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di Mariavittoria Orsolato
Non sono bastati i 50.000 in piazza a Roma lo scorso sabato. Non sono bastati i continui episodi di violenza omofoba. Non è bastata nemmeno l’apertura di uno come Gianni Alemanno. La Camera è riuscita a spazzar via mesi di mobilitazione, rigettando il disegno di legge sull’omofobia elaborato dalla deputata Pd Anna Paola Concia e controfirmato dal leader dell’Idv Antonio Di Pietro.
Nonostante il testo fosse già passato in Commissione Giustizia lo scorso 2 ottobre, l’assemblea di Montecitorio ha votato l’incostituzionalità del provvedimento, approvando la mozione pregiudiziale dell’Udc secondo cui il provvedimento andrebbe a violare l’articolo 3 della Costituzione, quello che per intenderci rende tutti gli italiani uguali di fronte alla legge.
Con 285 voti a favore, 222 contrari e 13 astenuti, il testo che andava a modificare l’articolo 61 del codice penale, inserendo tra le aggravanti dei reati i fatti commessi “per finalità inerenti all’orientamento o alla discriminazione sessuale della persona offesa dal reato”, è stato definitivamente cancellato. Se quindi un nuovo provvedimento contro l’omofobia sarà mai riscritto, dovrà essere un disegno di legge nuovo di zecca e dovrà ricominciare da zero il suo lento e faticoso iter parlamentare.
La querelle sulla proposta era cominciata tempo addietro, con le solite prese di posizione teodem che volevano fuori dalla rosa dei beneficiari di questa legge i transessuali e i transgender ma, nonostante le limature che la firmataria era stata costretta a compiere per il quieto vivere istituzionale, un gruppo di otto parlamentari del Pdl (Alfredo Mantovano, Maurizio Lupi, Isabella Bertolini, Maurizio Bianconi, Barbara Saltamartini, Alessandro Pagano, Raffaello Vignali e l’agente betulla Renato Farina) consegnava alla stampa un documento in cui spiegava le ragioni del “no” sulla base del principio di uguaglianza.
Secondo costoro, infatti, “attribuire una specifica e più energica tutela penale all'orientamento sessuale della persona offesa dal reato significa attribuire all'orientamento omosessuale (l'unico orientamento sessuale che lamenta discriminazioni) non un valore in sé positivo, ma un valore maggiormente positivo rispetto ad altri motivi discriminatori, non previsti dall'ordinamento”. Da queste mosse lo spunto dell’Udc, appoggiato da Lega e Pdl, per chiedere il rinvio del testo - con conseguente ritocco - in Commissione Giustizia e, una volta bocciata la mozione (con Pd e Idv che votano affinché la legge rimanga alla Camera), per intentare la pregiudiziale d’incostituzionalità al testo.
La votazione che ne è conseguita ha spaccato in due sia maggioranza che opposizione. Se nel Pd ci mette lo zampino la solita Paola Binetti, per il Pdl le defezioni sono illustri e riguardano quell’ala di influenza finiana - vedi Bocchino, la Moroni e Urso - che ancora prova a dialogare con l’opposizione. Secondo “Farefuturo”, l’associazione presieduta dal presidente della Camera, la legge sull’omofobia si sarebbe dovuta infatti approvare all’unanimità in quanto “poteva essere una bella occasione per una legge condivisa e necessaria”.
Ma questa legge, più che una splendida occasione di conciliazione politica, doveva rappresentare un salto di qualità giuridica rispetto alle convinzioni ataviche e pregiudizievoli che ancora oggi attanagliano la legislazione italiana. In più di una circostanza l’Unione Europea ha ammonito l’Italia sul fatto che non esistessero tutele legali consone alla condizione di emarginazione e intolleranza cui sono quotidianamente sottoposti gli appartenenti al mondo lgbt (lesbo-gay-bi-trans), invitando così le Camere a sopperire al vuoto legislativo e ad allinearsi con tutti gli altri Paesi aderenti all’unione.
