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di Mariavittoria Orsolato
Nonostante lo scorso sabato Roma sia stata invasa da quello che in molti hanno già etichettato come il “popolo viola”, l’apertura di tutti i telegiornali nazionali è stata dedicata all’arresto di due latitanti appartenenti a Cosa Nostra - Gaetano Fidanzati e Giovanni “U Picciutteddu” Nicchi - e al solito compiaciuto chiosare di Padron’Silvio, che in una delle sue migliori performance è riuscito a dire che l’operazione della Catturandi è stata “una risposta a chi mi calunnia”. Certo, gli organizzatori e i simpatizzanti del "No B Day" non si aspettavano la copertura mediatica che normalmente merita un evento in grado di mobilitare centinaia di migliaia di persone, ma a molti l’annuncio della cattura di quelli che sono stati definiti “superlatitanti” ha fatto storcere il naso. Non tanto per l’operazione in sé, quanto per la tempistica magistrale con cui le due notizie si sono sovrapposte nelle principali testate giornalistiche italiane.
A confermare le posizioni di quanti hanno interpretato questa coincidenza come un’incongruità ci ha pensato Giocchino Genchi - il superconsulente antimafia - che durante un convegno tenutosi a Cevegnano del Friuli il 6 dicembre, ha affermato come l’operazione nei confronti dei due picciotti sia stata una “cattura ad orologeria arrivata puntualmente dopo le dichiarazioni di Spatuzza e in concomitanza con il No Berlusconi Day”.
Per spiegare le sue ragioni, Genchi racconta di come Fidanzati sia un 75enne gravemente malato la cui latitanza era dovuta alla scarcerazione per seria patologia, mentre Nicchi - presentato come numero 3 di Cosa Nostra e delfino del boss palermitano Lo Piccolo - è probabile che stesse andando a costituirsi perché ormai braccato dagli uomini dei quello stesso Salvatore Lo Piccolo (arrestato il 5 novembre 2007), che in realtà più che volerlo come erede lo voleva morto.
Sebbene le affermazioni di Genchi possano sembrare una svalutazione dell’operato delle forze dell’ordine, l’analista siciliano tiene a precisare come i risultati delle varie squadre mobili siano solo frutto della buona volontà di agenti che mettono letteralmente i soldi di tasca propria, e non di un Governo che davanti ai microfoni si vanta del proprio operato ma nelle manovre taglia fondi e risorse. Anzi, a quanto afferma Genchi, le sue dichiarazioni nascono proprio da una serie di telefonate ricevute la sera del 5 dicembre: “I veri poliziotti che hanno fatto quella cattura si sono vergognati e se ne sono andati e mi hanno telefonato, mi hanno detto qui stanno facendo uno schifo”.
Sui blog - perché finora sono gli unici organi che hanno ospitato la notizia - si è immediatamente acceso un dibattito sull’essere pro o contro Genchi, ma nella foga di commentare in molti paiono aver perso il nocciolo della questione, ovvero che i due latitanti arrestati non erano in realtà quelle teste di serie che i media mainstream ci hanno dipinto. Basta digitare i nomi dei due corleonesi su Google per farsene una breve ma esaustiva idea e verificare così le pesanti affermazioni di Genchi: il sito Mafieitaliane.blogspot.com indica ad esempio come “U picciutteddu” Nicchi fosse effettivamente osteggiato da Lo Piccolo a causa delle sue prevaricazioni sul territorio di famiglia. A sua volta, Wikipedia testimonia poi come dal 2003 Gaetano Fidanzati faccia davvero dentro-fuori dalle carceri a causa della sua malattia.
E’ certo vero che i due erano inseriti nella lista dei 30 latitanti più pericolosi d’Italia, ma a voler essere sinceri è anche vero che Nicchi e Fidanzati erano sicuramente i più raggiungibili, o perlomeno i più vulnerabili. Da qui le legittime perplessità sull’enorme rilevanza che i giornali ed i telegiornali hanno dato alla notizia degli arresti. Se a questo aggiungiamo il fatto che il sito de Il Giornale ha dato conto dell’arresto dei due latitanti ben 4 ore prima delle principali agenzie di stampa, non sarà difficile comprendere il grado di spettacolarizzazione che si è volutamente donato alle vicende.
