di Ilvio Pannullo

Ormai non possono esserci più dubbi. Non che ve ne fossero mai stati, ma vederlo scritto su di un documento ufficiale del Governo ha un peso diverso. La notizia è che il mandante - o meglio, l'utilizzatore finale - dei dossier Sismi, era Silvio Berlusconi. Dietro le schedature di massa dei magistrati e dei presunti avversari politici del premier da parte del Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare e lo spionaggio operato dalla security di Telecom di almeno cinquemila cittadini, c'era l'avallo del governo. Questo perché sia l'ufficio di Via Nazionale a Roma, dove i servizi militari monitoravano l'attività di chi era considerato nemico del premier, sia la compagnia telefonica, rientrano in qualche modo negli "assetti operativi" del Sismi.

È una nota diffusa ieri da Palazzo Chigi, probabilmente per smorzare il crescente stupore degli addetti ai lavori, a sgomberare il campo da tutte le possibili interpretazioni di quello che passerà alla storia come l’ennesimo scandalo, l’ennesimo segreto di un’Italia dove ad infrangere la legge sono quelle stesse istituzioni che ne dovrebbero garantire la corretta applicazione. Il comunicato chiarisce, infatti, che il segreto di Stato opposto da Mancini sarebbe stato confermato con riguardo ai soli atti processuali "riferibili alle relazioni internazionali tra servizi ed agli interna corporis degli organi informativi".

La Procura della Repubblica dunque non potrà, a causa della decisione presa dal Governo, indagare all’interno dei meccanismi dei Servizi segreti militari per ragioni di opportunità politica. Tuttavia, appare difficile comprendere a cosa quest'ultima formula faccia riferimento, considerando che il Mancini risulta accusato di associazione per delinquere, corruzione e rivelazione di notizie non divulgabili, e dal momento che il capo d'accusa formulato dal Pubblico Ministero "non riguarda la divulgazione di fatti coperti da segreto di Stato", bensì unicamente la “compravendita” che lo stesso Mancini avrebbe fatto di "informazioni patrimonio di sue conoscenze professionali” nel seno del Sismi.

La questione si pone in questi termini: la sentenza costituzionale emessa l’ 11 marzo 2009  in rapporto al "caso Abu Omar”, precisava che il segreto di Stato dovesse essere interpretato estensivamente anche con riferimento agli "assetti organizzativi ed operativi" del Sismi. Appare però poco verosimile la ricostruzione secondo la quale si dovrebbe forse pensare che nei medesimi assetti fossero da inquadrarsi anche gli oscuri rapporti intercorsi, secondo l'accusa, tra il Mancini , ex responsabile del controspionaggio, Giuliano Tavaroli, ex capo della security di Telecom e l'investigatore privato fiorentino, Emanuele Cipriani, coimputati nel processo oramai noto come “affare Telecom”.

Questa, infatti, stando alle memorie difensive depositate agli atti, è la tesi difensiva sostenuta dal Mancini, peraltro neanche puntualmente sviluppata proprio a causa dell’asserita presenza di notizie coperte dal segreto di Stato. Ma proprio questa tesi parrebbe adesso accreditata dal provvedimento di conferma del Presidente del Consiglio, come a voler dire che quei "contatti legittimi di natura istituzionale" vantati dal Mancini con alcuni degli altri imputati, nell'ambito di "rapporti con fonti sotto copertura", fossero davvero riconducibili a materie oggetto di segreto di Stato. Se così fosse, l'esito del processo sarebbe sicuramente segnato e nulla mai si saprebbe su di uno dei più grandi scandali della seconda Repubblica.

Il quadro generale rimane comunque desolante, indipendentemente dalle vicende che riguarderanno il processo in un prossimo futuro. Come sostenuto anche dal titolare della cattedra di procedura penale all’Università di Pavia, Vittorio Grevi, sulle pagine del Corriere della Sera, " l'area di operatività del segreto di Stato, per sua natura doverosamente ristretta ed eccezionale, sembrerebbe oggi potersi allargare a dismisura, fino a coprire qualunque attività (anche gravemente illecita) degli esponenti dei servizi e delle loro "fonti esterne", più o meno consapevoli di esserlo". Se si pensa, infatti, che i personaggi coinvolti nell'affare Telecom potranno godere della più totale impunità, coperti da una volontà politica opaca e sempre disponibile al compromesso, c'è veramente motivo di preoccuparsi.

L'utilizzo sconsiderato, infatti, del segreto di Stato quale mezzo di sbarramento opposto al controllo di legalità spettante alla magistratura non può non essere considerato come un atto di sostegno al modus operandi dei servizi. Ne esce un quadro imbarazzante, con un capo del governo che, con una mano, attraverso il sottosegretario alla presidenza del consiglio - quell'infaticabile Gianni Letta di cui nessuno può parlar male - gestisce i servizi segreti, sfruttando la loro capacità di acquisire e gestire informazioni, e con l'altra, attraverso il suo gigantesco impero mediatico, simbolo cristallizzato di una Italia fondata sul conflitto di interessi, dispone a proprio piacimento e secondo l'utilità politica del momento delle informazioni così illecitamente ottenute.

In una simile ricostruzione, purtroppo assai poco fantasiosa, i servizi appaiono strumentali agli interessi del Presidente del Consiglio: uomo certamente ricattabile per il suo passato, per le sue insolite conoscenze, per le sue mai spiegate ricchezze, ma comunque capace di ricattare chiunque si opponga alla sua volontà. Silvio Berlusconi è così, comprende un unico valore: l'obbedienza. Chi serve il capo viene ricompensato con lauti premi, incarichi o magari con un posto in Parlamento; chi coraggiosamente invece gli si oppone si espone alla feroce sete di vendetta. La situazione è dunque drammatica, ma l'importante è che nessuno lo sappia. Dopotutto è un segreto di Stato.

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