di Ilvio Pannullo

Per nostra fortuna accade anche in Italia. Accade anche qui, nella periferia degradata dell'Occidente avanzato, che lavoratori sfruttati, stufi di sentire sempre false promesse, decidano di riprendersi quella dignità che gli spetta come uomini, prima ancora che come lavoratori. Passando dalle parole ai fatti, dalla mobilitazione all'azione dimostrativa, circa 200 dei 1300 operai della Fiat di Termini Imerese, hanno infatti occupato il municipio e la stanza del sindaco Salvatore Burrafato.

I lavoratori della fabbrica siciliana, che da oggi sono di nuovo in cassa integrazione, temono che l'azienda possa smantellare il sito. A dimostrazione che la sovranità è ancora del popolo, dopo aver occupato la sede del comune, gli operai hanno anche “eletto” un proprio sindaco tra le tute blu: l'operaio ha, dunque, simbolicamente indossato la striscia tricolore. “Se le istituzioni non prendono in considerazione i nostri problemi - dicono gli occupanti - cercheremo di fare da soli”. Parole sante.

L'azione dimostrativa degli operai siciliani della Fiat è molto importante soprattutto per ragioni simboliche. Bisogna, infatti, interrogarsi se un sistema che incentiva i capitali industriali a migrare verso quei paesi dove, per ragioni contingenti, il costo della manodopera garantisce ampi margini di guadagno, sia un sistema sostenibile. Se poi si comprende come ciò che accade oggi a Termini Imerese sia, in definitiva, il risultato di dinamiche sulle quali i comuni cittadini non hanno alcun tipo di controllo, rispondere a simili interrogativi diventa ancor più pressante. Se, com'è vero, l'economia non serve ad altro che a fornire a ciascuno ciò di cui ha bisogno, la costante deindustrializzazione del nostro paese e il conseguente impennarsi del tasso di disoccupazione dovrebbero imporre un ripensamento circa il modello di sviluppo da seguire nel secolo appena iniziato, un modo per rispondere alla crisi che parta da quei fondamentali che ne sono all’origine. Il rischio dell’immobilismo è di ritrovarci, di qui a qualche anno, cittadini di un ricchissimo stato del terzo mondo.

In questi giorni, anche un altro caso sta tenendo banco grazie alle ripetute prese di posizione da parte dei lavoratori: è il caso della Eutelia. Le storie sono diverse, ma la sostanza rimane sempre la stessa. L’Eutelia, che discende dalla Bull, che discende dalla Olivetti, che è un ramo dismesso di un grande centro di eccellenza che era tutto il settore elettronico informatico di Adriano e di Roberto Olivetti, rappresenta un caso limite, paradigmatico del fallimento dell’attuale sistema economico. I dipendenti della Eutelia, infatti, hanno una buona competenza professionale e ottimi studi alle spalle. Il loro lavoro, quello di informatici e gestori di sistemi di programmazione, si basa su una lunga preparazione e su di una grande esperienza, entrambi elementi che richiedono tempi lunghi per essere acquisiti.

I loro committenti sono lo Stato, la polizia, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, il Comune di Roma, amministrazioni regionali, privati di grandi dimensioni, oltre alle cooperative che insistono su tutto il territorio nazionale. Nonostante, dunque, il prestigio, il lavoro, i clienti, il personale specializzato di alto valore, questa azienda è in crisi. Una crisi non dovuta a motivi strettamente industriali o tecnologici, ma figlia di quella vorace e brutale voglia di profitto che sta alla base del modello mercatista a cui il nostro paese, con straordinaria fiducia, ha spalancato le braccia. Accade così che le aziende specialistiche come Eutelia vengano impunemente vendute, svuotate da proprietari sempre più opachi, coperti da prestanome, senza che si possa controllare il senso di ciò che accade, senza che nessuno voglio saperlo.

Coloro che ancora credono nei benefici della mano invisibile dovrebbero, infatti, osservando questi esempi, rendersi conto che questa altro non fa se non ripulire le tasche dei molti a vantaggio dei soliti pochi, tanto nei micro quando nei macro scenari economici. L'attualità ce lo mostra ogni giorno ed impone che urgentemente si dimostri quanto l’ultracapitalismo, sponsorizzato dalle istituzioni internazionali come l’unico mezzo per diffondere la ricchezza e la democrazia in ogni angolo del pianeta, sia in verità un sistema che, oltre a produrre sistematicamente un aumento del divario tra i ricchi e i poveri del pianeta, risulta completamente irrecuperabile.

Spesso si usa il termine “crisi sistemica” per analizzare il crack attuale, ma dovremmo piuttosto parlare di crisi strutturale. Quando, infatti, grandi realtà industriali chiudono, sfruttando il momento della crisi, per delocalizzare gli stabilimenti o, nei casi peggiori, compiere manovre speculative sulla pelle dei lavoratori, ad essere in crisi non è soltanto l'economia, ma l'intera struttura che sostiene una simile idea di sviluppo.

Dei grandi discorsi, dei grandi obiettivi restano solo le macerie: giovani senza  lavoro, famiglie abbandonate a se stesse, eccellenti professionalità cestinate senza rispetto ed un sistema produttivo oramai svuotato di qualsiasi significato. In una simile situazione, tanto grande quanto tragica, il governo vegeta, sicuro che il popolo non lo incalzi. A mancare, infatti, siamo noi, ancora convinti che quanto sta accadendo fuori non ci riguardi, almeno non ancora.

Bernard Stiegler, filosofo francese e direttore del dipartimento di sviluppo culturale del Centre Georges-Pompidou, ha riassunto l’attuale stato di sviluppo delle società occidentali affermando che “il capitalismo del XX secolo ha catturato la nostra libido e l'ha sviata dagli investimenti sociali”. Il tutto finendo col resettarci tramite il feticismo dell'oggetto. Sta dunque a noi cittadini, elemento passivo di questo sistema, riappropriarci dei nostri diritti e rifiutare che simili storie avvengano e si ripetano, prima di tutto riconoscendoci in esse e sentendo le loro battaglie come le nostre. Presupposto di questo sarà la convinzione che gli uomini e le donne vengono prima del profitto. Sempre.


 

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