Sabato 5 dicembre alle 12.18, la versione online della testata di Feltri apriva infatti titolando “Mafia, presi i boss Nicchi e Fidanzati. Berlusconi: risposta alle calunnie”, mentre agenzie come l’Ansa o l’Agi, pur notoriamente veloci, non sono riuscite a saperne nulla fino alle 16.30 circa. Le congetture vengono così servite su un piatto d’argento e, dato che il caso Boffo ha segnalato l’inadeguatezza delle fonti giornalistiche de Il Giornale, viene spontaneo pensare che l’esclusivo scoop sia il risultato di una velina piuttosto che di una soffiata.
Una cosa è comunque certa: l’informazione nostrana, compresa quella ritenuta storicamente “a sinistra” come il Tg3, è caduta nel trappolone che un Padron’Silvio sempre più annichilito dalle rivelazioni dei pentiti, ha architettato nella doppia speranza di apparire un po’ meno colluso di quanto non sia e di eclissare la risonanza di quel popolo viola che lo vorrebbe vedere finalmente processato.
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di Giovanni Cecini
Rutelli vincitore e Fini sconfitto. Il primo sindaco di Roma, mentre il secondo soddisfatto per una prova di piena maturità politica. Era il dicembre di sedici anni fa e i due “giovani” politici dell’Italia post Tangentopoli si davano battaglia nella prima vera tornata elettorale della cosiddetta Seconda Repubblica, quella che con un sistema prevalentemente maggioritario ricompensava non più un ammassamento centripeto, ma la migliore tra le due coalizioni nette e distinte. Una novità nella novità. Il battesimo lungo le acque del Tevere era significativo, anche perché mai fino ad allora gli elettori avevano votato per via diretta il loro primo cittadino, dopo esperienze poco trasparenti di sindaci capitolini giudicati intrallazzini e amminestratori.
Ha del paradosso quindi sentire oggi i due esponenti, che nel frattempo di vita politica ne hanno consumata molta, ricoprendo incarichi importanti o incassando alterne e dolorose sconfitte, trovarsi così vicini nel tentativo di affossare quel sistema bipolare tanto agognato da entrambi, in un tempo dimenticato quando Berlusconi era presidente solo del Milan. Oggi il nemico non sembra essere più dall’altra parte dello steccato, ma viene incarnato per ciascuno di loro proprio dal Cavaliere, che - ancora con uno snobbismo da non-politico di mestiere - guarda con superiorità tutti coloro che nella vita non hanno fatto altro che cercare consensi tra gli elettori.
Panta rei, tutto cambia e muta pelle. Berlusconi e Fini ciascuno deve molto all’altro, se sono rimasti l’unica alleanza costante in quindici anni di elezioni maggioritarie. La candidatura capitolina dell’ex missino fu allora il primo posizionamento del Biscione, ancora prima della sua “discesa in campo”; i missini colsero la palla al balzo per affrancarsi come possibile partito di governo. Lo sdoganamento della destra iniziò in quella occasione, in forma autonoma, e da quei giorni il camerata Gianfranco ha molto remato per allontanarsi dal passato ingombrante, tanto da scavalcare non solo la sepolta Forza Italia, ma ritrovarsi corteggiato dall’ex rivale rossoverde, convertito al cattolicesimo e a un’idea meno riformista della società.
La politica italiana offre molte sorprese e oggi più di ieri sembra presentarne, se proprio Rutelli rinnega la sua appartenenza ai progressisti, oggi incarnati da un confuso Pd, per forza di cose alla ricerca di una chiarificazione con la galassia di movimenti e partiti che si schierano alla sua sinistra. Probabilmente il bipolarismo non morirà oggi e non saranno Rutelli e Fini a leggerne il discorso funebre, tuttavia la situazione fa riflettere. Quando il Pdl dovrà cercare un nuovo leader, uscito di scena Berlusconi, la guerra intestina già dichiarata al suo interno rischia di divenire un nuovo affondamento della balena bianca, con la differenza che l’identità democristiana già ne è fuori e potrebbe a quindici anni di distanza prendersi la rivincita, con relativi interessi.
