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di Daniele Rovai
Il 24 dicembre 2009, si è aperto il primo cantiere per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, come scrivono tutti i giornali nazionali. Si tratta dello spostamento di 1 km e mezzo della linea ferroviaria Salerno-Reggio Calabria che attraversa Cannitello, il paese della costa calabra che dovrebbe ospitare il pilone principale del futuro Ponte. La “variante di Cannitello” nasce come cantiere propedeutico alla costruzione del Ponte sullo stretto sin da quando, nel 2001, quell’opera viene inserita dal CIPE (delib. del 21 dicembre 2001) all’interno della “legge obbiettivo” voluta dal governo Berlusconi per dare all’Italia infrastrutture moderne per rimanere agganciati all’Europa dei mercati. La ferrovia deve essere spostata per poter costruire il cantiere.
Nel 2006, dopo diversi anni che hanno visto questa grande opera morire e rinascere più volte, il CIPE, Comitato Interministeriale per la Progammazione Economica, approva la cosidetta “variante di Cannitello” (delib. del 6 marzo 2006) sganciando l’opera dal progetto del Ponte, come del resto chiedeva da tempo la Regione Calabria, ed inserendola nel più ampio disegno di ammodernamento de “l’asse ferroviario Salerno-Reggio Calabria-Palermo-Catania”. Il cantiere diventa parte del progetto di sviluppo del “Corridoio plurimodale tirrenico - nord Europa”. La motivazione è che l’opera apporterà “indubbi vantaggi sia al trasporto passeggeri a lunga percorrenza che al trasporto ferroviario regionale”.
Il progetto viene addirittura ampliato: il nuovo pezzo di strada ferrata sarà costruito “in affiancamento alla vecchia linea” - non si smantella niente, né si fa posto ad alcun cantiere per il Ponte - per permettere il successivo interramento dell’intero tratto ferroviario di Cannitello; sarà costruita una galleria artificiale che “renderà disponibile la parte più cospicua del fronte mare”, ripristinando addirittura la stazione soppressa da decenni. Niente male per un paese che vive di turismo.
L’opera viene perciò suddivisa in due lotti separati: il primo, il cantiere originale, che prevede la costruzione della nuova linea; il secondo, un nuovo cantiere, che prevederà l’interramento di quella linea. Viene definito anche il costo: per il primo serviranno 19 milioni di euro e c’é già il progetto definitivo. Per conoscere l’importo necessario all’interramento e alla costruzione della galleria si dovrà invece aspettare il “progetto preliminare” che sarà realizzato dal committente dell’opera. Dagli studi di fattibilità prodotti dagli uffici del ministero si è calcolato una spesa non inferiore ai 224 milioni di euro.
Per la realizazione del progetto viene scelta R.F.I., cioè il proprietario della linea ferroviaria. Lo Stato, azionista di riferimento, gli riconoscerà, a partire dal 2007, “un contributo” di 1,6 milioni di Euro ogni anno per 15 anni (cioè 24 milioni di Euro). In pratica l’opera sarà finanziata aprendo un mutuo che sarà pagato, interessi compresi, dallo stato.
A marzo del 2006, dunque, il CIPE approva la “variante di Cannitello”, cioè il cantiere che apre oggi, e affida ad R.F.I. il progetto per la “variante finale alla linea storica in località Cannitello”, cioè l’interramento, che otterrà il via libera con una successiva delibera del CIPE appena R.F.I. avrà realizzato il “progetto preliminare”. Tutto molto chiaro.
Ed eccoci ai giorni nostri. Il 29 luglio del 2009 il ministro Matteoli chiede al CIPE di riesaminare la “variate di Cannitello” perché è sua intenzione cambiare il “soggetto aggiudicatore”: per il ministro il lavoro deve essere fatto dalla società “Stretto di Messina spa” e non più da R.F.I. Come si può leggere dalla delibera del CIPE, che dopo due giorni discute e accetta le motivazioni addotte dal ministro (del. CIPE del 31 luglio 2009), il cambio deve essere fatto perché la società concessionaria per il Ponte ha “provveduto a riavviare le attività necessarie per la realizzazione dell’opera”, ha “proceduto al rinnovo del vincolo preordinato all’esproprio sugli immobili interessati dalla realizzazione dell’opera stessa” e perché è essenziale “l’apertura accelerata dei cantieri rimasti bloccati o non ancora avviati nella precedente legislatura” tra cui il “Ponte sullo Stretto di Messina”.