Gli episodi di violenza intimidatoria che nei giorni scorsi si sono susseguiti all’interno della capitale, come l’attentato incendiario alla discoteca queer “Qube” o i continui pestaggi perpetrati ai frequentatori di quella che viene impropriamente chiamata Gay street, avevano poi contribuito in modo positivo al dibattito sulle ragioni della deputata Concia e dell’universo che lei, in quanto lesbica dichiarata, rappresenta al meglio.
L’annientamento del disegno di legge mono-comma, oltre a buttare a mare 13 mesi di discussioni parlamentari e 21 riunioni tra Commissione Giustizia e Affari Costituzionali, esautora quindi ufficialmente dalla responsabilità sociale per quella che a tutti gli effetti è una minoranza a rischio.
Gli omologhi di Svastichella sentitamente ringraziano.
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di Ilvio Pannullo
Nessuno pare prestare attenzione alle sensazionali nonché inedite rivelazioni riguardanti le stragi di mafia del 1992, emerse nell’ultima puntata di Annozero e rilanciate timidamente dalla sola carta stampata. Le dichiarazioni dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Martelli, pare non colgano interesse nel paese dove le organizzazioni mafiose controllano intere regioni e fatturano centinaia di miliardi di euro ogni anno. Accade così che passi quasi in secondo piano un avvenimento che potrebbe far luce su uno degli episodi più bui della Repubblica e che potrebbe, chiarendo le dinamiche di quei giorni, fare luce su quanto realmente avvenne e riscrivere la storia di questo paese.
Siamo in quel periodo, tra il 1992 e il 1993, in cui intere strade venivano fatte saltare in aria da centinaia di chili di tritolo, dove i magistrati venivano uccisi con le loro scorte perché non potessero più creare problemi, indagando sui rapporti tra la mafia siciliana e le istituzioni repubblicane. L’Italia, a quell’epoca molto più simile alla Colombia che ad una democrazia europea, era in ginocchio. Il paese era stretto attorno a quelle figure, i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, poi divenute simbolo della lotta senza confini all’illegalità. Tuttavia, se da una parte si moriva per difendere le istituzioni, c’era anche chi, all’interno delle istituzioni, trattava con la mafia per raggiungere una tregua.
Secondo la ricostruzione dell’allora ministro Martelli, nel giugno del 1992, dopo la strage di Capaci, il capitano dei carabinieri del ROS, Giuseppe De Donno, andò da Liliana Ferraro, collaboratrice di Giovanni Falcone che ne prese il posto alla direzione generale del ministero della Giustizia, per dirle che l' ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino “aveva una volontà di collaborazione, che si sarebbe però esplicata se avesse avuto delle garanzie politiche”. La Ferraro gli consigliò di parlarne con Paolo Borsellino e poi - ha rivelato Martelli - lei stessa lo confidò al magistrato nel trigesimo della morte di Falcone, cioè il 23 giugno 1992. La notizia è di quelle importanti perché potrebbe rivelare il movente della morte del giudice Paolo Borsellino, fatto saltare in aria in quanto decisamente contrario a qualsiasi trattativa con Cosa Nostra.
Si apprese infatti a fatica che in quegli attimi dolorosissimi per la coscienza della nostra povera nazione, in cui si sarebbe dovuta attendere una reazione ferma e durissima da parte delle istituzioni, una parte della politica, dell’arma dei carabinieri e dei servizi segreti trattavano con il nemico per arrivare ad una tregua con la mafia. Nella tristissima vicenda ci sono dentro anche i leader di oggi: il premier Silvio Berlusconi e il suo braccio destro Marcello Dell’Utri che, tra il ’93 e il ’94, proprio nei giorni in cui stava nascendo Forza Italia, furono informati, secondo il pentito Giovanni Brusca, di tutti i retroscena delle stragi. Quello stesso Dell’Utri che, secondo il figlio di don Vito Ciancimino, prese il posto del padre come controparte politica di Cosa Nostra, ponte di collegamento tra gli interessi mafiosi e gli interessi pubblici.