Il destino è quindi in una nuova Dc al cui vertice vi sarebbero Casini, Fini e Rutelli, che possano bilanciare da una parte le turbolenze leghiste e dall’altra le derive comunisto-giustizialiste? Anche se non ci sono scommettitori pronti a darlo per vincente, è uno scenario ipotizzabile, almeno quanto possibile una fuga “in esilio” del prurimputato Silvio sulla falsa riga dell’amico Bettino. Se andasse veramente così, la Seconda Repubblica verrebbe ricordata come la parentesi di Berlusconi, al cui termine avremmo ciò che abbiamo abbandonato della Prima: maggioranze bloccate su asse centrista. Il ruolo di opposizione rimarrebbe a un Carroccio sempre più a vocazione macro-regionale e un Pd, magari con un inutile 30%, ma alla ricerca di un’identità propria.
Non è una grande prospettiva, ma se Bersani, Di Pietro e Vendola non sapranno offrire nulla di nuovo e di convincente, continueranno a perdere, come avvenne ad Occhetto nel 1994, e lasciare le luci della ribalta ai nuovi centristi vicini ai valori e ai voleri del Vaticano. Magari, se proprio vogliamo fantasticare, una Terza Repubblica con Fini al Quirinale e il duo Casini-Rutelli nel redivivo amore-odio tipo Forlani-Andreotti. Per molti un pericoloso incubo, per molti un modo come un altro per liberarsi di Berlusconi e continuare negli antichi giri di valzer di sapore democristiano. A questo punto tornerebbe di moda un’eccellente battuta di spirito, di moda negli anni Trenta: «Chi salirà al governo una volta morto Mussolini?» La risposta non poteva che essere: «Giolitti!»
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di Fabrizio Casari
Un milione di persone? Cinquecentomila? Sono tante. Tantissime. Ancor di più se si considera che arrivano spontaneamente, con un passa parola degno dei nostri tempi, su Internet. Sono i social-network, i blog e i siti internet a fornire e a gestire l’idea di un raduno di popolo. In un’Italia sommersa dall’informazione di regime, dove il controllo totale del Presidente del Consiglio sui mass-media si avverte in tutta la sua virulenza, la comunicazione dal basso, quella piena di entusiasmo e povera di risorse, per un giorno ribalta il mercato della circolazione delle idee.
Ad organizzare questo pezzo di popolo non ci sono partiti, sindacati, gli specialisti dell’organizzazione, coloro insomma in qualche modo deputati a convocare. Nella chiarezza che la forza di questo governo risiede innanzitutto nella debolezza cronica dell’opposizione ufficiale, qualcuno si è rimboccato le maniche, come in un’emergenza nazionale. Sono arrivati a Roma con treni, pullman, aerei e navi, macchine e moto: tutto quello che trasporta andava bene per esserci. L’opposizione di oggi si autoconvoca, si autodisciplina, si dà un colore e un tono, un obiettivo massimo di gran lunga simile a quello minimo: dire forte e chiaro che di questo governo non ne possono più. Non propone campagne, non chiede riforme, non vuole scambi, non ammette inciuci. Ha nella Costituzione della Repubblica il suo riferimento valoriale, il suo programma politico; ha in coloro che la calpestano o che la ignorano i suoi avversari.
Le facce. Sono facce normali e straordinariamente serene quelle di chi marcia. Una manifestazione di popolo autentica, fatta da chi è comunista, da chi un tempo lo é stato e da chi non lo è mai stato, da chi è democratico e da chi non si è mai nemmeno autodefinito. Ma la domanda di tutti è una e una sola: dov’è finita la sinistra? A manifestare ci sono, certo, la Federazione della Sinistra e l’Italia dei Valori. Ci sono perché vogliono e perché devono, se in qualche modo aspirano a rappresentare quanti, anche senza di loro, sarebbero stati in piazza lo stesso. Non c’è invece, tanto per cambiare, il Partito Democratico: e questo merita una riflessione.
Se un milione di persone si mobilitano contro il governo senza - anzi nonostante - il principale partito d’opposizione (così almeno si autodefinisce il PD) non è perché non avvertano la necessità di saldare l’opposizione di piazza e quella parlamentare. Quel milione di persone che ieri manifestava a Roma, non voleva né cercava una distanza programmatica dal PD; è il PD che invece ha deciso che a quella manifestazione non si doveva partecipare. E' il PD che ha stabilito, unilateralmente, una distanza da quella piazza.
