di Ilvio Pannullo

Per nostra fortuna accade anche in Italia. Accade anche qui, nella periferia degradata dell'Occidente avanzato, che lavoratori sfruttati, stufi di sentire sempre false promesse, decidano di riprendersi quella dignità che gli spetta come uomini, prima ancora che come lavoratori. Passando dalle parole ai fatti, dalla mobilitazione all'azione dimostrativa, circa 200 dei 1300 operai della Fiat di Termini Imerese, hanno infatti occupato il municipio e la stanza del sindaco Salvatore Burrafato.

I lavoratori della fabbrica siciliana, che da oggi sono di nuovo in cassa integrazione, temono che l'azienda possa smantellare il sito. A dimostrazione che la sovranità è ancora del popolo, dopo aver occupato la sede del comune, gli operai hanno anche “eletto” un proprio sindaco tra le tute blu: l'operaio ha, dunque, simbolicamente indossato la striscia tricolore. “Se le istituzioni non prendono in considerazione i nostri problemi - dicono gli occupanti - cercheremo di fare da soli”. Parole sante.

L'azione dimostrativa degli operai siciliani della Fiat è molto importante soprattutto per ragioni simboliche. Bisogna, infatti, interrogarsi se un sistema che incentiva i capitali industriali a migrare verso quei paesi dove, per ragioni contingenti, il costo della manodopera garantisce ampi margini di guadagno, sia un sistema sostenibile. Se poi si comprende come ciò che accade oggi a Termini Imerese sia, in definitiva, il risultato di dinamiche sulle quali i comuni cittadini non hanno alcun tipo di controllo, rispondere a simili interrogativi diventa ancor più pressante. Se, com'è vero, l'economia non serve ad altro che a fornire a ciascuno ciò di cui ha bisogno, la costante deindustrializzazione del nostro paese e il conseguente impennarsi del tasso di disoccupazione dovrebbero imporre un ripensamento circa il modello di sviluppo da seguire nel secolo appena iniziato, un modo per rispondere alla crisi che parta da quei fondamentali che ne sono all’origine. Il rischio dell’immobilismo è di ritrovarci, di qui a qualche anno, cittadini di un ricchissimo stato del terzo mondo.

In questi giorni, anche un altro caso sta tenendo banco grazie alle ripetute prese di posizione da parte dei lavoratori: è il caso della Eutelia. Le storie sono diverse, ma la sostanza rimane sempre la stessa. L’Eutelia, che discende dalla Bull, che discende dalla Olivetti, che è un ramo dismesso di un grande centro di eccellenza che era tutto il settore elettronico informatico di Adriano e di Roberto Olivetti, rappresenta un caso limite, paradigmatico del fallimento dell’attuale sistema economico. I dipendenti della Eutelia, infatti, hanno una buona competenza professionale e ottimi studi alle spalle. Il loro lavoro, quello di informatici e gestori di sistemi di programmazione, si basa su una lunga preparazione e su di una grande esperienza, entrambi elementi che richiedono tempi lunghi per essere acquisiti.

I loro committenti sono lo Stato, la polizia, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, il Comune di Roma, amministrazioni regionali, privati di grandi dimensioni, oltre alle cooperative che insistono su tutto il territorio nazionale. Nonostante, dunque, il prestigio, il lavoro, i clienti, il personale specializzato di alto valore, questa azienda è in crisi. Una crisi non dovuta a motivi strettamente industriali o tecnologici, ma figlia di quella vorace e brutale voglia di profitto che sta alla base del modello mercatista a cui il nostro paese, con straordinaria fiducia, ha spalancato le braccia. Accade così che le aziende specialistiche come Eutelia vengano impunemente vendute, svuotate da proprietari sempre più opachi, coperti da prestanome, senza che si possa controllare il senso di ciò che accade, senza che nessuno voglio saperlo.

