di Ilvio Pannullo

C'è una grande confusione in Italia sullo stato in cui versa l'economia. Nonostante la discutibilissima politica dell'ottimismo voluta ed imposta dal Presidente del Consiglio, la stessa maggioranza appare infatti divisa circa la valutazione dei problemi che affliggono il sistema produttivo italiano. Dopo la contro-finanziaria depositata presso il Senato della Repubblica dall'onorevole Baldassarri, a confermare lo stato di agitazione in cui versa la maggioranza è arrivato lo stop imposto al governo. L'esecutivo è stato infatti battuto due volte nell'Aula della Camera su due emendamenti, uno del Pd e uno dell'Idv. Con uno scarto prima di quattro e poi di soli tre voti (263 voti a 259 e 262 voti a 259) sono state approvate due proposte di modifica sulle quali il governo aveva espresso parere contrario.

Sarà certamente un caso, ma i due emendamenti mirano nella sostanza a sgomberare il campo da eventuali possibili fraintendimenti circa l'interpretazione da dare agli indicatori normalmente utilizzati nell’analisi della contabilità dello Stato. Questo a pochi giorni di distanza dal trionfale annuncio, fatto in conferenza stampa dal Presidente del Consiglio e rilanciato immediatamente dal ministro dell'economia, dei dati provenienti dall’Ocse, l'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che apparentemente sembrano descrivere uno scenario in cui l'Italia è, per la prima volta, prima in Europa.

Il primo articolo sul quale l'opposizione ha battuto la maggioranza è l'art.21, che disciplina il bilancio di previsione. Con l'emendamento dell'Idv, a prima firma Renato Cambursano, viene introdotto un raccordo tra i programmi di bilancio e la nomenclatura Cofog (Classification Of Function of Government, una classificazione definita a livello internazionale dalle principali istituzioni che si occupano di contabilità nazionale: Ocse, Fmi ed Eurostat, ndr). Con l'altro emendamento, a firma Linda Lanzillotta e fatto proprio dal Pd, si punta ad evidenziare il collegamento tra gli indicatori e i parametri che devono essere indicati negli stati di previsione e il sistema di indicatori ed obiettivi previsto dalla legge sulla trasparenza ed efficienza della pubblica amministrazione. Ora, visto il ristrettissimo margine con il quale i due emendamenti sono stati approvati, questo segnale potrebbe essere considerato come la prova, da parte di una minoranza all'interno del popolo della libertà, della volontà di una maggiore serietà nell'analisi dello stato dell'economia del paese.

Appena pochi giorni fa, il 7 ottobre, il Cavaliere si era infatti affrettato a comunicare che l' economia italiana, secondo quanto si evince dal superindice dell'Ocse, appare in testa al gruppo dei 30 Paesi più industrializzati per la performance segnata nell' ultimo anno. Rispetto al settembre del 2008 l'indice dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo che anticipa le fasi di crescita e rallentamento dell' economia, mostra per l' Italia, considerata in fase di "espansione", un più 10,8%, contro l' 8,4% della Francia, il 7% di Cina e Regno Unito, il 5,7% della Germania.
Dati che dipingono un'immagine apparentemente molto positiva dello stato dell'economia italiana a questo punto della crisi. Purtroppo per il paese, tuttavia, l'indicatore che si va tanto sbandierando in giro descrive semplicemente una particolare condizione dell'economia, un'attitudine, un possibile potenziale di crescita e non certo il concreto stato di avanzamento della stessa.

Addentrandosi nel meccanismo di formazione dell'indice si può comprendere, infatti, quanto questo in realtà non mostri altro che i punti di svolta del ciclo economico stimati con riferimento all'output gap. Un indice, cioè, che fa riferimento alla deviazione del livello dell'attività economica dal livello consistente con il pieno impiego. Rappresenta, dunque, il risultato di un rapporto e conseguenza di ciò è il fatto che l’indice finale può migliorare semplicemente perché è peggiorata la stima degli effetti della crisi sulla crescita di medio periodo. E purtroppo per l'Italia la caduta del tasso di crescita potenziale nel 2010 è più ampia rispetto ad altri paesi.