Ma se di questa ignobile trattativa intavolata si era già a conoscenza, stando a quanto si apprende dai verbali delle pubbliche udienze, ciò che di nuovo emerge oggi riguarda la tempistica di questa trattativa. Quello che si evince dalle parole di Martelli, è infatti la retrodatazione di questa trattativa tra Stato e Antistato. Secondo l’allora colonnello Mori, oggi generale, la trattativa sarebbe iniziata i primi di agosto, quando Paolo Borsellino era stato già ucciso a Via D’Amelio; secondo l’allora Ministro di Giustizia invece la data sarebbe da collocarsi sicuramente prima della morte del magistrato, essendone stato informato già il 23 maggio. Questo nuovo scenario cambia ovviamente tutto, l’intera ricostruzione della strage. Qualcosa, infatti, pare muoversi nella procura di Palermo. Le rivelazioni di Martelli hanno già prodotto degli effetti, sebbene indirettamente.
Nell’indagine sulla trattativa tra mafia e Stato, infatti, il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e il sostituto procuratore Nino De Matteo hanno iscritto i nomi dei primi indagati. Si tratterebbe di due mafiosi, la cui identità è ancora top secret e per loro s’ipotizza il reato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato ex articolo 338 del codice penale. Se è vero, come è vero, che nell’Italia dei misteri Cosa Nostra dialoga con lo Stato dai tempi della strage di Portella della Ginestra, è anche vero che questa è la prima volta, nella storia della Repubblica, che i nomi dei protagonisti finiscono nel registro degli indagati.
Ovviamente, però, il cuore della vicenda sta nell’accertare le eventuali responsabilità dei protagonisti di quel dialogo sulla sponda istituzionale. Accertare quindi e comprendere chi erano gli interlocutori dei mafiosi. Ma non sarà un’impresa facile. Nicola Mancino, al tempo dei fatti Ministro degli Interni e oggi vice presidente del CSM, non ricorda di aver incontrato Paolo Borsellino, nonostante il magistrato avesse segnato il suo nome sulla sua agenda il 1 luglio 1992, accanto al nome di Parisi, allora capo della Polizia. “ Forse gli strinsi la mano fra le centinaia di persone che si congratulavano per la mia nomina a Ministro degli Interni, ma non gli parlai”. Appare tuttavia molto strano che un personaggio a capo delle questure di tutta Italia, simbolo della difesa dell’ordine costituito, abbia problemi a ricordare di un incontro con quello che allora era l’immagine vivente della lotta alla mafia. Un viso che di certo non si poteva non conoscere.A questo si aggiunga che molti dei protagonisti di quei giorni fanno il suo nome come garante della sporca trattativa: il figlio di Don Vito Ciancimino, il pentito Brusca e persino Riina. Ma lui nega tutto ovviamente.
Intervistato da Marco Travaglio, per il Al Fatto Quotidiano, alla domanda su come giudicasse la trattativa, ormai assodata, tra Stato e mafia, Mancino risponde: “Mori ha ottenuto un ottimo risultato: la cattura di Riina, capo dell’ala stragista di Cosa Nostra, mentre Provenzano guidava i trattativisti. È certo, dalle carte processuali, che quell’arresto si deve ai colloqui con Ciancimino, che aiutò a individuare sulle mappe topografiche il famoso covo”. Purtroppo non si fa parola della contropartita dello Stato. Forse la mancata protezione di Borsellino? (la circolare del ROS in cui Di Pietro e Borsellino venivano considerati come i prossimi bersagli dopo la morte di Falcone arrivò solo all’attuale leader dell’Idv, che ebbe modo di lasciare l’Italia sotto copertura). La mancata perquisizione del covo di Riina, il mancato arresto di Provenzano nel ’95, la mancata sorveglianza di don Vito Ciancimino a cui fu data la possibilità di incontrare il superlatitante Provenzano fino al 2002?
