr) e che l'Italia non intende "voltare la testa" fingendo di non vedere, la posizione ufficiale del nostro Paese è "non interferire con gli assetti politici di quel Paese". Il trionfo della realpolitik all'amatriciana.

Tuttavia, quando Andrea Garibaldi del Corsera gli chiede la sua opinione sull'opportunità di una visita di un gruppo di rappresentanti del Parlamento Europeo, in calendario per il 7 gennaio, la risposta di Frattini è francamente sconcertante: "Credo che quella visita sia opportuna. Sono favorevole ad ogni incontro interparlamentare. Inviterei subito a Montecitorio la commissione esteri del Parlamento iraniano". Frattini dunque invita ufficialmente addirittura dentro la sede del Parlamento della Repubblica Italiana gli incliti rappresentanti di quello stesso governo che abbiamo visto all'opera con gli arresti di massa, le detenzioni arbitrarie, gli assassini politici, gli stupri, le sparizioni, le manganellate; un'idea talmente estrema ed irragionevole da lasciare a bocca aperta anche coloro che ritengono che quel luogo abbia da tempo perso la sua aura sacra. E perché, verrebbe da dire, non invitare questi incliti campioni di democrazia a qualche talk show chez Silvio.

Va detto tuttavia che la posizione del Ministro è isolata addirittura all'interno del Popolo delle Libertà, ovvero di un partito che in genere si è distinto per il suo atteggiamento conciliante nei confronti delle semi-dittature, come la Federazione Russa dell'"amico" Vladimir. A quanto riporta il Corsera, Mario Mauro, capodelegazione del PDL al Parlamento Europeo, avrebbe scritto a Jerzy Buzek (presidente del Parlamento) sollecitando una verifica sull'opportunità della spedizione degli 11 eurodeputati alla volta di Teheran. Stupisce favorevolmente anche la dichiarazione di Fabrizio Cicchitto, capogruppo del PDL alla Camera: "Si levi una protesta da parte di tutte le principali forze politiche, in modo da far sentire a quel regime l’isolamento internazionale a cui sta andando incontro: è una situazione gravissima che non consente reticenze o silenzi".

A costo di eccedere con l'ottimismo, sembra che molti politici italiani, tra cui anche i più insospettabili, abbiano manifestato in questo caso un barlume di buon senso. Esattamente quello che sembra disperatamente difettare al nostro Ministro Frattini. A fargli compagnia, solo l'inossidabile Lamberto Dini, infaticabile lobbista di interessi privati nella cosa pubblica ("la posizione di Frattini è corretta, iniziative di isolamento potrebbero rinsaldare il regime e se l’Europa ha deciso la missione e il governo iraniano l’accoglie, è giusto farla").

Del resto, in Iran sono presenti diverse aziende italiane che operano nei settori petrolifero, siderurgico, energetico, petrolchimico, automobilistico, delle costruzioni, delle macchine ed apparecchi meccanici: ENI, Tecnimont, Edison, Ansaldo, FIAT e Fata, per fare qualche nome. Se venisse confermato l'andamento delle variabili evidenziato nei primi tre trimestri del 2009, l'interscambio Italia-Iran (ovvero la somma di importazioni ed esportazioni tra i due Paesi) potrebbe attestarsi sotto i 4 miliardi di Euro (contro i 6 abbondanti registrati nel 2008). Si consideri inoltre che, nel 2008 più della metà delle nostre esportazioni verso la Repubblica islamica erano legate al settore delle attrezzature e macchinari industriali, molto esposto alla concorrenza cinese.

Dunque, benché l'Italia sia il primo partner commerciale dell'Iran tra gli stati membri dell'Unione Europea, per lo Stato Italiano (azionista di ENI) e per gli imprenditori privati che hanno messo soldi in Iran, le cose non vanno troppo bene. Cosa che sembra preoccupare il Ministro Frattini più di quanto lo impressioni il sangue innocente che bagna quotidianamente i marciapiedi e le stanze delle torture di Teheran.