Come infatti ha puntualmente fatto notare l'economista Francesco Giavazzi, “l’Ocse non rivela quanto del miglioramento registrato nel mese di settembre dipenda da una chiusura dell’output gap e quanto invece dipenda da un peggioramento delle previsioni sulla disoccupazione di medio periodo”. Se, esemplificando, si stima, ad esempio, che il tasso di disoccupazione di medio periodo dopo la crisi sarà più elevato di quanto non si stimasse prima, questo è sufficiente a far migliorare l’indicatore. Ciò significa che un suo miglioramento non è necessariamente una buona notizia. Paradossalmente, potrebbe indicare una cattiva notizia, cioè un aumento della stima degli effetti della crisi sulla disoccupazione nei prossimi anni.

Nonostante l'amara verità, il governo tuttavia non perde occasione per vendere agli ignari cittadini un po' del suo fumo. Arrivano infatti immancabili le dichiarazioni di commento dei dati: «Ci sono forti segnali di ripresa un po' ovunque. In Italia non possiamo lamentarci, non va malissimo», così il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Ancor più soddisfatto il ministro dell' Economia, Giulio Tremonti: "Sono tanti anni che stavamo dietro, sembrava che altri fossero pecore bianche e noi quella nera. Invece il tempo è stato galantuomo, e ora dobbiamo insistere". Sempre Berlusconi, forse incredulo per la possibilità di commentare dati positivi che non siano sondaggi commissionati dalle sue società, ha insistito sostenendo: "Ho continui contatti con il mondo delle imprese. Certo ci sono quelle in difficoltà, ma nella generalità dei casi c' è ottimismo diffuso e una sensazione di ripresa". E ancora: "Siamo i sesti contributori delle Nazioni Unite e l' economia italiana ha recuperato la terza posizione in Europa, davanti alla Gran Bretagna" ha aggiunto non contento il premier, in evidente stato di estasi.

Lungi dall'essere catastrofisti, va tuttavia sottolineato come il dovere di ogni giornalista economico sia quello di commentare i dati e possibilmente contestualizzarli nella realtà politica e sociale del paese. Non è infatti pessimismo, ma realismo, osservare che l’entità di una ripresa non è indipendente dall’entità della caduta iniziale. Come ricorda, infatti, sempre Francesco Giavazzi nel suo ultimo articolo su La voce. Info, “fra settembre 2008 e la primavera del 2009 l'indicatore era caduto di 32 punti in Italia e Germania, ma di soli 14 punti in Francia, 12 negli Stati Uniti, 10 in Gran Bretagna. Ciò significa che nella fase più acuta della crisi l’output gap, o almeno la stima calcolata dall’Ocse, si era allargato di oltre il doppio in Germania e in Italia rispetto agli altri tre paesi”. Non ci si deve dunque sorprendere se dopo una caduta tanto pronunciata, la ripresa sia ora più ampia.

Se a questo si unisce la caduta del tasso di crescita potenziale nel 2010, calcolato dall'Ocse e pubblicato nel giugno scorso nell’Economic Outlook no. 85, si comprende come l'indicatore possa migliorare semplicemente perché ad essere peggiorata è la stima degli effetti della crisi sulla crescita di medio periodo dell'economia. In altre parole la spiegazione del miglioramento dell’indice è, almeno in parte, una chiusura dell’output gap non perché sia migliorata la stima del livello di produzione, ma perché si è ridotta la stima del livello potenziale. Appare dunque evidente quanto sia parziale e faziosa l'interpretazione data dal governo ai dati pubblicati dall'organizzazione internazionale.

Ancora una volta da un'analisi attenta dei dati e da una comprensione della logica seguita nel corso della loro elaborazione si evince quanto la politica del sorriso, del sole in tasca, abbia contaminato il rapporto tra governanti e governanti. Se la semplice menzogna, infatti, in altri paesi è causa di sdegno e biasimo e può talvolta portare addirittura alle dimissioni dalle cariche pubbliche, in Italia questa è innalzata a livello di strumento di governo, mezzo attraverso il quale creare e mantenere il consenso, per la gioia di tutti coloro che sognano un governo seriamente impegnato nella gestione degli interessi pubblici.

di Mariavittoria Orsolato

Nonostante solo una settimana fa il Guardasigilli ci avesse assicurato compìto che il governo non stava studiando norme sulla prescrizione processuale, tutti quelli che dopo la bocciatura del lodo Alfano avevano stappato gaudenti bottiglie di spumante sappiano che non è ancora finita. Stavolta l’hanno chiamata semplicemente “norma sui processi veloci” e, armai avveduti del fatto che parlare della giustizia come un impedimento al premier è controproducente, hanno detto che servirà a snellire i tempi biblici dei nostri tribunali. Le vittime di tutti gli altri reati portino pazienza.