Coloro che ancora credono nei benefici della mano invisibile dovrebbero, infatti, osservando questi esempi, rendersi conto che questa altro non fa se non ripulire le tasche dei molti a vantaggio dei soliti pochi, tanto nei micro quando nei macro scenari economici. L'attualità ce lo mostra ogni giorno ed impone che urgentemente si dimostri quanto l’ultracapitalismo, sponsorizzato dalle istituzioni internazionali come l’unico mezzo per diffondere la ricchezza e la democrazia in ogni angolo del pianeta, sia in verità un sistema che, oltre a produrre sistematicamente un aumento del divario tra i ricchi e i poveri del pianeta, risulta completamente irrecuperabile.

Spesso si usa il termine “crisi sistemica” per analizzare il crack attuale, ma dovremmo piuttosto parlare di crisi strutturale. Quando, infatti, grandi realtà industriali chiudono, sfruttando il momento della crisi, per delocalizzare gli stabilimenti o, nei casi peggiori, compiere manovre speculative sulla pelle dei lavoratori, ad essere in crisi non è soltanto l'economia, ma l'intera struttura che sostiene una simile idea di sviluppo.

Dei grandi discorsi, dei grandi obiettivi restano solo le macerie: giovani senza  lavoro, famiglie abbandonate a se stesse, eccellenti professionalità cestinate senza rispetto ed un sistema produttivo oramai svuotato di qualsiasi significato. In una simile situazione, tanto grande quanto tragica, il governo vegeta, sicuro che il popolo non lo incalzi. A mancare, infatti, siamo noi, ancora convinti che quanto sta accadendo fuori non ci riguardi, almeno non ancora.

Bernard Stiegler, filosofo francese e direttore del dipartimento di sviluppo culturale del Centre Georges-Pompidou, ha riassunto l’attuale stato di sviluppo delle società occidentali affermando che “il capitalismo del XX secolo ha catturato la nostra libido e l'ha sviata dagli investimenti sociali”. Il tutto finendo col resettarci tramite il feticismo dell'oggetto. Sta dunque a noi cittadini, elemento passivo di questo sistema, riappropriarci dei nostri diritti e rifiutare che simili storie avvengano e si ripetano, prima di tutto riconoscendoci in esse e sentendo le loro battaglie come le nostre. Presupposto di questo sarà la convinzione che gli uomini e le donne vengono prima del profitto. Sempre.


 

di Eugenio Roscini Vitali

Il 14 novembre la Cgil è scesa in piazza per chiedere risposte concrete contro una crisi che non è ancora finita e per aprire il percorso allo sciopero generale: edili, chimici, metalmeccanici, lavoratrici  e lavoratori del pubblico impiego e della scuola, pensionati e studenti, accorsi a Roma per ricordare a tutti che non si può vivere di cassa integrazione, che nel 2009 sono saltati 570 mila posti di lavoro, che 300 mila precari sono rimasti a casa e che entro il prossimo anno altro altri 500 mila persone perderanno l’impiego. Le risposte sono arrivate subito, puntuali e impeccabili, più che mai significative: “Vedere l’amico Epifani in piazza con la faccia triste a dire che il peggio deve ancora venire mi fa sorridere. Ma assieme a me sorride anche la stragrande maggioranza degli italiani che nella loro percezione vedono esattamente il contrario”. Queste le parole del ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, che intervenendo su radio Rtl ha rimarcato l’idea di quell’opposizione a prescindere che tanto piace al ministro del lavoro, Maurizio Sacconi: “'Mi sembra un piccolo mondo antico ancorato al Novecento e alle sue ideologie”.

Per Epifani la crisi avrà gli effetti più negativi sull’occupazione nelle prossime settimane e il governo non sta facendo nulla per sostenere il lavoro e i pensionati. Persone che se ne vanno a casa, mobilità, ristrutturazioni, fondi destinati ai giovani ricercatori dell'università che sfumano nel nulla: una valanga di licenziamenti che sta aumentando e che si sta sostituendo alla cassa integrazione; una crisi che lascerà il segno sui disoccupati, sui precari e sui pensionati, per i quali il peggio deve ancora arrivare.