Insomma quello che chiunque definirebbe un compromesso onesto e pulito. Alla fine della storia, però, rimangono le morti di due magistrati colpevoli di aver svolto il loro lavoro, mentre personaggi come Nicola Mancino, il generale Mori, il capitano De Donno hanno fatto carriera.
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di Luca Mazzucato
La bocciatura del lodo Alfano potrebbe rappresentare un'insperata manna dal cielo per l'azzoppato premier. Impersonare la vittima del complotto delle toghe rosse si è sempre dimostrata la carta vincente negli ultimi quindici anni. A meno che questa volta le pressioni psicologiche non siano più sostenibili per la salute mentale del premier, come suggerito da Veronica Lario. Passata l'ebbrezza per la sentenza della Corte Costituzionale, che ha ricordato l'esistenza in Italia di almeno una istituzione al riparo dal manovratore, è necessario riflettere a mente fredda sui nuovi scenari che questa sentenza apre. La vittoria della Costituzione sullo stato d'eccezione legale permanente, che il premier vorrebbe instaurare in Italia, ha scaldato gli animi di quella parte d'Italia che nella scorsa legislatura andava sotto il nome di “popolo dei girotondi.” Ma è ancora possibile catalizzare attorno alla difesa della legalità quella marea di cittadini indignati che risvegliò le coscienze e portò nel 2006 alla sconfitta dell'unto dal Signore?
Lo scenario del movimento di massa sembra difficile da realizzare. Innanzitutto, il Pd ha definitivamente rinnegato l'alleanza con Di Pietro, nel cui partito sono stati eletti molti degli ispiratori dei girotondi. Il Pd rincorre l'alleanza con Casini in vista delle prossime regionali, spostamento centrista che ha come prerequisito l'abbandono della polemica sulle leggi ad personam. Il fatto che Casini formerà alleanze a scacchiera, lasciando il Pd ancora una volta con il proverbiale cerino in mano, è un altro discorso.
Allo stesso tempo, la scomparsa delle forze di sinistra dal Parlamento non consentirebbe ai nuovi girotondi quella forte copertura politica di base di cui godeva in passato. Inoltre, l'aggravarsi della crisi e la disoccupazione di massa hanno eroso la base sociale dei girotondi: chi non ha più un lavoro difficilmente si preoccupa di sofismi legali.
Ma il vero paradosso della bocciatura del lodo Alfano è tutto politico. Negli ultimi mesi, per la prima volta il consenso per il premier ha cominciato a vacillare significativamente. Berlusconi ha cercato di tenere alto il livello dello scontro, creando polemiche con i giornali ed evocando un complotto eversivo immaginario, in mancanza di un nemico concreto. La riapertura dei processi a Milano e a Roma fornirà dei nemici in carne e ossa, che il premier potrà sfoggiare in qualsiasi appuntamento elettorale. Il ritorno della saga delle “toghe rosse,” in questo senso, è un'opportunità ghiotta per Berlusconi, che tornerà ad utilizzare la strategia del vittimismo, attenuata con l'entrata in vigore del lodo Alfano.
Quando Berlusconi afferma che “finché ci sarà Santoro, vincerò per sempre le elezioni,” confessa involontariamente il perno della sua strategia elettorale. Grazie al controllo ferreo sull'informazione televisiva, ottenuta con le ultime nomine Rai e le epurazioni a Mediaset, il premier forma e manipola le opinioni della maggioranza dei cittadini a proprio piacimento. Grazie alla riapertura dei processi, l'attenzione dei media si focalizzerà sulle questioni legali e non sulle vere emergenze politiche e sociali della disoccupazione e della precarietà, le uniche in grado di sconfiggere politicamente la destra. Un vero e proprio incubo orwelliano diventato infine realtà. Le toghe rosse saranno la nuova arma di distrazione di massa.
Nel caso improbabile che il processo Mills arrivi a sentenza e che il premier venga condannato per corruzione, la maggior parte dei governi occidentali (ma non Putin e Gheddafi) metteranno il nostro Paese in quarantena. Ma difficilmente questo non avrà ripercussioni drammatiche sulla politica italiana, se Berlusconi giocherà a reti unificate la carta del complotto della sinistra e dell'autarchia, come già fatto con successo in ogni occasione.