Il testo non è ancora stato reso pubblico ma pare che la bozza su cui hanno lavorato alacremente l’onorevole ghostwriter Niccolò Ghedini e Giulia Bongiorno, presidente della Commissione giustizia della Camera e finiana della prim’ora, sia un capolavoro di contrappesi concentrato in quattro punti. Il primo riguarda i tempi processuali e stabilirebbe che per i casi con imputazioni inferiori ai 10 anni (ad eccezione dei soliti reati di terrorismo, mafia e turbativa sociale), si deve avviare l’estinzione del procedimento se il processo non si chiude entro due anni per ogni grado di giudizio.

Al secondo punto starebbe invece un taglio di un quarto dei termini di prescrizione per tutti i procedimenti pendenti relativi a reati punibili sempre con meno di 10 anni, ma commessi solo da incensurati prima del 2 maggio 2006 - data in cui è entrato in vigore l’indulto a marchio Prodi. Sugli altri due punti entrerebbero poi in gioco le modalità procedurali con cui gli uffici giudiziari sarebbero in grado di celebrare processi in tempi ridotti.

Ora, quello che oggi potrebbe diventare un disegno di legge di iniziativa parlamentare, in realtà è solo l’ennesimo trucchetto cavilloso a cui Berlusconi si vorrebbe aggrappare per scampare i processi sulla frode dei diritti tv Mediaset e sulla corruzione dell’avvocato inglese David Mills: cominciando a presentare una serie interminabile di legittimi impedimenti - come sta già facendo per il processo Mediaset, da poco riaperto a Milano - in nostro avrà gioco facile nel rinviare un un’udienza dopo l’altra e riuscirà a far cadere come birilli tutte le sue imputazioni, che sono appunto inferiori ai 10 anni e interessano oltretutto fatti commessi prima del 2006 da uno che, miracolosamente, risulta agli atti comunque incensurato.

Di questo nuovo porcellum legislativo si parla già come del “lodo Fini-Berlusconi” e la definizione dà sicuramente da fare ai molti che avevano visto nel Presidente della Camera un baluardo di costituzionalità contro l’arroganza dei berluscones. Il confronto tra i cofondatori del Popolo delle Libertà è stato sicuramente travagliato, entrambi hanno qualcosa da perdere in questa disputa: il premier ha fretta di mettere la parola fine ai suoi procedimenti pendenti e di annichilire quelli che inevitabilmente verranno nel tempo, Fini deve invece riscattare la sua credibilità politica agli occhi della maggioranza, senza però inficiare l’aura di autorevolezza che si sta guadagnando tra il popolo di elettori insoddisfatti.

Qui sta appunto la finezza del duo Ghedini-Bongiorno: formalmente la norma appare come la giusta soluzione all’incontenibile lunghezza dei processi - che mediamente anno dai 7 e mezzo per il processo civile  ai 10 anni di quello penale - nella realtà dei fatti il disegno di legge è l’ennesimo colpo di spugna sui trascorsi e i presenti giudiziari del Presidente del Consiglio.

Il compromesso a cui necessariamente si è dovuti arrivare, verte sul secondo punto del testo, quello in cui si ridurrebbero i termini di prescrizione per i reati con pene inferiori a 10 anni e che messo in pratica annullerebbe un’infinità di procedimenti: il Quirinale, ammesso che consideri costituzionalmente legittima l’abbreviazione dei processi, non sottoscriverebbe in nessun caso anche i tagli alla prescrizione, perciò è bene accontentarsi e non tirare troppo la corda. Berlusconi dovrà compiacersi di risolvere solo i problemi già in gioco e non potrà avvalersi di quell’immunità “in prospettiva” che ha già provato ad attribuirsi con i vari lodi Maccanico, Schifani e Alfano.

Certo, abituati come siamo agli escamotage dell’ultima ora, nulla toglie che il desiderio di Padron’ Silvio sulla prescrizione breve possa essere esaudito con un emendamento a nome fittizio da inserire in fase di dibattimento, ma in questo modo l’ala finiana del partito potrebbe sollevarsi e fare fronte comune contro gli altri affari ad personam e non che ciclicamente vengono proposti alle Camere.