Secondo il ministro, ed il CIPE, attribuendo la realizzazione della “variante” alla società Stretto di Messina, si assicurerà “la coerenza con gli altri interventi da eseguire nel territorio calabrese”. Inoltre, scrive sempre la delibera, “il Soggetto aggiudicatore della variante di Cannitello, indicato in RFI S.p.A. viene ora individuato in Stretto di Messina S.p.A., in quanto l’intervento è connesso e complementare al progetto del Ponte sullo Stretto”.
Cambia anche il costo dell’operazione: dai 19 milioni deliberati in via definitiva dal CIPE nel 2006, si passa a 24 milioni. Una variazione che il CIPE approva con un unica prescrizione: sarà cura del ministro Matteoli trovare i 5 milioni in più che servono “entro novembre”, cioè prima dell’apertura del cantiere. In pratica con questa ultima delibera si afferma che un “opera pubblica” che serve ad ammodernare un importante asse ferroviario non sarà realizzata dal proprietario dell’impianto ma da un “soggetto privato” tramite un affidamento diretto, quindi senza alcuna gara di appalto pubblica. Non solo: il CIPE decide anche che il passaggio di consegne tra il “soggetto pubblico”, R.F.I., ed il “soggetto privato”, Stretto di Messina spa, si risolverà con un patto riservato tra le due società che “provvederanno a definire, in apposito accordo, le problematiche connesse alla sostituzione del Soggetto aggiudicatore.”
In sostanza si ha che il cantiere apre grazie a due delibere: quella del 2006 che definisce cosa si deve fare e quella del 2009, che decide il cambio del committente ed il costo dell’opera. Variazioni che sono proposte dal ministero dei trasporti, e accettate dal CIPE, ma che non hanno alcun valore perché la delibera del 2009 integra e non abroga quella del 2006. Il cantiere che si apre è, per la legge italiana, un opera di risanamento e miglioramento dell’ambiente che il governo ha deciso di togliere dalle mani del soggetto pubblico per affidarla ad un soggetto privato che con quell’opera non centra niente. E’ tutto regolare? Non lo sappiamo.
Quello che sappiamo, a parte quello letto sui documenti ufficiali, è che qualche mese fa, per l’annuncio dell’apertura del cantiere, il governo ha fatto dichiarazioni mirabolanti che hanno conquistato le prime pagine dei giornali e le dirette televisive. Ora che il cantiere viene aperto, solo uno scarno comunicato stampa. Possibile che si annunci un opera in pompa magna e poi, quando l’opera viene inaugurata, lo si sappia leggendo semplici didascalie pubblicate nelle pagine interne dei giornali? Forse perché, ora che l’opera è partita - e tutto è nero su bianco - se si fa troppa pubblicità qualcuno potrebbe iniziare a fare domande imbarazzanti?
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di Rosa Ana De Santis
Adesso è l’amore che prevale. L’odio conseguentemente arretra e, con l’avanzamento dell’amore, è il clima che si fa migliore. No, non è l’ennesima banalità della rubrica di Alberoni: è il nuovo corso del sentimento politico italiano. Che parli d’amore chi lo compra e che combatta l’odio chi lo fomenta, sono dettagli; inutili orpelli fastidiosi che si frappongono tra le parole e i fatti, creando inopportune richieste di coerenza. L’amore, quello che va ora per la maggiore, è una straordinaria trovata di comunicazione a fini pubblicitari. Quasi come lo fu Forza Italia (chi è l’italiano contro l’Italia?) o il Popolo delle Libertà (chi è che non vuole libertà?), il nuovo claim tende ad uniformare i gusti prima delle opinioni, contrapponendo l’odio all’amore (chi è che potrebbe detestare il sentimento più bello per eccellenza?).
Lo smemorato di Cologno, come lo chiamavano al tempo del Lodo Mondadori, non ricorda di aver apostrofato come “coglioni” gli italiani che votavano per il centrosinistra; di aver dato degli “assassini” e dei “farabutti” ai magistrati che indagano sulle sue avventure finanziarie prima della sua “discesa in campo”; di aver definito “kapo’” l’eurodeputato Shultz che chiedeva conto del suo agire; delle dichiarazioni dei suoi fedeli tipo Gasparri; degli insulti di Brunetta nei confronti dei lavoratori pubblici - fannulloni se impiegati, panzoni se poliziotti - o dei cortei dei suoi aficionados con le bare dedicate a Prodi. E, quasi certamente causa medesima sindrome, deve aver dimenticato i delicati titoli del giornale famiglio e del suo direttore, che per cause ancora da accertare non è stato radiato dall’Ordine dei giornalisti. Roba vecchia, acqua passata, quello era amore ai tempi del colera: adesso é un’altra storia.