Il segretario della Cgil parla di una Finanziaria “troppo al di sotto della portata della crisi”: no alla richiesta per più ammortizzatori sociali; no alla riduzione del carico fiscale per i lavoratori dipendenti e i pensionati; no agli 80 mila precari che dovevano essere impiegati nel mondo della ricerca e dell'università; no alle richieste per il pubblico impiego, per gli investimenti, per la revisione del patto di stabilità che avrebbe dovuto permettere ai Comuni e alle Province di investire e spendere di più.

Era marzo 2009 quando il Consiglio dei ministri varava nuove misure per i lavoratori meno tutelati che perdono il posto, un pacchetto di ammortizzatori sociali per i precari sospesi o licenziati che prevedeva il raddoppio dell’indennità una tantum ai collaboratori a progetto: dal 10% dell'ultima retribuzione annuale al 20%, con una cifra erogabile in circa 30 giorni che dovrebbe oscillare tra i 1.000 e i 2.600 euro. Una promessa che, da quanto ricorda Epifani, fino ad oggi avrebbe “premiato” solo 900 persone, una goccia d’acqua in un mare di disperazione. Confermando l’incertezza sulle prospettive di ripresa, il mese scorso la Banca d'Italia aveva infatti segnalato che, escludendo dal computo l'effetto delle iscrizioni all'anagrafe di lavoratori immigrati, nel 2009 l’occupazione ha fatto registrare una flessione di oltre mezzo milione di posti; 300 mila le unità perse tra i lavoratori comunemente definiti “precari”.

A Roma, di fronte a 50 mila persone, Epifani descrive il film di una crisi che parla di lavoro che sparisce, di aziende che chiudono e di imprenditori che vedono andare in fumo i sacrifici di una vita, una crisi che esige risposte e che chiede interventi significativi finalizzati al rilancio dell’economia e alla tutela del reddito. Nelle richieste della Cgil ci sono gli ammortizzatori sociali per i dipendenti e per i precari, gli investimenti, il patto di stabilità e la tutela per quelle migliaia di lavoratori che non prendono lo stipendio da mesi e che temono di veder saltare l’azienda da un giorno all’altro. Ma il segretario della Cgil non è l’unica Cassandra: sulla crisi si erano già espressi Confcomercio, le Piccole e Medie imprese e le banche, tutte categorie più vicine a Palazzo Chigi che a Corso Italia, sede dello storico sindacato.

Carlo Sangalli, presidente della Confederazione che rappresenta 770 mila imprese impegnate nel commercio, nel turismo e nei servizi, parla di una “crisi grave che continua a mordere l’economia e a colpire il lavoro”: ore di cassa integrazione guadagni concesse tra gennaio e settembre pari all’ammontare complessivo di quelle totalizzate nell’ultimo triennio; oltre 50 mila esercizi al dettaglio chiusi nei primi nove mesi del 2009; un bilancio tra aperture e chiusure che entro la fine dell’anno dovrebbe registrare un saldo negativo di circa 20 mila unità; un aumento esponenziale dei disoccupati che nei dodici mesi dell’anno corrente conterà 130 mila posti in meno, cifra che nel prossimo anno è destinata a sfiorare quota 180 mila.

Pur ritenendo che la crisi sia ormai alle spalle, l’ottimista amministratore delegato del Gruppo Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, pensa che il futuro nasconda ancora non poche incertezze e che il quadro generale resti comunque drammatico. In un intervento ad un convegno organizzato presso Confindustria di Como il banchiere ha parlato di un grandissimo numero di aziende che sono a rischio di sopravvivenza: “Ipotizzando anche solo il 5%, si tratterebbe di 250mila”. Un numero inferiore rispetto a quello espresso da Giuseppe Morandini, presidente della Piccola impresa di Confindustria, che parlando al IX Forum di Mantova descrive una crisi e che colpisce almeno un terzo delle aziende di settore: un milione di imprese che vive uno stato di estrema sofferenza. “Non ci sono ordini e viviamo in una situazione di straordinaria difficoltà”. Non è chiaro quando arriverà la ripresa.