Montezemolo scalda i motori (meglio il suo ingresso a destra che quello a sinistra, dato per certo alcuni anni fa) e corre un giro di prova insieme a Fini, aspettando la fine del Caimano e la riapertura dei giochi. Ma c'è la concreta possibilità che il premier sopravviva a tutti i suoi avversari interni, grazie all'elisir di lunga vita che il suo medico Scapagnini gli prepara e che lo fa ringiovanire di festino in festino.
A meno che... due possibili vie d'uscita. La prima, giudiziaria: che venga accertata la consegna a Marcello dell'Utri del famoso “papello” di Riina, dimostrando che Berlusconi è il misterioso garante della pace tra lo Stato e Cosa Nostra. O, piu' semplicemente, che le condizioni di salute mentale di Berlusconi siano davvero serie, come ha lasciato presagire sua moglie. Se una vittoria politica contro l'imperatore è quasi impossibile, è invece una concreta possibilità che i processi milanesi e gli scandali sessuali mandino in cortocircuito il vispo settantatreenne. Le sue dichiarazioni a caldo dopo la bocciatura del lodo Alfano sono un primo assaggio della follia dell'imperatore. Insultando la Corte e il Capo dello Stato, Berlusconi ha dimostrato un logoramento psicologico, che potrebbe aggravarsi e portare a situazioni imprevedibili. Come in un remake di “Codice d'onore,” l'unica speranza è che un Berlusconi/Jack Nickolson, in aula di fronte al giudice, perda le staffe e rivendichi fieramente: “Ma come si permette, certo che l'ho corrotto io David Mills!”
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di Mariavittoria Orsolato
Il 21 luglio 2001, il G8 di Genova si era già tinto di sangue. Il giorno precedente Carlo Giuliani era stato ucciso con un colpo di pistola esploso dall’arma di ordinanza del carabiniere Mario Placanica, in piazza Alimonda. La città e il movimento di protesta No-global erano sotto shock, ma quella che poco dopo fu definita, con le parole di Amnesty International “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, era solo agli inizi. Proprio la notte del 21 luglio, la polizia decide di fare irruzione nella scuola Diaz, inizialmente sede del media-center del Genoa Social Forum e poi, a seguito dell’allagamento per pioggia dello Stadio Carlini, adibito a dormitorio per i manifestanti giunti a Genova da tutta l’Europa. I fermati furono 93, i feriti accertati 66.
Da quel momento in poi la storia ha due versioni: quella ufficiale della polizia e quella ufficiosa dei testimoni presenti in loco che, sbigottiti, vedevano uscire dal portone d’ingesso sempre più barelle. L’unica certezza è nelle immagini e nei filmati che ritraggono spaventose chiazze di sangue sui muri e sui pavimenti di quella che più che una scuola sembrava, secondo il giudizio di Michelangelo Fournier all’epoca vice-comandante del settimo nucleo sperimentale di Roma, “una macelleria messicana”.
Se un anno fa la prima sezione penale del Tribunale di Genova, dopo duecento udienze e quattro anni di processo, condannò 13 dei 39 imputati appartenenti in vario grado alle forze dell’ordine, ieri lo stesso tribunale ha assolto dopo un solo quarto d’ora di camera di consiglio, l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro e l’ex dirigente Digos Spartaco Mortola dall’accusa di aver indotto a falsa testimonianza l’ex questore di Genova Francesco Colucci, proprio nel processo per i fatti di violenza avvenuti alla Diaz. L'indagine-stralcio è nata infatti da un interrogatorio di Colucci che inizialmente ammise un coinvolgimento indiretto dell'ex capo della Polizia nei fatti della Diaz a causa della presenza sul posto di Roberto Sgalla, allora responsabile delle pubbliche relazioni della Polizia. Ma in seguito, durante il dibattimento, Colucci ritrattò la sua versione rettificando sul fatto che De Gennaro fosse a conoscenza delle violenze avvenuti nel plesso scolastico.