In un messaggio natalizio indirizzato alla comunità di Don Gelmini, il nuovo Cavaliere in odor di santità si è detto certo che “nel 2010 il governo proseguirà sul cammino delle riforme, per le quali ha avuto il mandato della maggioranza degli elettori". Dev’essere l’effetto dei postumi dell’impatto con la statuetta del Duomo, perché in verità lui ha avuto solo il 37 per cento dei voti, cioé meno del 20 per cento degli italiani; ma fà lo stesso, grazie alla legge porcata di Calderoli. Ha anche aggiunto che il 2010 sarà l’anno nel quale il governo “sconfiggerà la droga”, e questo a Tarantini deve aver procurato qualche sobbalzo...Per motivi di sicurezza, intanto, la fermata dell’autobus di Via del Plebiscito, a Roma, di fronte a Palazzo Grazioli, é stata soppressa: le persone comuni sono rischiose, nessun problema invece per le ospiti del palazzo, che arrivano notoriarmente in macchine con i vetri oscurati.
Dunque il Cavaliere nero si trasforma in rosa, mentre nell’opposizione (grigio plumbeo) si litiga tra chi dovrebbe odiare e invece dialoga e chi dovrebbe amare e invece odia. Ratzinger non ha voluto essere da meno. All’Angelus della scorsa settimana, nel saluto in lingua italiana, il Papa tedesco ha fatto appello all'«amore vicendevole e alla reciproca comprensione». I due, uniti dall’essere vittime a distanza di pochi giorni dall’attacco del comodo psicolabile di passaggio, si presentano alle folle accomunati dall’ingiustizia subita, dalla santità del perdono e forti della obbligata solidarietà di tutti, amici e nemici.
Ancora dolente per le critiche ricevute al processo di beatificazione di Pio XII dalla comunità ebraica e da tutti coloro che hanno studiato un po’ di storia, Ratzinger ha trovato comunque sotto l’albero la promessa del governo italiano di aumentare l’impegno per soddisfare i desiderata d’Oltretevere nella compressione ulteriore del libero arbitrio degli italiani. Ci aspetta quindi un nuovo anno vecchio come e più di quello passato, con il lupo che si finge agnello e il pastore che si conferma lupo. Il gregge, è proprio il gregge che non si accorge del pericolo che preoccupa.
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di Mariavittoria Orsolato
Chi da bambino non si è mai chiesto chi fossero i signori e le (sempre poche) signore a cui erano intitolate magari la via di casa o la piazza del paese? Chi non ha mai spiegato al proprio figlio o nipote chi fosse l’Aldo Moro del piazzale di fronte casa del nonno, oppure cosa fossero le Fosse Ardeatine a cui è titolata la via della scuola? La toponomastica, fin dalla sua lontana nascita, è frutto di una precisa esigenza di identificazione storica e culturale, ed è forse per questo motivo che in molti hanno già sollevato una dura polemica nei confronti dell’intenzione di dedicare una via o un parco comunale milanese al defunto leader socialista Bettino Craxi.
Probabilmente, nella frenesia di celebrare degnamente il decimo anniversario dell’illustre trapasso, il sindaco di Milano Letizia Moratti ha scordato di pensare alle risposte scomposte che un nonno o una mamma dovranno dare all’eventuale prole, curiosa di sapere chi mai sia l’uomo che dà il nome al loro indirizzo o al giardinetto sotto casa. Delle monete lanciate all’hotel Raphael ne abbiamo tutti vivida memoria, ma se si tratta di ripercorrere la lunga vita politica del primo uomo di sinistra assurto a palazzo Chigi, sono molte le amnesie che colpiscono chi deve raccontare e sono altrettanti i buchi di chi vuole ricordare.
Bettino Craxi è stato il delfino di Pietro Nenni e come tale è divenuto segretario del Partito Socialista Italiano all’indomani della crisi dinastica scaturita dall’anomala tornata elettorale del giugno 1976, che vide il PCI di Berlinguer balzare ad un inaspettato 34,4% e minacciare così la supremazia incontrastata della DC. Dopo 7 anni e svariati governi di breve respiro, il nostro riesce a farsi affidare da Pertini la presidenza del Consiglio grazie a quella raffinatissima opera di inciucio politico che fu il Pentapartito (formato da PSI, DC, repubblicani, democratici e liberali). In 1093 giorni - perché questa fu la lunga durata della sua prima prova - Craxi riuscì a gonfiare smisuratamente la spesa pubblica, ad aumentare il rapporto Pil-debito pubblico dal già pessimo 70% al disastroso 90%; compì condoni edilizi e pur di aiutar l’amico Silvio (allora solo un gretto palazzinaro con il vezzo della tivvù) arrivò a porre la fiducia sul decreto che con un geniale colpo di spugna rendeva legali le illegali trasmissioni propagate da Cologno Monzese.