Fortunatamente, alla fine la visita è stata cancellata in extremis il 4 gennaio. Non manca un piccolo "giallo": Barbara Lochbihler, eurodeputato Verde, presidente della Delegazione per i rapporti con l'Iran e capo della delegazione che avrebbe dovuto viaggiare nella repubblica islamica, ha infatti dichiarato alla Reuters che l'incontro è saltato per mancanza delle condizioni minime per le sua tenuta: "La delegazione avrebbe espresso solidarietà al movimento di protesta, cosa che il governo iraniano ha ritenuto troppo pericolosa" ha dichiarato la parlamentare. L'agenzia di stampa del regime iraniano IRNA, invece, citando Ramin Mehmanparast, portavoce del ministro degli Esteri iraniano, si è espressa in modo assai più conciliante: "La data dell'incontro è stata rimandata per garantire una migliore e più costruttiva cooperazione tra organi parlamentari." Cancellazione o riprogrammazione? Non è dato sapere.

C'è però un elemento interessante che può spiegare quale sia il retroscena del cambio di atteggiamento del Parlamento Europeo: la missiva che 15 deputati e senatori americani hanno spedito lo scorso 22 dicembre al presidente dell'Europarlamento, Jerzy Buzek, nella quale il viaggio della delegazione veniva definito "potenzialmente dannoso" ed in grado di sabotare gli sforzi della comunità internazionale volti ad impedire lo sviluppo di un programma nucleare iraniano".

Viene fuori un quadro deprimente delle nostre istituzioni, nazionali od europee che siano: insensibili ai diritti umani, neutrali nei confronti delle più ripugnanti dittature, schiave delle lobby e sempre pronte a genuflettersi agli ordini di scuderia provenienti dagli Stati Uniti. Niente che già non sapessimo.

di Nicola Lillo

“Parole, parole, parole”. Così cantava Mina, duettando con Alberto Lupo nei lontani anni ’70. E questo sembra essere l’esito e l’effetto prodotto dalle parole del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, durante il consueto intervento di fine anno. Napolitano parla di crisi economica, da cui non siamo ancora usciti, di coraggio, riforme economiche e sociali, equità, più cura per chi subisce i danni più gravi, come i ceti deboli e il Mezzogiorno. Parla della riforma del fisco, degli ammortizzatori sociali.

Nomina le riforme: quelle istituzionali e della giustizia, che “non possono essere ancora tenute in sospeso, bloccate da un clima di sospetto”. Sono questi i temi principali toccati nel corso del messaggio di fine anno, il quarto del Settennato. Una ventina di minuti senza mai un cenno ai ricercatori dell’Ispra, alla Fiat di Termini Imerese, a tutte le altre fabbriche in procinto di chiusura. Un discorso per lo più cosparso di buoni propositi.

Sul tema delle riforme - il più caro, attualmente, alla classe politica dirigente - il Presidente Napolitano afferma che occorrono per “un più efficace funzionamento dello Stato e non possono essere bloccate da un clima di sospetto fra le forze politiche e da opposte pregiudiziali”. “E’ essenziale che siano sempre garantiti equilibri fondamentali tra governo e Parlamento, tra potere esecutivo e legislativo e istituzioni di garanzia, e che ci siano regole in cui debbano riconoscersi gli schieramenti sia di governo sia di opposizione. (…). Si andrà avanti, non ci si bloccherà in sterili recriminazioni e contrapposizioni”. Napolitano ha, inoltre, rinnovato la condanna dell’aggressione a Silvio Berlusconi e l’impegno ad operare per “attenuare le tensioni”. “È mio dovere - continua il Presidente - realizzare una maggiore unità della nazione: un impegno che richiede ancora tempo e pazienza, ma da cui non desisterò”. Conclude il discorso dichiarando che “i cittadini italiani in tempi difficili come quelli attuali hanno bisogno di maggiore serenità. Serenità e speranza che sento di potervi trasmettere oggi con il mio augurio per il 2010”.

Plauso unanime per il discorso, a partire dal premier Silvio Berlusconi, tra i primi a telefonare al Capo dello Stato Giorgio Napolitano, dopo aver ascoltato il messaggio, esprimendo personalmente il suo apprezzamento. La voce fuori dal coro é di Antonio Di Pietro. “Il discorso di Napolitano è di per sé condivisibile, come tutte le dichiarazioni di buoni propositi. Sono improcrastinabili riforme che garantiscano un futuro a questo Paese. Ma per quanto riguarda la riforma della giustizia, il problema è sempre lo stesso: le riforme che vuole questo Governo sono solo ed esclusivamente norme per salvare Berlusconi dai suoi guai giudiziari. Su questo tema, non credo si possa parlare di clima di sospetto, ma di certezza, visto che questi provvedimenti sono già all’esame del Parlamento. Sono sicuro - conclude Di Pietro - che il Presidente della Repubblica saprà essere garante dei principi della Costituzione e che, questa volta, non firmerà questi orrori”.