Purtroppo però, al di là delle liasons dangereuses che intrecciano i politicanti di quella che a torto si continua a chiamare destra, la questione sostanziale dell’operazione verte nuovamente sull’uso spregiudicato del potere legislativo contro quello giudiziario. Un nume della filosofia politica del calibro di Montesquieu scriveva nel suo “Esprit des lois” che il discrimine tra un paese libero e un paese dispotico stava nell’autonomia della magistratura e soprattutto nella sua funzione moderatrice contro gli abusi e capricci degli uomini di potere.

Ieri, a riprova della cronica amnesia nazionale, in un accorato editoriale al tg delle 20,00, il direttore Minzolini ha spiegato contrito come l’immunità parlamentare fosse un lascito dei nostri padri costituzionali per equilibrare i poteri istituzionali ed evitare intimi accanimenti contro cittadini che legiferano nell’interesse del paese. A ciò ha aggiunto che se l’immunità parlamentare è stata annullata nel 1993, questo è stato esclusivamente il frutto di una campagna mediatica sorta sul livore del popolino.

Chissenefrega di Montesquieu e dello spettro del dispotismo, chissenefrega del rispetto delle istituzioni e del principio di giustizia ed equità che dovrebbe stare alla base delle moderne democrazie. Noi abbiamo Berlusconi: vive l’empereur!

 


 

di Ilvio Pannullo

La Camera dei Deputati rimarrà chiusa per l'intera settimana, così com'è stato comunicato a tutti deputati dall'ufficio di presidenza. Sembra uno scherzo, o un messaggio surreale. È invece il dato incontrovertibile che segna quanto la nostra democrazia parlamentare sia in affanno, messa sotto scacco da una volontà politica ormai chiara più del sole. Già da tempo, sui giornali, si era infatti registrato il lento congelamento del Parlamento, lo svuotamento delle funzioni di Palazzo Madama e di Montecitorio: ma lungi dall'essere il frutto di un destino cinico e baro, o di una qualche calamità naturale, quanto accade in questi giorni è il prodotto di un disegno scientifico.

Scopo di questo disegno è concentrare tutti poteri nelle mani dell'Esecutivo, spostando il baricentro del potere dal Parlamento, così come descritto nella nostra carta costituzionale, a Palazzo Chigi, sede del governo. È questo un disegno che vede come suo inizio la famosa legge porcata di Calderoli, con la quale si è cercato non solo di svuotare di qualsiasi significato il voto elettorale, espressione genuina della sovranità popolare, ma anche, attraverso la diretta indicazione del Presidente del Consiglio sulla scheda, di modificare la costituzione materiale di questo paese in senso presidenzialista. Quanto accade in questi giorni è solo l'ennesima conferma della pericolosissima direzione, evidentemente anticostituzionale, che intende seguire l'attuale esecutivo.

Così accade che mentre il governo vede nella quotidianità della vita politica aumentare drasticamente i propri poteri, attraverso un’interpretazione espansiva delle norme che ne regolano la disciplina, la Camera chiude i battenti per dieci giorni. I numeri sono eloquenti: i deputati lavorano in media 27 ore alla settimana e, su 102 leggi approvate fino ad ora dall'inizio della legislatura, ben 87 sono di iniziativa governativa. Il che equivale a dire che il 90% delle leggi provengono dal governo. Fa impressione, inoltre, sapere che le 15 leggi approvate dal Parlamento sono il frutto di una sintesi che ha come base ben 4200 testi presentati dai deputati.

A Palazzo Madama la situazione è, se possibile, anche peggiore: dai numeri risulta infatti che un senatore lavora in media solo nove ore la settimana. Questa è la situazione ed appare evidente a tutti che un Parlamento ridotto in questo stato non serve a nessuno, essendo già di fatto nient'altro che un semplice luogo di ratifica delle proposte del governo.

La notizia dunque è questa: Montecitorio non lavora perché le scelte del governo gli impediscono di lavorare. A rendere eclatante quanto accaduto è il fatto che a denunciare la gravità della situazione sia stato lo stesso Presidente della Camera, Gianfranco Fini, autorevole membro della maggioranza. È stato infatti il cofondatore del PDL a confermare che la conferenza dei capigruppo ricomincerà a lavorare il 9 novembre con la riforma della legge di bilancio. “Mancanza di copertura finanziaria”. Questa una delle ragioni per le quali non è possibile calendarizzare in aula progetti di legge d’iniziativa parlamentare. Le commissioni sono ferme, ma non per pigrizia - precisa Fini - ma perché mancano i soldi. Quello stesso Gianfranco Fini, che all'inizio della legislatura aveva promesso che l'Assemblea avrebbe lavorato cinque giorni su sette invece dei tre della precedente, ha dato la colpa di questo stop all'esecutivo.

