di Rosa Ana De Santis

La scuola del Ministro Gelmini inizia l’anno con l’annuncio del tetto massimo del 30% per la presenza di alunni stranieri nelle classi italiane. L’annuncio arriva nel giorno della rivolta degli schiavi immigrati di Rosarno e a corononamento di un anno pessimo, fatto di riforma a singhiozzi che ha seriamente compromesso il diritto all’istruzione, lasciandosi alle spalle tanti docenti disoccupati, classi numerose e alunni disabili senza adeguate ore di sostegno. Ma non era abbastanza. Il clima d’insofferenza e d’intolleranza ormai dilagante verso gli immigrati, doveva trovare una consacrazione formale da parte delle Istituzioni e nessun luogo poteva essere più adatto se non quello dell’educazione pubblica.

Il provvedimento del Ministro fonda le ragioni di questa regolamentazione d’accesso nella tutela della didattica dell’integrazione e nell’impedimento di classi-ghetto per soli stranieri. Il dato interessante è che il Ministro parli genericamente di alunni non italiani. L’omissione di specifiche che darebbero indicazioni necessarie e molto importanti ai dirigenti scolastici, tradisce l’ambizione autentica che ha ispirato le carte. La scuola dei presepi e del bianco natale, quella delle classi ponte, quella dei cori per soli cattolici, quella che deve tenere i crocefissi sulle cattedre. Una scuola che non abbia tracce evidenti di altre culture o di altri stranieri. Una scuola per soli italiani che si disturbi per somma bontà cristiana di riservare qualche aula ai figli degli immigrati.

L’elemento che inficerebbe la corretta didattica, nel caso di forte presenza di stranieri, sarebbe la non conoscenza della lingua italiana. Davvero bizzarro che un obiettivo della scuola si trasformi in una premessa imprescindibile di accesso. Strano soprattutto per la velocità di apprendimento che i più piccoli hanno sulle lingue straniere. Vale lo stesso per i bambini e i giovani italiani che parlano ricorrendo agli idiomi dialettali e che non conoscono la vera lingua italiana e la sua grammatica? No, se la memoria non ci tradisce. Solo qualche mese fa la proposta della Lega di insegnare i dialetti a scuola, rubando tempo alla didattica tradizionale, non aveva destato ilarità o rimbrotti dal governo e la Gelmini, pur non ravvedendone l’urgenza, l’aveva considerata una proposta interessante. E la didattica e l’italiano?

Il tetto massimo del 30% di stranieri può, anche per la fumosità dei termini e delle indicazioni utilizzate, aprire la strada a discriminazioni pesantissime e, soprattutto, inficiare sul lungo periodo l’unica seria possibilità di integrare diverse culture in un Paese che, come tutto l’Occidente, vive la grande odissea dell’immigrazione. Chi sono poi gli stranieri da limitare? I figli d’immigrati appena arrivati in Italia che non parlano bene la nostra lingua? I figli di seconda generazione, che da tempo appartengono alla nostra società e al nostro Paese? E cosa accadrà per quelli in eccesso? Andranno a finire nelle classi ghetto, che il Ministro voleva scongiurare, per imparare l’italiano con una bella etichetta sulla schiena che li faccia riconoscere da tutti come alunni non italiani?

Se la smania dei tagli non avesse ispirato la riforma dei numeri, avremmo ancora le famose ore di compresenza e i docenti, ora disoccupati, sarebbero stati, adesso più di prima,  preziosi nel lavoro di integrazione necessario a portare a termine il programma ministeriale (quello che rimaneva incompleto ben prima che arrivassero gli stranieri) e nell’opera straordinaria e difficile di portare sui banchi di scuola tanti mondi diversi. Una lezione di civiltà che proprio nella scuola pubblica i figli di tutti avrebbero dovuto imparare, lasciando ai grandi tutto il tempo della delusione e del cinismo realistico. Sfuma così, con quest’annuncio d’italianità che puzza di fascismo, il progetto di una pacifica convivenza di diverse culture e si avvicina il rischio per tutti di un futuro che vuole parlare una sola lingua e credere in un solo dio.

 

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