 

di Nicola Lillo

Il Pdl non si è fatto attendere. Mentre si discute di “processo breve” (o meglio “morto”), di leggi e leggine pronte per il Cavaliere, la proposta di legge costituzionale per la reintroduzione dell’immunità parlamentare è stata presentata. Chi meglio di Margherita Boniver avrebbe potuto avanzare un simile “privilegio medioevale”? La “bonazza” o “biondazza” che dir si voglia, come disse a suo tempo Bossi, è la stessa che nonostante avesse criticato, nel 1993, l’abolizione dell’autorizzazione a procedere, al momento del voto sulla legge, in prima lettura votò a favore del nuovo articolo 68, mentre al momento della sua approvazione definitiva, in seconda lettura come prevede la Costituzione, si assentò. Non è chiara la linea di pensiero della Boniver, né la sua coerenza (cosa labile nella politica italiota).

L’ex craxiana, poi andreottiana e poi ancora berlusconiana, dichiara che “l'immunità, che esiste in molti ordinamenti europei, nonché al Parlamento europeo rappresentava uno dei pilastri della Costituzione italiana. Fu cancellata con un incredibile atto di vigliaccheria dall'Assemblea di Palazzo Madama nell'ottobre del 1993 in un clima di pesante intimidazione. La proposta di legge, composta di un solo articolo, ripristina un istituto volto a tutelate l'interesse della collettività, prevenendo eventuali condizionamenti del potere giudiziario sullo svolgimento della dialettica politica”.

Innanzitutto è bene far notare come storicamente i Parlamenti si siano battuti per garantire la protezione dei propri membri da azioni giudiziarie sostenute dal potere esecutivo. La ratio dell’immunità parlamentare nei moderni Stati democratici, consiste nella protezione del parlamentare da iniziative proprie di un giudice e nella tutela della composizione numerica dell’assemblea. Sono sicuramente principi virtuosi, che rispettano i principi dello stato di diritto, su tutti la tripartizione dei poteri e che devono al tempo stesso essere bilanciati con il principio, anch’esso fondamentale, di uguaglianza.

Oggi ogni parlamentare gode di una serie di immunità, secondo l’art. 68 della Costituzione. Le immunità sono di due tipi: l’insindacabilità, secondo la quale i parlamentari per come votano e per ciò che dicono “nell’esercizio delle loro funzioni” non possono essere in alcun modo chiamati a rispondere; e l’inviolabilità, per la quale i parlamentari non possono subire alcuna forma di limitazione della libertà personale, a meno che la camera di appartenenza non la autorizzi. Autorizzazione che viene dunque dagli stessi colleghi che, il più delle volte, cercano di difendere i compagni di seduta e se stessi. Ci sono eccezioni all’inviolabilità. Infatti, se il parlamentare è colto in flagranza di reato o se ha subito una condanna passata in giudicato, non deve passare al vaglio della Camera di appartenenza.

Questa è la disciplina risalente alla revisione costituzionale del 1993, votata il 12 ottobre dalla Camera con 525 sì, 5 no (tra cui Sgarbi) e un astenuto. Il Senato farà altrettanto il 27 ottobre con 224 sì, 7 astenuti e nessun no. In precedenza occorreva un’autorizzazione anche solo per procedere contro un parlamentare. Tale revisione fu frutto dello scandalo Mani Pulite, che portò alla richiesta da parte dell’opinione pubblica di una vera e propria uguaglianza, e di superamento di questo privilegio, abusato, da parte dei parlamentari. Uno strumento necessario esclusivamente a sottrarsi al corso naturale della Giustizia.