Perché? Perché Bersani ed il suo gruppo dirigente hanno ritenuto di restarne fuori? Eppure in buona sostanza quel milione di persone rappresentano una parte importante del blocco sociale di opposizione culturale e politica a Berlusconi ed al berlusconismo. Rifiutarsi di aderire balbettando poco credibili distinguo tra il promuovere e l’aderire, quindi dividersi al proprio interno tra chi va e chi non va, per poi ritrovarsi schiacciati tra un governo e la sua opposizione, ugualmente indifferenti alla sua presenza o alla sua assenza, rappresenta infatti, per l’ennesima volta, la raffigurazione di un’armata Brancaleone che procede in ordine sparso, di un partito che, così, non serve a niente ed a nessuno. Peraltro, succede che molti dei suoi militanti ed elettori in piazza ci siano, cosicché gli errori di valutazione si sommano.
C’è nei vertici del PD un errore di valutazione figlio di una cultura profondamente sbagliata nell’interpretare lo scenario politico del Paese. Se si ritiene - come vuole Violante - che Berlusconi debba difendersi non solo nei processi ma dai processi e che la politica debba normalizzare il conflitto tra la giustizia e il potere e se, nello stesso tempo, si pensa che scendere in piazza contro il governo non sia una strada perseguibile, come si crede possa cadere Berlusconi? Sostiene, il PD, che Berlusconi non cade con la piazza. Una perla di saggezza, un pensiero acuto. Come se qualcuno avesse pensato che Berlusconi possa dimettersi se non obbligato. Per dimettersi bisogna avere una cultura delle istituzioni, un senso del dovere, tutte qualità che Berlusconi non possiede. Ma se invece non andiamo in piazza si dimette?
Sembra di capire che il PD ritenga lo scenario del golpe di Palazzo l’unica strada percorribile. Che sia cioè l’alleanza tra Fini, Casini, Montezemolo e il raggiungimento del livello di non ritorno nei rapporti all’interno del PDL - come nel ’94 con la rottura tra il Cavaliere e Bossi - l’unico cammino percorribile per la crisi di governo e l’uscita di Berlusconi da Palazzo Chigi. Allora, a proposito di velleitarismo, sappiano i vertici del PD che Berlusconi non cadrà forse per le manifestazioni di piazza, ma nemmeno per Fini, Casini e Montezemolo, che sono fortissimi nei salotti e scarsi nelle urne.
L'opposizione fa bene ad ascoltare ogni spiffero nella porta del governo, a tendere le orecchie per leggerne le contraddizioni interne. Ma basta questo? Un'opposizione che non dialoga con il blocco sociale e culturale che vorrebbe rappresentare si candida all'autoreferenzialità politica. Un'opposizione che non sa presidiare i luoghi per eccellenza della democrazia, si candida ad un ruolo subalterno e tutto centrato sul tecnicismo parlamentare; tecnicismo inutile, poi, visti i numeri alla Camera e al Senato.
Il Parlamento e la piazza sono due momenti inscindibili l'uno dall'altro e non saremo certo noi a negare la centralità delle Istituzioni. Ma senza la piazza c’é il silenzio, il bisbigliare delle manovrine da cortile. Con la piazza si manda un messaggio preciso e potente ai disegni autoritari, molto diverso dal messaggio che si lancerebbe chiudendoci in casa. L’opposizione vera di questo paese, quella che non compone origami e si ciba di complotti prendendo schiaffi in Italia e in Europa, che non riduce la politica ad un coacervo di lotte intestine e di giochini di società, quella cioè che chiede un altro destino per questo martoriato, pur non incolpevole Paese, sceglie la piazza. Chi pensasse di essere assente oggi nelle piazze ed essere presente domani nelle urne, compierebbe un errore madornale. Gemello di quello che ha dato vita ad un partito che non c'é.
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di mazzetta
Il presupposto ufficiale per quel vero e proprio schiaffo agli italiani onesti denominato “scudo fiscale”, è che il provvedimento serva a far rientrare in Italia capitali freschi capaci di dare ossigeno alla nostra economia. Tremonti è uso a mentire platealmente; in genere si può dire lo stesso del governo Berlusconi in generale e a smentire la giustificazione ufficiale c'era già il dettaglio per il quale i capitali “scudati” possono restare all'estero; dettaglio che, unito all'assoluta riservatezza e al condono tombale sulle tasse non pagate, fa temere il peggio e rivela la vera natura del provvedimento: quella di uno sfacciato condono di classe offerto a chiunque abbia sottratto montagne di denaro alla fiscalità nazionale.