Tentò poi una riforma costituzionale in chiave presidenzialista e per poco non fece scontrare l’esercito italiano con quello americano durante i famosi 5 giorni della cosiddetta “crisi di Sigonella” e del sequestro dell’Achille Lauro. Un curriculum politico sicuramente degno di nota, che per chiudere in bellezza aveva bisogno di un’azione plateale e fragorosa come in effetti fu lo scoppio di Tangentopoli. Bettino se la cavò con una ventina di avvisi di garanzia per corruzione e finanziamento illecito - mossi a suo dire da un “preciso disegno politico” della Procura di Milano (ricorda niente?) - e seppur condannato rispettivamente a 5 anni e 6 mesi, e a 4 anni e 6 mesi, non scontò nemmeno un giorno di carcere in quanto nel maggio del 1994 si auto-esiliò ad Hammamet, in Tunisia. Una latitanza a tutti gli effetti, in cui, oltre a trovare la morte per cause ovviamente fisiologiche, trovò anche un degno riparo dai numerosi processi che lo vedevano coinvolto e che furono puntualmente chiusi nel 2000, ad avvenuta dipartita dell’imputato.
Ora, non che si voglia condannare questo ex presidente alla damnatio memoriae che colpì Comodo così come Caligola - è roba antica e mal si confà alla già corta memoria storica del popolo italiano - ma dedicare un qualsiasi luogo ad un personaggio di tal risma, a soli 10 anni dalla morte, sfugge ad ogni logica, oltre che al buon gusto. Negli anni in molti hanno cercato di far titolare qualsivoglia oggetto al vecchio Bettino: la prima è stata la figlia Stefania che già nel 2002 scriveva accorata al sindaco Albertini, affinché la città di Milano restituisse all’uomo Craxi un po’ dell’affetto che egli le aveva elargito (via mazzetta); ad un certo punto si arrivò quasi a posizionare una targa sul portone del suo ufficio, in piazza Duomo 19, ma le dure reazioni dei componenti dell’ex pool di Mani Pulite mandarono all’aria il nobile progetto.
Il 19 gennaio si compirà il decennale della morte di Craxi e, stando al trend imperante dell’agenda berlusconiana, i tempi sono ormai maturi per riabilitare quello che in molti chiamavo “Bottino” ma che, proprio per la sua particolare posizione politico-giudiziaria, è un ottimo testimonial; un baluardo che riporti alla mente la terreur di Tangentopoli, ricordando implicitamente quanto cattivoni siano anche i magistrati odierni che, per “preciso disegno politico”, stanno perseguitando il povero e disarmato Silvio. O no?
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di Mariavittoria Orsolato
A Natale siamo tutti più buoni e, dato che il partito dell’amore non poteva essere da meno, sotto l’albero ha lasciato un pensierino per il caro amico Murdoch e la sua Sky. Il presente consta di un abbassamento significativo dei tetti pubblicitari imposti per legge alle pay tv e, se la scusa è la solita dell’adeguamento alle direttive europee in materia di tv e servizi audiovisivi, il reale intento è quello di affondare la concorrenza e favorire le aziende del premier. Secondo quanto stabilito dal Consiglio dei Ministri su proposta del viceministro per lo Sviluppo Economico Paolo Romani, il tetto orario agli spot sulle piattaforme a pagamento dovrebbe gradualmente scendere entro il 2012 dall’attuale 18% al 12%, con un scarto di due punti percentuali ogni anno.
Quello che è già stato ribattezzato “decreto ad aziendam” mira soprattutto a inficiare la raccolta pubblicitaria di Sky, già pesantemente penalizzata dall’aumento dell’Iva al 20%, ed ora costretta a diminuire gli spot da dodici minuti per ora a soli sette minuti per ora. Il provvedimento è indirizzato a tutte le tv a pagamento e interessa effettivamente anche Mediaset Premium, ma i dati pervenuti ad oggi indicano come la piattaforma digitale del Biscione non sia ancora arrivata al 12% della raccolta pubblicitaria e rendono così evidente la maliziosa mossa dell’esecutivo. In soldoni, il decreto “ad aziendam" cerca non solo di evitare che i canali del tycoon australiano danneggino i canali free di Mediaset, ma aggirano anche l’ostacolo della concorrenza con le stesse reti a pagamento del gruppo Berlusconi.