Se poi guardiamo all’Europa, ci accorgiamo di essere il solito unicum. In Germania, infatti, l’immunità è prevista per tutti i deputati. L’”unica” differenza rispetto al nostro ordinamento è che non viene mai esercitata. All’inizio di ogni legislatura è consuetudine autorizzare automaticamente eventuali indagini a carico di suoi membri. Così in Spagna, dove le Cortes non hanno mai negato, se non una sola volta in trenta anni, un’autorizzazione a procedere. In Inghilterra non c’è alcuna immunità e, per quel che riguarda il Parlamento Europeo, ciascun eurodeputato gode dell’immunità prevista nei rispettivi paesi di provenienza. Ma è raro che ci siano sviluppi giudiziari sui suoi membri (eccetto per l’Italia, come ci rammenta il buon Mastella).

È evidente come, oltre alla ormai normale abitudine di differenziarci dal resto degli stati civili europei, l’intento del Parlamento italiano sia quello di tutelare in tutto e per tutto i propri interessi. Più che una “casta”, una vera e propria “cosca”. E intanto la Boniver avanza, avanza proposte di legge costituzionali, col plauso della maggioranza e di una fetta dell’”opposizione”.


 

di Ilvio Pannullo

C'è una grande confusione in Italia sullo stato in cui versa l'economia. Nonostante la discutibilissima politica dell'ottimismo voluta ed imposta dal Presidente del Consiglio, la stessa maggioranza appare infatti divisa circa la valutazione dei problemi che affliggono il sistema produttivo italiano. Dopo la contro-finanziaria depositata presso il Senato della Repubblica dall'onorevole Baldassarri, a confermare lo stato di agitazione in cui versa la maggioranza è arrivato lo stop imposto al governo. L'esecutivo è stato infatti battuto due volte nell'Aula della Camera su due emendamenti, uno del Pd e uno dell'Idv. Con uno scarto prima di quattro e poi di soli tre voti (263 voti a 259 e 262 voti a 259) sono state approvate due proposte di modifica sulle quali il governo aveva espresso parere contrario.

Sarà certamente un caso, ma i due emendamenti mirano nella sostanza a sgomberare il campo da eventuali possibili fraintendimenti circa l'interpretazione da dare agli indicatori normalmente utilizzati nell’analisi della contabilità dello Stato. Questo a pochi giorni di distanza dal trionfale annuncio, fatto in conferenza stampa dal Presidente del Consiglio e rilanciato immediatamente dal ministro dell'economia, dei dati provenienti dall’Ocse, l'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che apparentemente sembrano descrivere uno scenario in cui l'Italia è, per la prima volta, prima in Europa.

Il primo articolo sul quale l'opposizione ha battuto la maggioranza è l'art.21, che disciplina il bilancio di previsione. Con l'emendamento dell'Idv, a prima firma Renato Cambursano, viene introdotto un raccordo tra i programmi di bilancio e la nomenclatura Cofog (Classification Of Function of Government, una classificazione definita a livello internazionale dalle principali istituzioni che si occupano di contabilità nazionale: Ocse, Fmi ed Eurostat, ndr). Con l'altro emendamento, a firma Linda Lanzillotta e fatto proprio dal Pd, si punta ad evidenziare il collegamento tra gli indicatori e i parametri che devono essere indicati negli stati di previsione e il sistema di indicatori ed obiettivi previsto dalla legge sulla trasparenza ed efficienza della pubblica amministrazione. Ora, visto il ristrettissimo margine con il quale i due emendamenti sono stati approvati, questo segnale potrebbe essere considerato come la prova, da parte di una minoranza all'interno del popolo della libertà, della volontà di una maggiore serietà nell'analisi dello stato dell'economia del paese.