Teatro di questo conflitto è stato l'organo di autogoverno del Parlamento, la conferenza dei capigruppo. "Una delle ragioni per le quali non è possibile calendarizzare in aula progetti di legge d’iniziativa parlamentare - ha detto l'ex presidente di Alleanza Nazionale - deriva dal fatto che questi non possono essere licenziati dalle commissioni per mancanza di copertura finanziaria". Questo perché ai sensi dell'ultimo comma dell'articolo 81 della Costituzione, "ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte". Tuttavia, né la Costituzione, né altre fonti di diritto positivo, avevano in passato dettato precise norme in ordine agli strumenti e alle modalità di attuazione dell'anzidetto precetto costituzionale, che era stato di sovente disatteso, come rilevò la sentenza del 10 gennaio 1966, n. 1 della Corte Costituzionale.

La materia, invece, risulta ora espressamente disciplinata sotto il titolo di "copertura finanziaria delle leggi" dall'articolo 11 ter della legge 5 agosto 1978, n. 468. La legge prevede che la copertura avvenga esclusivamente a mezzo di: 1. utilizzo degli accantonamenti dei fondi speciali; 2. riduzione di precedenti autorizzazioni di spesa; 3. modificazioni legislative comportanti nuove o maggiori entrate. Il principio appare dunque chiaro: se non ci sono i soldi è meglio evitare di perder tempo per discutere di un intervento legislativo che comunque non potrebbe produrre alcun effetto.

Parole, quelle di Fini, indirizzate al ministro Elio Vito, responsabile dei rapporti con il Parlamento, e rimaste, a detta dei testimoni, senza nessuna risposta. Così accade nella sostanza che l'intera assemblea rimarrà ferma in un momento in cui certamente il lavoro non manca. Dopo la riforma della legge finanziaria, infatti, dal 9 novembre l'assemblea di Montecitorio discuterà la mozione Realacci sulla nave dei veleni al largo della Calabria e il disegno di legge sull'istituzione del ministero della Salute, mentre il provvedimento sulla cittadinanza gli immigrati sarà rinviato a dicembre.
Il punto però che occorre sottolineare è un altro. L'idea, cioè, di poter modificare l'ordine costituzionale del Paese senza rispettare le norme previste dalla stessa Costituzione all'articolo 138.

Accade dunque che il governo, in questo aiutato dallo strapotere mediatico del Biscione, cerchi di persuadere la pubblica opinione che l'Italia è un paese che ha bisogno di essere ristrutturato e rivisto nella sua interezza e che, per lungo tempo, è vissuto al di sopra delle proprie possibilità. La soluzione ai problemi è dunque nel rigore economico, che si traduce in un immobilismo dell'esecutivo nella gestione della spesa pubblica e nel taglio di ogni costo superfluo, che si traduce nella riforma di qualsiasi istituto che sia di ostacolo all'iniziativa del governo, e dunque alla volontà di Silvio Berlusconi.

È infatti questa la chiave di lettura attraverso la quale leggere i recenti avvenimenti. È in atto una vera e propria guerra istituzionale da quando il Presidente del Consiglio, sentendo come un oltraggio la bocciatura da parte della Corte Costituzionale del lodo Alfano, ha deciso di lanciare una vera e propria controffensiva nei confronti di tutti poteri ancora autonomi, e dunque pericolosi perché immuni dalla sua influenza: la magistratura prima, la Corte Costituzionale e il Presidente della Repubblica poi, il Parlamento adesso. Ben si comprende quindi il perché il presidente del Senato, Schifani, uomo di fiducia del premier, abbia deciso di non seguire l'iniziativa del suo collega Fini, come se il problema dell'autorevolezza del Parlamento non lo riguardasse. Quando si va in guerra, infatti, servono soldati non filosofi, bisogna quadrare le posizioni e serrare i ranghi: la fedeltà al capo non si mette in discussione neanche se ad essere sotto attacco è la credibilità della istituzione che si rappresenta. La strategia è chiara, i giochi sono fatti. In palio c'è il regime.