In base a queste incongruenze, lo scorso luglio i pm genovesi Enrico Zucchi e Francesco Cardona Albini avevano chiesto due anni di reclusione per l’attuale capo del DIS (Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza) De Gennaro e un anno e quattro mesi per Mortola, oggi questore vicario di Torino. Secondo il giudizio di primo grado quindi, la retromarcia di Colucci non è un fatto ascrivibile alle pressioni dei due dirigenti e l’intercettazione messa agli atti come prova principe non è indicativa della condotta di De Gennaro, quanto piuttosto di quella di Colucci, ormai l’unico rimasto a giudizio dopo la scelta del rito ordinario anziché quello abbreviato, per cui invece hanno optato i suoi diretti superiori.
Proprio in quell’intercettazione, registrata tra la prima e la seconda deposizione dell’ex questore di Genova, Colucci chiamava Mortola dicendo: “Ho parlato con il capo. Devo fare marcia indietro, anche per dare una mano ai colleghi”. Che il “capo” in questione fosse l’allora capo della Polizia resta un dubbio più che legittimo: come spiega l’avvocato del Genoa Legal Forum, Laura Tartarini, “come si può pensare che sia colpevole chi fa una falsa testimonianza e non chi lo induce a farla?”.
Heidi Giuliani non si stupisce degli esiti del processo: “De Gennaro fa parte della categoria degli intoccabili del nostro paese. Dopo i fatti i di Genova ha avuto una carriera sfolgorante, quindi non ho nessuno stupore davanti a una sentenza di assoluzione. La battaglia per ottenere giustizia sui fatti di Genova è stata una battaglia persa fin dal primo giorno”, ha aggiunto la madre di Carlo.
Per il pm Enrico Zucca però, “Un appello per la sentenza di oggi non è per niente scontato. Mai come in questo caso - ha aggiunto Zucca - tutto è legato alla motivazione. Qui le premesse del giudice sembrano essere corrette. Perché dovrebbe aver accettato l’impostazione della Procura. Ci sembra che ci siano buoni presupposti giuridici”.
Nei prossimi giorni, i due titolari dell’inchiesta vedranno come il Gup Silvia Carpanini ha interpretato gli elementi raccolti durante le indagini, visto che ha indicato le intercettazioni tra le fonti di prova: per i pubblici ministeri, infatti, la posizione di De Gennaro apparirebbe “più limpida”, in quanto l’attuale capo della Dis non è mai stato intercettato direttamente.
Nell’attesa di ulteriori sviluppi giuridici, la compagine politica plaude in maniera bipartisan a questa versione della giustizia mentre l’opinione pubblica si spacca proprio sull’esito del processo: se per molti questa è l’ennesima conferma di un piano di assoluzione generale per gli architetti delle giornate di Genova, per altrettanti la sentenza di ieri non è sindacabile sulla base del colore politico degli imputati.
Quello che, a distanza di otto anni, pare però certo e inconfutabile è che da qualche anfratto delle stanze dei bottoni arrivò un ordine ben preciso: il movimento No-global doveva essere intimorito e respinto conseguentemente dalla scena politica. Che quest’ordine sia stato interpretato in modo autonomo da ogni funzionario presente è una realtà agli atti processuali, che l’impatto di questa operazione abbia praticamente resettato una fetta del dibattito politico, è invece un assunto che in molti faticano ancora a comprendere.
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di Rosa Ana De Santis
La TV di Stato, quella del canone - per capirci - quella che indigna il governo per le puntate di Annozero, per le parole di Travaglio infarcite di richiami al codice penale, per il cattivo gusto di esporre una escort in prima serata e per qualche satira troppo audace, quella tv pubblica lì, sabato sera, è entrata nelle nostre case. L’ha fatto per tessere l’elogio di un capo di governo sotto assedio e per contestare la manifestazione che, qualche ora prima, aveva unito la stampa dei farabutti contro il monopolio dell’informazione che in Italia ha un nome e un cognome: Silvio Berlusconi. Il capo del governo.