Appena pochi giorni fa, il 7 ottobre, il Cavaliere si era infatti affrettato a comunicare che l' economia italiana, secondo quanto si evince dal superindice dell'Ocse, appare in testa al gruppo dei 30 Paesi più industrializzati per la performance segnata nell' ultimo anno. Rispetto al settembre del 2008 l'indice dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo che anticipa le fasi di crescita e rallentamento dell' economia, mostra per l' Italia, considerata in fase di "espansione", un più 10,8%, contro l' 8,4% della Francia, il 7% di Cina e Regno Unito, il 5,7% della Germania.
Dati che dipingono un'immagine apparentemente molto positiva dello stato dell'economia italiana a questo punto della crisi. Purtroppo per il paese, tuttavia, l'indicatore che si va tanto sbandierando in giro descrive semplicemente una particolare condizione dell'economia, un'attitudine, un possibile potenziale di crescita e non certo il concreto stato di avanzamento della stessa.

Addentrandosi nel meccanismo di formazione dell'indice si può comprendere, infatti, quanto questo in realtà non mostri altro che i punti di svolta del ciclo economico stimati con riferimento all'output gap. Un indice, cioè, che fa riferimento alla deviazione del livello dell'attività economica dal livello consistente con il pieno impiego. Rappresenta, dunque, il risultato di un rapporto e conseguenza di ciò è il fatto che l’indice finale può migliorare semplicemente perché è peggiorata la stima degli effetti della crisi sulla crescita di medio periodo. E purtroppo per l'Italia la caduta del tasso di crescita potenziale nel 2010 è più ampia rispetto ad altri paesi.

Come infatti ha puntualmente fatto notare l'economista Francesco Giavazzi, “l’Ocse non rivela quanto del miglioramento registrato nel mese di settembre dipenda da una chiusura dell’output gap e quanto invece dipenda da un peggioramento delle previsioni sulla disoccupazione di medio periodo”. Se, esemplificando, si stima, ad esempio, che il tasso di disoccupazione di medio periodo dopo la crisi sarà più elevato di quanto non si stimasse prima, questo è sufficiente a far migliorare l’indicatore. Ciò significa che un suo miglioramento non è necessariamente una buona notizia. Paradossalmente, potrebbe indicare una cattiva notizia, cioè un aumento della stima degli effetti della crisi sulla disoccupazione nei prossimi anni.

Nonostante l'amara verità, il governo tuttavia non perde occasione per vendere agli ignari cittadini un po' del suo fumo. Arrivano infatti immancabili le dichiarazioni di commento dei dati: «Ci sono forti segnali di ripresa un po' ovunque. In Italia non possiamo lamentarci, non va malissimo», così il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Ancor più soddisfatto il ministro dell' Economia, Giulio Tremonti: "Sono tanti anni che stavamo dietro, sembrava che altri fossero pecore bianche e noi quella nera. Invece il tempo è stato galantuomo, e ora dobbiamo insistere". Sempre Berlusconi, forse incredulo per la possibilità di commentare dati positivi che non siano sondaggi commissionati dalle sue società, ha insistito sostenendo: "Ho continui contatti con il mondo delle imprese. Certo ci sono quelle in difficoltà, ma nella generalità dei casi c' è ottimismo diffuso e una sensazione di ripresa". E ancora: "Siamo i sesti contributori delle Nazioni Unite e l' economia italiana ha recuperato la terza posizione in Europa, davanti alla Gran Bretagna" ha aggiunto non contento il premier, in evidente stato di estasi.

Lungi dall'essere catastrofisti, va tuttavia sottolineato come il dovere di ogni giornalista economico sia quello di commentare i dati e possibilmente contestualizzarli nella realtà politica e sociale del paese. Non è infatti pessimismo, ma realismo, osservare che l’entità di una ripresa non è indipendente dall’entità della caduta iniziale. Come ricorda, infatti, sempre Francesco Giavazzi nel suo ultimo articolo su La voce. Info, “fra settembre 2008 e la primavera del 2009 l'indicatore era caduto di 32 punti in Italia e Germania, ma di soli 14 punti in Francia, 12 negli Stati Uniti, 10 in Gran Bretagna. Ciò significa che nella fase più acuta della crisi l’output gap, o almeno la stima calcolata dall’Ocse, si era allargato di oltre il doppio in Germania e in Italia rispetto agli altri tre paesi”. Non ci si deve dunque sorprendere se dopo una caduta tanto pronunciata, la ripresa sia ora più ampia.