Ma qual è stato il suo effetto? Oltre al plauso unanime e qualche voce fuori dal coro, da evidenziare è l’intervento del ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta. Anche qui, “parole, parole, parole”. Ma non vaghe e generali, come potevano essere quelle di Napolitano, bensì del tutto strampalate. Intervistato da Libero, Brunetta ha affermato che è necessario cambiare anche la prima parte della Costituzione e non solo la seconda (come dichiarato dal Presidente della Repubblica) articolo 1 compreso: “Stabilire che l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla”. Bonaiuti segue dicendo: “Sono del parere che non bisogna mai mettere troppa carne al fuoco, però tutto si può vedere”. Come dire: non tutto subito!

Durissimo invece Di Pietro: “Come volevasi dimostrare: dai un dito e si fregano il braccio”. Per l’ex-pm, le parole del Capo dello Stato sono state “forse incaute visti gli interlocutori”. Per essere più chiaro, il leader dell’IDV ha aggiunto: “Napolitano ha messo il vento in poppa alla barca dei pirati che utilizzerà strumentalmente le dichiarazioni di chi rappresenta le istituzioni per distruggere e mortificare le stesse”. A quali altre parole, ma soprattutto a quali azioni e atti governativi, ci dobbiamo prepare?

 

di Mariavittoria Orsolato

Prendi 5 e paghi 1. Fosse un’offerta di una qualche catena di supermercati, a quest’ora i punti vendita sarebbero stati presi d’assalto da orde di massaie inferocite; ma della ghiotta promozione in questione si può usufruire solo se si è titolari di un partito politico. Sebbene nel 1993 i 90,3% degli italiani si sia espresso negativamente riguardo ai finanziamenti pubblici ai partiti, è cosa nota che l’odioso meccanismo è stato sostituto da quello ancor più subdolo dei rimborsi per le spese elettorali. Quello che ancora non si sapeva - e che la Corte dei Conti nella sua relazione annuale ha puntualizzato - è che per ogni Euro speso in campagna elettorale sono almeno 4 e mezzo quelli che ritornano nelle casse dei singoli partiti. Le cifre esatte dell’ultima tornata elettorale ammontano a 110 milioni di euro per le spese e a 503 milioni di euro per i rimborsi. Decisamente troppo.

Il problema però non sta tanto nell’eventuale lievitazione nei rendiconti di spesa che le formazioni politiche sono tenute a presentare subito prima e immediatamente dopo il voto: la vera e propria beffa sta nelle norme che regolano la pratica. In base alla legge del ’93, infatti, quelli che formalmente sono rimborsi, ma che effettivamente sono finanziamenti di denaro pubblico, non vanno calcolati in base alle effettive spese sostenute, ma vengono erogati in base ad una cifra fissa calcolata non tanto sulle reali preferenze alle urne ma sul numero degli aventi diritto. E pazienza  se il numero di persone che vanno effettivamente a votare sono molte meno di quelle che ne avrebbero costituzionalmente diritto.

Secondo questi dettami, possiamo vedere come per le politiche del 2008 il Pdl abbia incassato ben 206 milioni di Euro, a fronte di una spesa reale di circa 53 milioni di Euro. O come il Pd abbia sopportato costi elettorali per 18 milioni, ma sarà risarcito con 180 milioni. La Lega abbia avuto uscite per meno di 3 milioni e riceva entrate per 41 milioni. E persino un ipotetico baluardo della legalità, come l’Italia dei Valori, pur avendo più volte cercato di invertire la rotta legislativa in materia di rimborsi pubblici, abbia anticipato 3 milioni per incamerare poi, senza fiatare, ben 21 milioni di rimborso.

Ma c’è di più. Anche altre formazioni partitiche che non sono approdate in Parlamento hanno diritto al rimborso pubblico. Così è andata per La Destra di Storace, che a fronte di 2 milioni spesi ne riceve 6 e per la Sinistra Arcobaleno che ne dà 8 e ne riceve 9. Per fortuna però, non si danno contributi a cani e porci e così per liste come “Associazione difesa della vita - Aborto? No grazie” - quell’abominio politico scaturito dall’incontenibile fervore cattolico di Giuliano Ferrara - non avendo raggiunto la soglia dell’1%, non ci sarà l’obbligo d’indennizzo.