Ma se pensate che sia finita qui, sbagliate. Il disegno di legge del viceministro Romani fa un ulteriore favore a Padron’ Silvio e alla sua Pierprole nel momento in cui rende decisamente più elastiche le soglie tollerate per la raccolta di pubblicità destinata alle trasmissioni in chiaro delle tv private. Grazie ad un azzeccato mix tra spot e telepromozioni, la manovra consentirebbe di incrementare fino al 22% l’affollamento pubblicitario negli orari di prime time, aumentando ulteriormente quella fetta di mercato da 63,8 punti percentuali che le televisioni del premier già si accaparrano. Al comma 2 dell’articolo 37 si legge poi come in occasioni di eventi o manifestazioni sportive sia ora consentito inserire televendite, e nei programmi per bambini superiori ai 30 minuti di durata le interruzioni pubblicitarie salgono da una a due.
Ma c’è di più. In un comma di quattro righe presente al titolo II è possibile constatare come ora le autorizzazioni per le trasmissioni via satellite non debbano più essere elargite dall’Autorità per le Comunicazioni, ma debbano passare direttamente al vaglio del Governo: "L'autorizzazione ai servizi audiovisivi o radiofonici via satellite - si legge nel testo - è rilasciata dal Ministero" e con ciò si intende dire che da ora in poi ogni nuovo competitor che avesse intenzioni di lanciarsi sulle piattaforma satellitare, deve necessariamente ottenere un'autorizzazione dall'esecutivo per essere in grado di trasmettere le proprie offerte di audiovisivi.
Come sempre, insomma, quando si tratta di aiutare gli amici, sono stati inseriti diversi ed eterogenei provvedimenti in un decreto che dovrebbe far adeguare la nostra penisola alle direttive europee; il problema è che per una volta tanto l'Italia era già più che allineata a Bruxelles, dato che la Commissione prevedeva per le televisioni satellitari un tetto massimo del 20%. Pazienza.
L'ultimo ed inatteso regalo che il partito dell'amore lascia sotto l'albero riguarda però la tv di stato e i suoi abbonati: è notizia di qualche giorno fa che il canone Rai subirà un rincaro per il prossimo anno di circa l'1,50%, passando dagli attuali 107 euro a 109 euro. Secondo il solito Paolo Romani la misura è il semplice effetto dell'inflazione programmata, ma sono già in molti - soprattutto tra le associazioni dei consumatori - quelli si fanno baluardo del malcontento degli italiani e piccati replicano che l’aumento in bolletta non è assolutamente proporzionato alla modesta qualità dell’offerta.
Dall’opposizione arriva però un plauso quasi unanime, che si discosta dalla linea del Governo solo nella misura in cui auspica una maggiore lotta all’evasione di quella che ormai possiamo definire a tutti gli effetti una tassa sulla televisione. Una tassa che comprende Minzolini e i suoi fidi editoriali, i programmi con i pacchi abbinati alla lotteria e quegli insulsi reality show che nemmeno Mediaset si sognerebbe di ospitare. Più che un Natale, queste feste saranno ricordate dagli operatori televisivi non afferenti a Cologno Monzese, come una Passione.
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di Nicola Lillo
Nella Procura di Crotone si stanno svolgendo indagini che potrebbero dar vita al più grande scandalo che abbia mai coinvolto una compagnia telefonica italiana. Salvatore Cirafici, ex ufficiale dei carabinieri, e attuale capo della sicurezza Wind, é l’uomo che garantisce un uso corretto dei dati personali dei 17 milioni di clienti Wind. Il suo nome emerge già durante l’inchiesta “Why Not” dell’ex pm Luigi De Magistris, all’interno dei tabulati telefonici di alcuni personaggi coinvolti nell’inchiesta. Il consulente del pm, Gioacchino Genchi, ebbe serie difficoltà ad ottenere i tabulati di Cirafici. L’ex ufficiale è agli arresti domiciliari dall’11 dicembre. È indagato per concorso in rivelazione del segreto d’ufficio, favoreggiamento, falso e induzione a rendere false dichiarazioni.