Se a questo si unisce la caduta del tasso di crescita potenziale nel 2010, calcolato dall'Ocse e pubblicato nel giugno scorso nell’Economic Outlook no. 85, si comprende come l'indicatore possa migliorare semplicemente perché ad essere peggiorata è la stima degli effetti della crisi sulla crescita di medio periodo dell'economia. In altre parole la spiegazione del miglioramento dell’indice è, almeno in parte, una chiusura dell’output gap non perché sia migliorata la stima del livello di produzione, ma perché si è ridotta la stima del livello potenziale. Appare dunque evidente quanto sia parziale e faziosa l'interpretazione data dal governo ai dati pubblicati dall'organizzazione internazionale.

Ancora una volta da un'analisi attenta dei dati e da una comprensione della logica seguita nel corso della loro elaborazione si evince quanto la politica del sorriso, del sole in tasca, abbia contaminato il rapporto tra governanti e governanti. Se la semplice menzogna, infatti, in altri paesi è causa di sdegno e biasimo e può talvolta portare addirittura alle dimissioni dalle cariche pubbliche, in Italia questa è innalzata a livello di strumento di governo, mezzo attraverso il quale creare e mantenere il consenso, per la gioia di tutti coloro che sognano un governo seriamente impegnato nella gestione degli interessi pubblici.

di Mariavittoria Orsolato

Nonostante solo una settimana fa il Guardasigilli ci avesse assicurato compìto che il governo non stava studiando norme sulla prescrizione processuale, tutti quelli che dopo la bocciatura del lodo Alfano avevano stappato gaudenti bottiglie di spumante sappiano che non è ancora finita. Stavolta l’hanno chiamata semplicemente “norma sui processi veloci” e, armai avveduti del fatto che parlare della giustizia come un impedimento al premier è controproducente, hanno detto che servirà a snellire i tempi biblici dei nostri tribunali. Le vittime di tutti gli altri reati portino pazienza.

Il testo non è ancora stato reso pubblico ma pare che la bozza su cui hanno lavorato alacremente l’onorevole ghostwriter Niccolò Ghedini e Giulia Bongiorno, presidente della Commissione giustizia della Camera e finiana della prim’ora, sia un capolavoro di contrappesi concentrato in quattro punti. Il primo riguarda i tempi processuali e stabilirebbe che per i casi con imputazioni inferiori ai 10 anni (ad eccezione dei soliti reati di terrorismo, mafia e turbativa sociale), si deve avviare l’estinzione del procedimento se il processo non si chiude entro due anni per ogni grado di giudizio.

Al secondo punto starebbe invece un taglio di un quarto dei termini di prescrizione per tutti i procedimenti pendenti relativi a reati punibili sempre con meno di 10 anni, ma commessi solo da incensurati prima del 2 maggio 2006 - data in cui è entrato in vigore l’indulto a marchio Prodi. Sugli altri due punti entrerebbero poi in gioco le modalità procedurali con cui gli uffici giudiziari sarebbero in grado di celebrare processi in tempi ridotti.

Ora, quello che oggi potrebbe diventare un disegno di legge di iniziativa parlamentare, in realtà è solo l’ennesimo trucchetto cavilloso a cui Berlusconi si vorrebbe aggrappare per scampare i processi sulla frode dei diritti tv Mediaset e sulla corruzione dell’avvocato inglese David Mills: cominciando a presentare una serie interminabile di legittimi impedimenti - come sta già facendo per il processo Mediaset, da poco riaperto a Milano - in nostro avrà gioco facile nel rinviare un un’udienza dopo l’altra e riuscirà a far cadere come birilli tutte le sue imputazioni, che sono appunto inferiori ai 10 anni e interessano oltretutto fatti commessi prima del 2006 da uno che, miracolosamente, risulta agli atti comunque incensurato.