C’è però un altro punto che dovrebbe far riflettere più degli smisurati cachet (perché di questo alla fine si tratta) che vengono elargiti agli attori politici. Nel dicembre 2005, agli sgoccioli del governo Berlusconi III, la legge 5122 ha stabilito che i fondi pubblici destinati al rimborso sono dovuti per tutti e cinque gli anni della legislatura, indipendentemente dalla sua durata effettiva. Perciò, anche in caso di crisi e cambiamento di governo, i soldi arrivano comunque. Se infatti prendiamo la XV legislatura - l’ultima del governo Prodi, per intenderci - scopriremo che da quella gli attuali partiti di maggioranza e opposizione hanno guadagnato e stanno guadagnando circa 300 milioni, cento milioni all’anno fino al 2011, data della scadenza naturale della legislatura iniziata proprio nel 2006. Insomma, non importa che il mandato si sia concluso, l’erogazione continua lo stesso e se i pagamenti arrivano in ritardo, si aggiungono pure gli interessi legali!

Ora, non che si voglia insinuare che i partiti debbano svolgere il loro - per quanto pessimo - lavoro cavando di tasca propria tutto il necessario per far ingranare macchine burocratiche così pantagrueliche; la democrazia ha dei costi e solo nei regimi dispotici non esistono partiti da foraggiare. La cosa che preme di più sottolineare è l’assoluta sproporzionalità di questo do ut des squisitamente italiano. La legge attuale è un insulto all’intelligenza e come unico obbligo prevede di dichiarare spese al di sotto di un certo tetto, che corrisponde a circa 50 milioni di euro. Oltre ad essere lautamente rimborsati i partiti, pur non sforando il tetto, tendono a gonfiare le loro dichiarazioni di spesa allo scopo di evitare che i parametri di rimborso vengano fissati proprio sul rapporto effettivo della spesa. Perciò i costi delle campagne elettorali sono cresciuti in maniera smisurata: i contributi statali prescindono da essi e sono molto superiori.


Dal 1994, anno zero della Seconda Repubblica, i cittadini italiani hanno contribuito al mantenimento dei partiti con ben 2.253.612.233 Euro, contro 579.004.383 di spese accertate. Il guadagno netto della compagine politica ha i numeri di una finanziaria: c’è di che congratularsi. Cin cin.

di Nicola Lillo

La “primavera pugliese” è terminata, morta nello scontro intestino alla sinistra. Nichi Vendola, attuale governatore della Regione, e Michele Emiliano, sindaco di Bari, sono in procinto di compiere un harakiri degno di nota. Se l’intento fosse quello di perdere la Regione, i due amici-nemici si troverebbero sulla giusta via. Il “casus belli” si chiama Udc, per intercessione di Massimo D’Alema.

È lui, infatti, che vuole nella sua amata Puglia l’alleanza con il partito di Casini. Circostanza che metterebbe al tempo stesso fuori gioco Nichi Vendola, non certo apprezzato dal partito dell’Unione dei Democratici Cristiani (il più volubile tra i partiti, date le differenti e divergenti alleanze, con i papabili vincitori, nelle 13 regioni in vista delle elezioni del 2010). Ma neppure il governatore uscente ha una minima intenzione di creare una coalizione con Casini. È da qui che si dipana il problema. Ed è Emiliano l’uomo che D’Alema e il Pd vedono come futuro presidente della Regione.

Ma andiamo per gradi. “Vendola è il nostro candidato, Massimo D’Alema si rassegni”, “sono convinto che la coalizione, anche con l’Udc, vorrà Nichi” (13-9-2009): sono le parole di Emiliano. Il sindaco di Bari non ammette, inizialmente, alcun suo interesse alla presidenza della Regione. Anzi, appoggia candidamente, in opposizione a D’Alema, la candidatura del suo amico Vendola.