Il pm di Crotone Pierpaolo Bruni ha infatti scoperto un fatto strano: Enrico Grazioli, maggiore dei Carabinieri, sul quale si stava indagando per rivelazione del segreto istruttorio e favoreggiamento, sapeva di essere intercettato. Il sospetto ricade proprio su Cirafici che - afferma la Procura di Crotone - “è responsabile dell’organizzazione, gestione e adempimento (…) delle richieste di intercettazioni telefoniche, di informazioni e ogni altra prestazione obbligatoria richiesta dall’Autorità Giudiziaria e dalle forze dell’ordine”. Cirafici avrebbe dunque potuto manomettere e creare buchi all’interno delle inchieste di tutta Italia. Ed è lo stesso Grazioli a rivelarlo durante l’interrogatorio, ammettendo di temere per la propria “incolumità personale”.
Cirafici aveva, in ragione del suo ruolo presso la Wind, “la disponibilità di schede telefoniche Wind non intestate e non riconducibili ad alcuno: erano quindi delle schede coperte - afferma Grazioli - pertanto di pressoché impossibile riconducibilità a un soggetto, qualora fosse stata inoltrata specifica richiesta di intestatario da parte dell’Autorità Giudiziaria”. Grazioli continua, aggiungendo elementi sempre più preoccupanti: “Le schede Wind erano state da lui consegnate per l’uso anche a soggetti ricoprenti ruoli istituzionali di primo piano. Quindi, temeva che, con gli accertamenti curati dal consulente Genchi, si potessero svelare e far emergere tali gravi circostanze e le sue relative responsabilità”. “Era chiaro che Cirafici avesse paura di quello che Genchi poteva fare sul suo conto e sul conto di altri che evidentemente erano a lui collegati”.
La situazione del capo della sicurezza Wind è, dunque, sempre più complicata. Inizialmente indagato per aver rivelato, proprio al maggiore Grazioli, che era sottoposto ad intercettazione, con le nuove dichiarazioni dello stesso maggiore si potrebbero aprire nuovi filoni di indagine. Il pm crotonese Bruni s’imbatté in Cirafici durante alcune indagini su Grazioli. Il telefono del maggiore dell’Arma era intercettato e, tra i numeri intercettati, vi era un’utenza Wind. Il pm si rivolse quindi alla Wind, richiedendo a chi fosse intestato quel numero. La risposta della compagnia telefonica fu sconcertante: “Numero disattivo”.
Il fatto insospettì il pm e la polizia giudiziaria; quel numero era stato intercettato e dunque doveva essere sicuramente attivo. Successivamente, all’insistenza della Procura, la Wind fece sapere che l’utenza era intestata a Cirafici. Scrive Bruni: “ Il dato fornito con la prima risposta inviata via e-mail dalla Wind è assolutamente fuorviante, di conseguenza falso. Ma l’inchiesta, già di per se scottante, si arricchisce di un ulteriore particolare, non meno importante, anzi fondamentale.
L’accusa, condotta dal pm Bruni, afferma che Cirafici avrebbe rivelato al maggiore Grazioli che la sua utenza Wind (di Grazioli) era sotto intercettazione da parte della Procura di Crotone. Ma è sorto un problema: Grazioli non utilizzava un’utenza Wind, bensì Telecom. Se dunque la tesi dell’accusa dovesse essere dimostrata, allora la Procura dovrà sciogliere un altro nodo: come poteva il capo della sicurezza Wind, Cirafici, essere a conoscenza che il telefono di Grazioli, affidato ad un’altra utenza, cioè Telecom, fosse sotto controllo? Da chi è venuto a conoscenza dell’attività della Procura?
Il nuovo particolare, che arricchisce e getta maggiore preoccupazione sull’inchiesta, fa pensare a rapporti fra “talpe” ai piani alti, capaci ed in grado di conoscere le indagini, le intercettazioni e rendere note, agli interessati, le attività giudiziarie in corso. Ma le domande da porsi sono: è un caso isolato o siamo di fronte ad un’”associazione”? È il caso di riscrivere i rapporti fra le Procure e i gestori dell’attività telefonica riguardanti le intercettazioni?
Per quel che riguarda la prima domanda non bisogna far altro che aspettare l’esito delle indagini, con la speranza che arrivino ad una conclusione, visti soprattutto i precedenti (vedi Why not e Poseidone dell’ex pm De Magistris). Rispetto alla seconda domanda, la risposta la darà il Parlamento, attualmente “in altre faccende affaccendato”. Ma non c’è da aspettarsi nulla di positivo: a Palazzo Madama ed a Montecitorio le intercettazioni le vogliono proprio eliminare.