Sono passati pochi mesi e il timore è già diventato realtà, i soldi dello scudo fiscale non rientreranno in Italia e andranno a beneficio di altri mercati e altre economie. Era prevedibilissimo, perché se non c'è nessun obbligo per il rientro reale dei capitali, questi naturalmente si dirigono verso le offerte d'investimento più appetibili e non è che il nostro paese brilli in questo senso. Parlando di soggetti già abituati a gestire grossi traffici economici a cavallo delle frontiere è ovvio che indirizzeranno l'investimento dei capitali “puliti” dove si prevedono maggiori rendimenti e rischi minori.
La classe dirigente italiana non ha mai brillato per acume finanziario o per originalità e così anche buona parte della platea degli evasori scudati si muove in branco in occasioni come questa. E’ quindi abbastanza facile accorgersi al volo di cosa stia succedendo, un riscontro in tempo reale, un feedback che nel mondo globalizzato ci mette pochissimo a trasformare strategie riservate in un segreto di Pulcinella.
Dicono i media britannici che gli italiani si stanno comprando Londra: in contanti, niente mutui e niente lungaggini, “cash buyers” come si dice da loro, clienti da tenersi stretti e che stanno dando respiro al mercato immobiliare londinese, asfittico e travolto dalla crisi. Una valanga di soldi che preferisce gli immobili più pregiati, metà degli acquisti di case di lusso (categoria oltre i dieci milioni di sterline) da parte di europei sul mercato di Londra è opera di italiani secondo Bloomberg, mentre altre fonti riportano percentuali anche più elevate. Si arriva fino all'80% della domanda totale del mercato a Kensington e al 70% a Knightsbridge, zone di pregio destinate a rimanere tali ancora a lungo, per i capitali finalmente puliti si cerca un posto al sole .
Che la richiesta si affolli sulle case da oltre dieci milioni di Sterline ci dice che gli evasori miracolati da Tremonti hanno evaso parecchio, ma che la loro riconoscenza nei suoi confronti non arriva abbastanza in alto da spingerli a investire in Italia se pensano che Londra sia meglio. Il mercato che ha visto le follie dei magnati arabi, indiani e russi è ora scosso dall'improvviso afflusso di acquirenti italiani; i prezzi tornano a salire per la prima volta da tempo e gli inglesi se ne stupiscono, anche se i media hanno spiegato che il merito del boom è dello “scudo fiscale” made in Tremonti. Capiscono il meccanismo, ma si stupiscono che il governo italiano sia il responsabile di una follia del genere, uno smaccato favore ai ricchi che hanno infranto la legge, perché il premio offerto dallo scudo è proporzionale alle cifre nascoste al fisco e ai reati commessi per accumularle.
Le ragioni di tale affollamento di facoltosi italiani sul Tamigi sono facilmente intuibili: in tutto il mondo i prezzi delle case sono crollati e ancora di più per le case di lusso, ma la Gran Bretagna offre anche una provvidenziale svalutazione della Sterlina ( da 1.5 Euro per Sterlina nel 2007 a 1,1 oggi), pur rimanendo un paese parte della UE e offrendo quindi una serie di garanzie di sistema sconosciute ad altri paesi alle quali aggiunge una tassazione più soft di quella italiana.
Chi compra in Gran Bretagna compra quindi a prezzi relativamente bassi e paga in una valuta che è già affondata. Nella logica relativa che governa questo genere di cose, molti sperano così che alla rivalutazione dell'investimento si aggiunga anche quella della moneta e intanto sono già contenti di aver diversificato investendo in un mercato maturo e prestigioso, che è nella UE, ma fuori dall'Euro.
Il che ci porta all'amara conclusione per la quale, con lo scudo fiscale, il nostro paese ha offerto una provvidenziale amnistia a una banda di grandi evasori che ora, con i soldi “ripuliti” da Tremonti, stanno portando capitali e sollievo al mercato immobiliare londinese. Non occorre quindi aspettare la fine dell'anno per pronosticare che i capitali che rientreranno grazie allo scudo fiscale saranno molti di meno dei quelli previsti dal governo e che tutte le fantasie sul futuro impiego di queste somme a favore della nostra economia, si riveleranno l'ennesima illusione del nostro mago dell'economia. Quello che si veste da Robin Hood per rapinare meglio i poveri e poi farsi quattro risate con i ricchi ai quali consegna il bottino.