Di questo nuovo porcellum legislativo si parla già come del “lodo Fini-Berlusconi” e la definizione dà sicuramente da fare ai molti che avevano visto nel Presidente della Camera un baluardo di costituzionalità contro l’arroganza dei berluscones. Il confronto tra i cofondatori del Popolo delle Libertà è stato sicuramente travagliato, entrambi hanno qualcosa da perdere in questa disputa: il premier ha fretta di mettere la parola fine ai suoi procedimenti pendenti e di annichilire quelli che inevitabilmente verranno nel tempo, Fini deve invece riscattare la sua credibilità politica agli occhi della maggioranza, senza però inficiare l’aura di autorevolezza che si sta guadagnando tra il popolo di elettori insoddisfatti.

Qui sta appunto la finezza del duo Ghedini-Bongiorno: formalmente la norma appare come la giusta soluzione all’incontenibile lunghezza dei processi - che mediamente anno dai 7 e mezzo per il processo civile  ai 10 anni di quello penale - nella realtà dei fatti il disegno di legge è l’ennesimo colpo di spugna sui trascorsi e i presenti giudiziari del Presidente del Consiglio.

Il compromesso a cui necessariamente si è dovuti arrivare, verte sul secondo punto del testo, quello in cui si ridurrebbero i termini di prescrizione per i reati con pene inferiori a 10 anni e che messo in pratica annullerebbe un’infinità di procedimenti: il Quirinale, ammesso che consideri costituzionalmente legittima l’abbreviazione dei processi, non sottoscriverebbe in nessun caso anche i tagli alla prescrizione, perciò è bene accontentarsi e non tirare troppo la corda. Berlusconi dovrà compiacersi di risolvere solo i problemi già in gioco e non potrà avvalersi di quell’immunità “in prospettiva” che ha già provato ad attribuirsi con i vari lodi Maccanico, Schifani e Alfano.

Certo, abituati come siamo agli escamotage dell’ultima ora, nulla toglie che il desiderio di Padron’ Silvio sulla prescrizione breve possa essere esaudito con un emendamento a nome fittizio da inserire in fase di dibattimento, ma in questo modo l’ala finiana del partito potrebbe sollevarsi e fare fronte comune contro gli altri affari ad personam e non che ciclicamente vengono proposti alle Camere.

Purtroppo però, al di là delle liasons dangereuses che intrecciano i politicanti di quella che a torto si continua a chiamare destra, la questione sostanziale dell’operazione verte nuovamente sull’uso spregiudicato del potere legislativo contro quello giudiziario. Un nume della filosofia politica del calibro di Montesquieu scriveva nel suo “Esprit des lois” che il discrimine tra un paese libero e un paese dispotico stava nell’autonomia della magistratura e soprattutto nella sua funzione moderatrice contro gli abusi e capricci degli uomini di potere.

Ieri, a riprova della cronica amnesia nazionale, in un accorato editoriale al tg delle 20,00, il direttore Minzolini ha spiegato contrito come l’immunità parlamentare fosse un lascito dei nostri padri costituzionali per equilibrare i poteri istituzionali ed evitare intimi accanimenti contro cittadini che legiferano nell’interesse del paese. A ciò ha aggiunto che se l’immunità parlamentare è stata annullata nel 1993, questo è stato esclusivamente il frutto di una campagna mediatica sorta sul livore del popolino.

Chissenefrega di Montesquieu e dello spettro del dispotismo, chissenefrega del rispetto delle istituzioni e del principio di giustizia ed equità che dovrebbe stare alla base delle moderne democrazie. Noi abbiamo Berlusconi: vive l’empereur!

 


 


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