 

di Rosa Ana De Santis

La sentenza della Corte Europea, che accoglie il ricorso di una madre italiana originaria della Finlandia, non lascia ombre interpretative. La presenza della croce nelle aule scolastiche rappresenta una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le proprie convinzioni e una pesante discriminazione della libertà religiosa dei ragazzi. Il Parlamento italiano, quasi unanime, è insorto. Non solo i soliti cattolici alla Buttiglione, ma anche i paladini delle teorie più modaiole dell’integrazione e del multiculturalismo. Il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, parla di laicismo deteriore. Bersani, neo segretario del PD, scomoda addirittura una lezione sulla conflittualità accademica tra il diritto e il buonsenso,  contraddizione in cui saremmo incappati, secondo lui.

La reazione italiana e il pronto ricorso sono i sintomi evidenti di uno strumentale utilizzo ora della religione ora della laicità e della smania, questa davvero pericolosa, di seppellire i fondamenti inequivocabili che regolano i rapporti tra Stato e Chiesa, quindi - mutatis mutandis - tra la scuola pubblica e i principi della Costituzione italiana. Per chi l’avesse dimenticato, la religione cattolica, indubbiamente rappresentativa di cultura e tradizioni nazionali, non è più religione di Stato dalla revisione dei Patti Lateranensi del 1984. E, a chi fosse digiuno di catechismo, sarà bene ricordare che la croce non è semplicemente anzi non è affatto il simbolo di una cultura o di un folclore nazionale.

Alla CEI, che si adira della sentenza, non andrebbe giù un’interpretazione di questo tipo. La croce è tutta la mistica della religione cristiano-cattolica. Il centro della dogmatica e dei pilastri della fede. La croce non è uguale all’icona di Gesù di Nazareth. La croce è Cristo, un chiaro simbolo di fede. Ciò su cui si dirime, non a caso, attraverso sottili sfumature teologiche, la differenza tra le diverse chiese cristiane.

A quale tradizione e cultura da tutelare si riferisce il Ministro Gelmini? Alle meraviglie dell’arte sacra che rendono l’Italia regina di bellezza? Al patrimonio inestimabile della croce rappresentata nelle nostre chiese e nelle innumerevoli opere d’arte? Oppure si riferisce alle processioni, ai riti, ai costumi anche inconsapevoli che la nostra tradizione ha ereditato e assorbito? Peccato che tutto questi non c’entri con i crocifissi appesi sopra le cattedre o con il rito delle preghiere che si celebravano un tempo a fine lezione.

Insomma sarebbe opportuno decidere da quale parte stare, sempre. E non di volta in volta assecondare la teoria che più piace e più procura consensi. La laicità di un paese che si candida a sostenere l’integrazione come unica via di un multiculturalismo pacifico non può diventare ora una teoria, ora il suo esatto opposto. Non esistono interpretazioni controverse. La croce non è solo cultura, ma un richiamo esplicito a una fede particolare che non può accampare visibilità e dominio maggiore di altre solo perché corrisponde anche ad una tradizione. L’errore di questo slittamento, che al Parlamento italiano piace molto, è quello che ha permesso all’Europa di bocciare la nostra visione ridicola del laicismo svelata per quello che è: un dominio all’italiana.

E’, ancora una volta, un’elementare questione di metodo, a fare la differenza. Quella stessa croce, tolta dal muro e portata al collo, non è più elemento di dominio, o richiamo alla supremazia di una fede attraverso la maschera della cultura. In quello spostamento sta l’unica possibilità che nella scuola, i figli di tutti, a partire dalle diverse educazioni e convinzioni, imparino a riconoscere la differenza e a rispettarla. Questo ci aspetteremmo dalla scuola di uno Stato laico. Non un crocefisso per ricordare al bambino musulmano, a quello ateo o al buddista tutto quello cui lui non ha diritto. Nemmeno un simbolo per le sue tradizioni e per il suo dio.

Non è con il pretesto di un simbolo imposto nelle aule di tutti e dello Stato che torneranno a riempirsi le chiese. Non crederà la CEI che facendo di dio la bandiera di questo Paese verranno rimessi i peccati di certa politica. Tutti quelli fatti contro gli ultimi e i bisognosi. E non era questo il monito di un innocente messo in croce dal potere degli uomini? Ma del resto è lontano da questa morale il fuoco che agita gli animi del Parlamento, loro parlano di tradizione.  E’ così che una scappatoia per la coscienza rimane sempre. In chiesa e davanti ai cittadini.