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di Giovanni Cecini
In quest’Italia prenatalizia si rumoreggia a proposito delle magagne giudiziarie del premier e di alcuni suoi soci. Giornali, radio e tv gridano, chi a favore, chi contro quella serie continua e incessante di atti normativi rivolti a salvare in modo palese Silvio Berlusconi dai processi in cui è imputato. Questo immenso clamore però ha già soffocato le precedenti e numerose azioni governative e parlamentari, pessime sotto il lato prettamente morale e democratico, che hanno creato una simile e momentanea sommossa culturale e mediatica nel Paese.
Verrebbe da credere che l’attuale esecutivo riesca a smorzare le polemiche sulle sue cosiddette “riforme”, solo realizzandone altre di simile disinvoltura a breve giro di posta. Ecco quindi che nel frattempo il cosiddetto scudo fiscale ha iniziato sottotraccia ad operare, anche perché probabilmente mai sapremo quanti soldi siano realmente rientrati, vigendo l’anonimato nelle dichiarazioni e il segreto bancario per gli ex evasori “pentiti”.
Ma arriviamo al nocciolo della questione, che probabilmente ai più è sconosciuto, ma che tra cronaca e testimonianza mostra una situazione grottesca. In Italia l’aborto è legge dello Stato. In Italia la vendita di pillole e/o sistemi contraccettivi è lecita e largamente in uso. Tuttavia vige la possibile pratica da parte di medici e farmacisti di poter esprimere l’obiezione di coscienza nei confronti delle richieste dei pazienti. Si potrebbe argomentare questa scelta, volendo ribadire la libertà del singolo di astenersi nei confronti di un comportamento che, seppur regolato e permesso dalla legislazione operante, può offendere o essere contrario a convincimenti propri personali.
Sin qui nessuna palese contraddizione, tuttavia questa obiezione di coscienza non vale sempre. Infatti, ritornando al già citato scudo fiscale, in questi giorni escono allo scoperto come funghi nel bosco coloro che vogliono informazioni a proposito del rientro in Patria dei loro gruzzoletti, costituitisi all’insaputa del fisco nazionale. Le banche, sempre a caccia di profitti e di denaro nuovo, risultano ben contente di questa ghiotta opportunità. Non a caso appena qualche settimana fa Marco Travaglio aveva sbandierato durante una puntata di "Annozero" un paginone pubblicitario in cui Banca Mediolanum offriva un servizio facile e pratico per il solerte cliente, desideroso una volta per tutte di regolarizzare a prezzi stracciati le proprie passate malefatte tributarie. Come si suole dire in questi casi: pecunia non olent.
Tuttavia in questo variegato mondo esistono molti impiegati di banca, che non possono certo beneficiare dell’iniziativa, essendo comuni dipendenti e quindi incalliti contribuenti dell’erario, ma che trovano un certo fastidio nel vedere ingenti capitali tassati ex post solo del semplice 5%, in luogo di un normale circa 50% dovuto allo Stato per Iva, Irpev e simili nel frattempo elusi e quindi evasi. Ebbene, per i bancari l’obiezione di coscienza non vale, essi debbono espletare le pratiche e magari sentirsi pure dire da taluni clienti che questo 5% sembra un po’ eccessivo. In fondo, in tempo di crisi generale, non sono da buttar via i circa 300 miliardi che il ministro Giulio Tremonti pensa di poter regolarizzare nell’economia nazionale, con l’aggiunta anche del relativo (modestissimo) incasso da parte dello Stato della percentuale esatta dalle banche in favore del fisco.
C’è da dire che diversamente da altre richieste di obiezione di coscienza, l’Avvenire non si è espresso in questo modo per incitare i bancari, ma quanto meno ha definito l’operazione come un regalo ai più furbi. Questo vuole testimoniare che la stessa coscienza non è mai una cosa personale ed intima, ma un fenomeno collettivo - si potrebbe aggiungere politico - tanto da essere indirizzato e manipolato da chi detiene il potere, di qualsiasi specie esso sia.
In attesa delle probabili prescrizioni sui reati finanziari, in caso di approvazione del cosiddetto “Processo breve”, sarebbe troppo banale dire che in fondo in fondo le banche hanno portato alla crisi e ora hanno pure da guadagnarci. Oggi però non solo è ancora lecito pensarlo e affermarlo, ma se a dirlo sono anche gli stessi bancari, perché non ripeterlo ancora una volta?