Il primo di dicembre Emiliano, cambiando drasticamente prospettiva, dichiara: “Non mi candido, resto sindaco. Ma a Nichi dico: fatti da parte”. “Con Vendola - aggiunge - perdiamo di sicuro e non è che amministrare gli sia uscito così bene” (riferendosi, chiaramente, alle inchieste giudiziarie nei confronti della sua Giunta, che hanno portato alle dimissioni di un assessore). Emiliano continua nella sua invettiva all’ormai ex-amico. “Faccia il nome del candidato e si liberi da un ruolo che gli pesa. La scissione non gli ha giovato: è un governatore senza partito. (…). La primavera del 2005 è finita, bisogna capirlo e voltare pagina”.

Se non che, alcuni giorni dopo, la sua posizione viene nuovamente stravolta, candidando se stesso per le regionali. La situazione che si viene a creare è quella di due uomini per una sola poltrona. Ed è Vendola il primo a parlare di primarie: “Io non mollo” (8-9-2009). Intanto, il governatore della Puglia replica a D’Alema, il quale non ritiene scontata una sua rielezione, affermando che “le primarie sono un laboratorio per la sinistra”, e chiosa: “Caro Massimo, stop agli inciuci”. Ma neppure le primarie sembrano, inizialmente, andare bene.

Anche in questa circostanza nuovo colpo di scena e cambio di rotta: “Nichi, somigli a Berlusconi. Non fare il capo popolo. Chiedo a Vendola che le primarie siano fatte in modo regolare”. E che primarie siano. Gran parte del Pd resta a bocca aperta. È una sorpresa per tutti. “A questo punto, le primarie, le voglio io. Nichi la smetta di parlare di appelli al popolo. Immagini la politica come fatta dai partiti”. Quella di Emiliano è una scelta però personale. Sarà il segretario regionale Sergio Blasi, il 29 dicembre, a confermare le primarie, “aperte” ai sostenitori del centro sinistra e dunque non soltanto agli iscritti ai partiti della coalizione.

Ma la scelta di Emiliano comporta una richiesta. Un nuovo “do ut des” in questa politica, oramai, mezzo-inciucista. Il sindaco di Bari, infatti, chiede in cambio a Vendola, una sorta di provvedimento personale: ovvero che il consiglio regionale modifichi la legge che riguarda l’ineleggibilità dei sindaci, secondo la quale per candidarsi, lo stesso Emiliano, dovrebbe dimettersi, rischiando di perder sia il Comune, che la Regione. La risposta di Vendola è fulminea: “Non posso interferire sull’attività legislativa. I consiglieri sono chiamati a votare senza vincoli di mandato”. Una legge ad personam dunque. Sembrerebbe quasi che questi provvedimenti personali non vadano bene in quel di Roma, ma in Puglia si.

Intanto la bufera si amplia anche sulle date delle primarie. Vendola aveva proposto il 17 gennaio, il suo rivale il 24. Tra le due giornate, il 19 gennaio, si terrà però il consiglio regionale che si esprimerà sulla legge sull’ineleggibilità del sindaco. Se non dovesse essere modificata Emiliano sarà costretto alle dimissioni, provocando nuove elezioni al Comune. Intanto Vendola stempera le tensione ribadendo che, in caso di sconfitta, sosterrà Emiliano, il quale a sua volta ha inviato una lettera aperta a Nichi tramite facebook.

Ma sembra non bastare. È del 31 dicembre la notizia secondo cui il sindaco Emiliano avrebbe ritirato la candidatura: “Senza la modifica alla legge elettorale regionale non si può fare nulla: nessuno può costringermi a candidarmi contro l'interesse di Bari”. Per poi precisare: “Non mi pare proprio che esprima una rinuncia ad alcunchè: si tratta solo di considerazioni politiche che riservatamente avevo trasmesso al segretario del mio partito e che lui ha reso pubbliche con il mio consenso”. Emiliano chiarisce ancora affermando di essere “dell'opinione che questa partita, come avevo sempre detto in precedenza, non è la mia, ma è quella del presidente uscente che adesso deve decidere se consentire la formazione di un'ampia coalizione indicando un altro candidato oppure se ritiene la sua candidatura indispensabile, raccogliere comunque la coalizione più corta e cominciare immediatamente la campagna elettorale”. Dunque, o si elimina la norma sull’ineleggibilità del sindaco, oppure Emiliano rifiuterà di partecipare alle primarie, garantendo (secondo la sua opinione) una sonora sconfitta per il Pd. La scelta a Vendola.


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