L’ha fatto il direttore del TG1 con un editoriale che ricordava, per pathos e per sentimento, quello con cui mesi fa difese il premier dalle critiche e dalle insinuazioni dopo l’annuncio del divorzio da Veronica Lario. Minzolini esordisce con un “senza polemica”, ed infatti non è troppo attento ad argomentare contro le ragioni dei manifestanti: è semplicemente devoto e innamorato del proprio datore di lavoro e, se non ci fosse il blu dello sfondo e l’icona della RAI a tradire la scena, sembrerebbe di essere finiti dentro Rete Quattro, nel TG del vecchio amico Fede.
Le parole, la posa ieratica, il tono canzonatorio con cui si pensa di liquidare il problema del conflitto d’interessi con la solita rassicurazione per cui Berlusconi sarebbe un liberale doc, fanno davvero pensare alla piaggeria del TG di famiglia. E invece quello è il TG1 della RAI. Non una trasmissione di dibattito o di commento, ma il telegiornale. Lo spazio delle notizie, della cronaca, la fotografia del paese.
Il Direttore del TG1 non ha dubbi nel sostenere che in Italia sia garantita la massima libertà d’informazione. Lui è un giornalista sulla carta, come il collega di Libero e il direttore de il Giornale che elargisce minacce a colpi di dossier erotici. A Minzolini, in totale buona fede vuole farci intendere lui con il tono grave di chi espone un parere tecnico e neutro, a lui proprio non sembra una vergognosa anomalia il monopolio delle reti TV e dell’editoria, sovrapposto e coincidente con la massima carica di governo.
Proprietario di Mediaset, con la mano del governo sulle nomine RAI, controlla cinque telegiornali su sette. Ha tutto quello che si deve avere per parlare agli italiani e per vincere le elezioni, mentre la sinistra, con il fare di una razza in via d’estinzione mediatica, rincorre la platea di Ballarò o di RAI3, l’unica rete soggetta a par condicio. Non sarà un caso che l’osservatorio di Pavia riferisce di uno spazio dedicato al governo e agli esponenti della destra oltre il 70% della presenza nelle reti.
Il monopolio di Berlusconi, quello che fa sobbalzare tutta l’Unione Europea, quello che lo renderebbe - senza le altre accuse – ineleggibile, Minzolini non lo comprende se non accusando i colleghi querelati di essere un po’ troppo audaci e perseguibili quando scrivono del mercato del sesso del premier con base a Villa Certosa o a Palazzo Grazioli come luogo di scambio per favori, corruzioni di vario titolo o commercio di carriere politiche. Questo è privato, dice lui. Soprattutto, sembra di capire, non gli sembra concepibile criticare chi su quella poltrona, ce l’ha insediato.
L’unica cosa sensata che avrebbe potuto evidenziare una difesa intelligente del premier poteva essere una domanda secca da rivolgere al popolo dell’opposizione che del conflitto d’interessi fa sempre la sua bandiera e il suo pezzo forte. Perché la sinistra non sia stata in grado, una volta al governo, di curare questa peste della libertà e quest’abuso di poteri. Forse gli italiani non l’hanno dimenticato del tutto. Ma il direttore non spende editoriali per analisi politiche, fossero pure colorate di commento e di note personali. Lui è stato incaricato di elogiare e difendere.
Di recitare panegirici ad ogni occasione utile. Di essere fedele. Un compito che Berlusconi a quanto pare sa chiedere in modo convincente a molti. Alle donne in un modo che conosciamo meglio e agli uomini in un altro. Forse Feltri potrebbe spiegarcelo. Un lavoro ben fatto che fa sembrare la libertà di opinione un’eccezione concessa dal sovrano, una benevola indulgenza e un segno di bontà di cui non bisogna esser sazi e di cui si deve ringraziare. E’ così che un giornalista che scriveva di Dell’Utri, della mafia e di Craxi, un giorno è diventato Minzolini.