 

di Giovanni Gnazzi

Urlava al telefono Papi, nella trasmissione condotta da Floris. L’amico di Noemi era furibondo per la condanna reiterata all’avvocato Mills, costretto a mentire per salvare il premier. Si è definito un perseguitato, anzi una vittima, né più né meno. L’uomo che presiede il governo ed ha in affitto la maggioranza dei parlamentari, controlla i servizi segreti, l’economia, la maggior parte dell’informazione e il mercato pubblicitario che ne determina l’esistenza o la fine, si considera una vittima.

Sfugge, a Papi, il senso delle parole, quasi come quello della decenza. Un caso così grande di conflitto d’interessi e una commistione così spaventosa tra i suoi affari privati e quelli pubblici, in quale altro paese sarebbe stata possibile? Nei confronti della magistratura l’equazione, alla fine, non è poi difficile: se i giudici lo assolvono sono magistrati, se lo condannano sono comunisti.

E sì che la magistratura comunista l’ha appena salvato dal dolore più grande: quello di dover pagare per quello che ha fatto. Succede infatti che, a differenza dei comuni mortali italiani, che vedono l’immediata esecuzione della sentenza civile in caso di condanna e, normalmente, si vedono rigettare l’stanza di sospensiva in attesa dei successivi pronunciamenti (della serie: intanto paghi, poi, eventualmente, recuperi), nel suo caso l’iter consueto si ribalta. L’azienda del Premier, infatti, ha ottenuto la sospensione del pagamento dovuto alla Cir di De Benedetti in attesa dei gradi successivi di giudizio. Tradotto: De Benedetti non verrà risarcito per anni e anni.

Il magistrato Giacomo De Deodato, presidente della II Corte D’Appello che ha deciso la sospensiva, non è comunista, ovvio. Se proprio si vogliono cercare simpatie politiche nel suo curriculum non se ne trovano; nell’albero genealogico si trova invece il fratello, Giovanni, deputato di Forza Italia dal 1996 al 2006. Due fratelli, però, come sanno Silvio e Paolo, non fanno un’accusa e tanto meno una prova, solo una constatazione in punta di penna. Ma, ad eccezione di Deodato de di chi lo ha assolto in altri processi, gli altri magistrati sono comunisti.

La furia dell’uomo che si è fatto da se, ma rifatto da chirurghi amici, si è scatenata a seguito della conferma di condanna per l’avvocato Mills; condanna che, se venisse confermata dall’istanza superiore di giudizio, porterebbe ad identica sorte anche Papi, con inevitabili riflessi e ricadute sulla sua permanenza a Palazzo Chigi. L’anomalia, dice lui, non è Berlusconi, ma la magistratura. Il giudice che ha condannato Mills, Flavio Lapertosa, è certamente un comunista, a detta di Papi. Che poi sia lo stesso giudice Flavio Lapertosa che assolse Berlusconi nel processo SME-Ariosto, indica certamente la diffusione pericolosa dei casi di omonimia, un'abile strumentazione della sinistra, immaginiamo.

Ora, il fatto che Berlusconi sia stato oggetto di molteplici iniziative giudiziarie è fatto noto. Ma nessuna di queste ha avuto origine da reati commessi nella sua vita politica. Tutte, invece, hanno affrontato Berlusconi nella dose di reati connessi alla sua attività imprenditoriale, dalle origini dei suoi affari a poco prima della sua discesa in politica. Semmai, la questione dovrebbe essere posta diversamente: qual’é l’imprenditore che più di lui ha violato così continuativamente il codice penale italiano? E chi si è potuto permettere d’insultare e calunniare magistrati, giornalisti, politici ed imprenditori utilizzando le aziende editoriali di famiglia?

I processi che l’hanno visto protagonista - il Lodo SME, quello Mondadori, All Iberian ed altri - lo hanno visto imputato o co-imputato di reati quali corruzione della Guardia di Finanza, dei giudici e dei testimoni, frode fiscale, falso in bilancio ed esportazione illecita di capitali. Chi mai in Italia sarebbe rimasto a piede libero con queste accuse? Chi mai avrebbe ottenuto la riduzione dei tempi di prescrizione per i processi che lo riguardavano? E chi mai, attraverso leggi ad personam, sarebbe riuscito ad evitare le condanne? E dunque qual’é l’anomalia italiana?


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy