di Luca Mazzucato

La bocciatura del lodo Alfano potrebbe rappresentare un'insperata manna dal cielo per l'azzoppato premier. Impersonare la vittima del complotto delle toghe rosse si è sempre dimostrata la carta vincente negli ultimi quindici anni. A meno che questa volta le pressioni psicologiche non siano più sostenibili per la salute mentale del premier, come suggerito da Veronica Lario. Passata l'ebbrezza per la sentenza della Corte Costituzionale, che ha ricordato l'esistenza in Italia di almeno una istituzione al riparo dal manovratore, è necessario riflettere a mente fredda sui nuovi scenari che questa sentenza apre. La vittoria della Costituzione sullo stato d'eccezione legale permanente, che il premier vorrebbe instaurare in Italia, ha scaldato gli animi di quella parte d'Italia che nella scorsa legislatura andava sotto il nome di “popolo dei girotondi.” Ma è ancora possibile catalizzare attorno alla difesa della legalità quella marea di cittadini indignati che risvegliò le coscienze e portò nel 2006 alla sconfitta dell'unto dal Signore?

Lo scenario del movimento di massa sembra difficile da realizzare. Innanzitutto, il Pd ha definitivamente rinnegato l'alleanza con Di Pietro, nel cui partito sono stati eletti molti degli ispiratori dei girotondi. Il Pd rincorre l'alleanza con Casini in vista delle prossime regionali, spostamento centrista che ha come prerequisito l'abbandono della polemica sulle leggi ad personam. Il fatto che Casini formerà alleanze a scacchiera, lasciando il Pd ancora una volta con il proverbiale cerino in mano, è un altro discorso. 

Allo stesso tempo, la scomparsa delle forze di sinistra dal Parlamento non consentirebbe ai nuovi girotondi quella forte copertura politica di base di cui godeva in passato. Inoltre, l'aggravarsi della crisi e la disoccupazione di massa hanno eroso la base sociale dei girotondi: chi non ha più un lavoro difficilmente si preoccupa di sofismi legali.

Ma il vero paradosso della bocciatura del lodo Alfano è tutto politico. Negli ultimi mesi, per la prima volta il consenso per il premier ha cominciato a vacillare significativamente. Berlusconi ha cercato di tenere alto il livello dello scontro, creando polemiche con i giornali ed evocando un complotto eversivo immaginario, in mancanza di un nemico concreto. La riapertura dei processi a Milano e a Roma fornirà dei nemici in carne e ossa, che il premier potrà sfoggiare in qualsiasi appuntamento elettorale. Il ritorno della saga delle “toghe rosse,” in questo senso, è un'opportunità ghiotta per Berlusconi, che tornerà ad utilizzare la strategia del vittimismo, attenuata con l'entrata in vigore del lodo Alfano.

Quando Berlusconi afferma che “finché ci sarà Santoro, vincerò per sempre le elezioni,” confessa involontariamente il perno della sua strategia elettorale. Grazie al controllo ferreo sull'informazione televisiva, ottenuta con le ultime nomine Rai e le epurazioni a Mediaset, il premier forma e manipola le opinioni della maggioranza dei cittadini a proprio piacimento. Grazie alla riapertura dei processi, l'attenzione dei media si focalizzerà sulle questioni legali e non sulle vere emergenze politiche e sociali della disoccupazione e della precarietà, le uniche in grado di sconfiggere politicamente la destra. Un vero e proprio incubo orwelliano diventato infine realtà. Le toghe rosse saranno la nuova arma di distrazione di massa.

Nel caso improbabile che il processo Mills arrivi a sentenza e che il premier venga condannato per corruzione, la maggior parte dei governi occidentali (ma non Putin e Gheddafi) metteranno il nostro Paese in quarantena. Ma difficilmente questo non avrà ripercussioni drammatiche sulla politica italiana, se Berlusconi giocherà a reti unificate la carta del complotto della sinistra e dell'autarchia, come già fatto con successo in ogni occasione.

Montezemolo scalda i motori (meglio il suo ingresso a destra che quello a sinistra, dato per certo alcuni anni fa) e corre un giro di prova insieme a Fini, aspettando la fine del Caimano e la riapertura dei giochi. Ma c'è la concreta possibilità che il premier sopravviva a tutti i suoi avversari interni, grazie all'elisir di lunga vita che il suo medico Scapagnini gli prepara e che lo fa ringiovanire di festino in festino.

A meno che... due possibili vie d'uscita. La prima, giudiziaria: che venga accertata la consegna a Marcello dell'Utri del famoso “papello” di Riina, dimostrando che Berlusconi è il misterioso garante della pace tra lo Stato e Cosa Nostra. O, piu' semplicemente, che le condizioni di salute mentale di Berlusconi siano davvero serie, come ha lasciato presagire sua moglie. Se una vittoria politica contro l'imperatore è quasi impossibile, è invece una concreta possibilità che i processi milanesi e gli scandali sessuali mandino in cortocircuito il vispo settantatreenne. Le sue dichiarazioni a caldo dopo la bocciatura del lodo Alfano sono un primo assaggio della follia dell'imperatore. Insultando la Corte e il Capo dello Stato, Berlusconi ha dimostrato un logoramento psicologico, che potrebbe aggravarsi e portare a situazioni imprevedibili. Come in un remake di “Codice d'onore,” l'unica speranza è che un Berlusconi/Jack Nickolson, in aula di fronte al giudice, perda le staffe e rivendichi fieramente: “Ma come si permette, certo che l'ho corrotto io David Mills!”

di Mariavittoria Orsolato

Il 21 luglio 2001, il G8 di Genova si era già tinto di sangue. Il giorno precedente Carlo Giuliani era stato ucciso con un colpo di pistola esploso dall’arma di ordinanza del carabiniere Mario Placanica, in piazza Alimonda. La città e il movimento di protesta No-global erano sotto shock, ma quella che poco dopo fu definita, con le parole di Amnesty International “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, era solo agli inizi. Proprio la notte del 21 luglio, la polizia decide di fare irruzione nella scuola Diaz, inizialmente sede del media-center del Genoa Social Forum e poi, a seguito dell’allagamento per pioggia dello Stadio Carlini, adibito a dormitorio per i manifestanti giunti a Genova da tutta l’Europa. I fermati furono 93, i feriti accertati 66.

Da quel momento in poi la storia ha due versioni: quella ufficiale della polizia e quella ufficiosa dei testimoni presenti in loco che, sbigottiti, vedevano uscire dal portone d’ingesso sempre più barelle. L’unica certezza è nelle immagini e nei filmati che ritraggono spaventose chiazze di sangue sui muri e sui pavimenti di quella che più che una scuola sembrava, secondo il giudizio di Michelangelo Fournier all’epoca vice-comandante del settimo nucleo sperimentale di Roma, “una macelleria messicana”.

Se un anno fa la prima sezione penale del Tribunale di Genova, dopo duecento udienze e quattro anni di processo, condannò 13 dei 39 imputati appartenenti in vario grado alle forze dell’ordine, ieri lo stesso tribunale ha assolto dopo un solo quarto d’ora di camera di consiglio, l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro e l’ex dirigente Digos Spartaco Mortola dall’accusa di aver indotto a falsa testimonianza l’ex questore di Genova Francesco Colucci, proprio nel processo per i fatti di violenza avvenuti alla Diaz. L'indagine-stralcio è nata infatti da un interrogatorio di Colucci che inizialmente ammise un coinvolgimento indiretto dell'ex capo della Polizia nei fatti della Diaz a causa della presenza sul posto di Roberto Sgalla, allora responsabile delle pubbliche relazioni della Polizia. Ma in seguito, durante il dibattimento, Colucci ritrattò la sua versione rettificando sul fatto che De Gennaro fosse a conoscenza delle violenze avvenuti nel plesso scolastico.

In base a queste incongruenze, lo scorso luglio i pm genovesi Enrico Zucchi e Francesco Cardona Albini avevano chiesto due anni di reclusione per l’attuale capo del DIS (Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza) De Gennaro e un anno e quattro mesi per Mortola, oggi questore vicario di Torino. Secondo il giudizio di primo grado quindi, la retromarcia di Colucci non è un fatto ascrivibile alle pressioni dei due dirigenti e l’intercettazione messa agli atti come prova principe non è indicativa della condotta di De Gennaro, quanto piuttosto di quella di Colucci, ormai l’unico rimasto a giudizio dopo la scelta del rito ordinario anziché quello abbreviato, per cui invece hanno optato i suoi diretti superiori.

Proprio in quell’intercettazione, registrata tra la prima e la seconda deposizione dell’ex questore di Genova, Colucci chiamava Mortola dicendo: “Ho parlato con il capo. Devo fare marcia indietro, anche per dare una mano ai colleghi”. Che il “capo” in questione fosse l’allora capo della Polizia resta un dubbio più che legittimo: come spiega l’avvocato del Genoa Legal Forum, Laura Tartarini, “come si può pensare che sia colpevole chi fa una falsa testimonianza e non chi lo induce a farla?”.

Heidi Giuliani non si stupisce degli esiti del processo: “De Gennaro fa parte della categoria degli intoccabili del nostro paese. Dopo i fatti i di Genova ha avuto una carriera sfolgorante, quindi non ho nessuno stupore davanti a una sentenza di assoluzione. La battaglia per ottenere giustizia sui fatti di Genova è stata una battaglia persa fin dal primo giorno”, ha aggiunto la madre di Carlo.
Per il pm Enrico Zucca però, “Un appello per la sentenza di oggi non è per niente scontato. Mai come in questo caso - ha aggiunto Zucca - tutto è legato alla motivazione. Qui le premesse del giudice sembrano essere corrette. Perché dovrebbe aver accettato l’impostazione della Procura. Ci sembra che ci siano buoni presupposti giuridici”.

Nei prossimi giorni, i due titolari dell’inchiesta vedranno come il Gup Silvia Carpanini ha interpretato gli elementi raccolti durante le indagini, visto che ha indicato le intercettazioni tra le fonti di prova: per i pubblici ministeri, infatti, la posizione di De Gennaro apparirebbe “più limpida”, in quanto l’attuale capo della Dis non è mai stato intercettato direttamente.

Nell’attesa di ulteriori sviluppi giuridici, la compagine politica plaude in maniera bipartisan a questa versione della giustizia mentre l’opinione pubblica si spacca proprio sull’esito del processo: se per molti questa è l’ennesima conferma di un piano di assoluzione generale per gli architetti delle giornate di Genova, per altrettanti la sentenza di ieri non è sindacabile sulla base del colore politico degli imputati.

Quello che, a distanza di otto anni, pare però certo e inconfutabile è che da qualche anfratto delle stanze dei bottoni arrivò un ordine ben preciso: il movimento No-global doveva essere intimorito e respinto conseguentemente dalla scena politica. Che quest’ordine sia stato interpretato in modo autonomo da ogni funzionario presente è una realtà agli atti processuali, che l’impatto di questa operazione abbia praticamente resettato una fetta del dibattito politico, è invece un assunto che in molti faticano ancora a comprendere.

di Rosa Ana De Santis

La TV di Stato, quella del canone - per capirci - quella che indigna il governo per le puntate di Annozero, per le parole di Travaglio infarcite di richiami al codice penale, per il cattivo gusto di esporre una escort in prima serata e per qualche satira troppo audace, quella tv pubblica lì, sabato sera, è entrata nelle nostre case. L’ha fatto per tessere l’elogio di un capo di governo sotto assedio e per contestare la manifestazione che, qualche ora prima, aveva unito la stampa dei farabutti contro il monopolio dell’informazione che in Italia ha un nome e un cognome: Silvio Berlusconi. Il capo del governo.

L’ha fatto il direttore del TG1 con un editoriale che ricordava, per pathos e per sentimento, quello con cui mesi fa difese il premier dalle critiche e dalle insinuazioni dopo l’annuncio del divorzio da Veronica Lario. Minzolini esordisce con un “senza polemica”, ed infatti non è troppo attento ad argomentare contro le ragioni dei manifestanti: è semplicemente devoto e innamorato del proprio datore di lavoro e, se non ci fosse il blu dello sfondo e l’icona della RAI  a tradire la scena, sembrerebbe di essere finiti dentro Rete Quattro, nel TG del vecchio amico Fede.

Le parole, la posa ieratica, il tono canzonatorio con cui si pensa di liquidare il problema del conflitto d’interessi con la solita rassicurazione per cui Berlusconi sarebbe un liberale doc, fanno davvero pensare alla piaggeria del TG di famiglia. E invece quello è il TG1 della RAI. Non una trasmissione di dibattito o di commento, ma il telegiornale. Lo spazio delle notizie, della cronaca, la fotografia del paese.

Il Direttore del TG1 non ha dubbi nel sostenere che in Italia sia garantita la massima libertà d’informazione. Lui è un giornalista sulla carta, come il collega di Libero e il direttore de il Giornale che elargisce minacce a colpi di dossier erotici. A Minzolini, in totale buona fede vuole farci intendere lui con il tono grave di chi espone un parere tecnico e neutro, a lui proprio non sembra una vergognosa anomalia il monopolio delle reti TV e dell’editoria, sovrapposto e coincidente con la massima carica di governo.

Proprietario di Mediaset, con la mano del governo sulle nomine RAI, controlla cinque telegiornali su sette. Ha tutto quello che si deve avere per parlare agli italiani e per vincere le elezioni, mentre la sinistra, con il fare di una razza in via d’estinzione mediatica, rincorre la platea di Ballarò o di RAI3, l’unica rete soggetta a par condicio. Non sarà un caso che l’osservatorio di Pavia riferisce di uno spazio dedicato al governo e agli esponenti della destra oltre il 70% della presenza nelle reti.

Il monopolio di Berlusconi, quello che fa sobbalzare tutta l’Unione Europea, quello che lo renderebbe - senza le altre accuse – ineleggibile, Minzolini non lo comprende se non accusando i colleghi querelati di essere un po’ troppo audaci e perseguibili quando scrivono del mercato del sesso del premier con base a Villa Certosa o a Palazzo Grazioli come luogo di scambio per favori, corruzioni di vario titolo o commercio di carriere politiche. Questo è privato, dice lui. Soprattutto, sembra di capire, non gli sembra concepibile criticare chi su quella poltrona, ce l’ha insediato.

L’unica cosa sensata che avrebbe potuto evidenziare una difesa intelligente del premier poteva essere una domanda secca da rivolgere al popolo dell’opposizione che del conflitto d’interessi fa sempre la sua bandiera e il suo pezzo forte. Perché la sinistra non sia stata in grado, una volta al governo, di curare questa peste della libertà e quest’abuso di poteri. Forse gli italiani non l’hanno dimenticato del tutto. Ma il direttore non spende editoriali per analisi politiche, fossero pure colorate di commento e di note personali. Lui è stato incaricato di elogiare e difendere.

Di recitare panegirici ad ogni occasione utile. Di essere fedele. Un compito che Berlusconi a quanto pare sa chiedere in modo convincente a molti. Alle donne in un modo che conosciamo meglio e agli uomini in un altro. Forse Feltri potrebbe spiegarcelo. Un lavoro ben fatto che fa sembrare la libertà di opinione un’eccezione concessa dal sovrano, una benevola indulgenza e un segno di bontà di cui non bisogna esser sazi e di cui si deve ringraziare. E’ così che un giornalista che scriveva di Dell’Utri, della mafia e di Craxi, un giorno è diventato Minzolini.

di Ilvio Pannullo

Trecentomila ieri in piazza del popolo a Roma. All’appello lanciato dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, la parte sana e cosciente del paese ha risposto in modo compatto e presente. Non male per l’Italia e giornata di ferie per la questura di Roma. Numeri a parte, quello che è sicuro è che le strade del centro della capitale erano invivibili, paralizzate da un fiume di cittadini mossi solo dalla voglia di essere presenti, uniti dal desiderio di fare numero ad una manifestazione che si sentiva come diversa dalle altre.

Ed è diversa anche la piazza che si vede, una piazza variegata nei colori, nelle bandiere, nelle età dei suoi partecipanti. C’è un po’ di tutto e c’è la classica voglia di contarsi e di divertirsi, pur con la consapevolezza della serietà del momento e del motivo per cui si è chiamati a manifestare. Alla difesa della libertà di stampa va il sostegno dell’intera piazza e ai berlusconiani non rimane che il traffico. C’è da sorridere perché la punizione è di quelle che pesano.

Sono in tanti a parlare dal palco, ma a rubare la scena é sicuramente il presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida. Stimato professore, per quanto abituato a parlare in pubblico, appare un po’ intimorito dalla colorata e rumorosa moltitudine destinataria del suo intervento. Il tono non è - né potrebbe essere - quello di un abile politico, di un arringatore di folle, ma le sue parole arrivano dove devono arrivare, colpiscono al cuore e la piazza risponde. "Il cittadino non informato, o informato male, è meno libero". È un’ovazione e c’è il senso di tutta una giornata. Parla dell’articolo 21 della nostra Costituzione e distingue tra dovere di informare e diritto di essere informati; se il primo oggettivamente non sembra minacciato da imminenti incursioni delle forze dell’ordine nei vari consigli di redazione, il secondo forse in questo paese non l’abbiamo mai conosciuto.

Poi arriva l'intervento di Roberto Saviano. Già dall’annuncio, non appena s’intuisce che il prossimo intervento sarà quello dell’autore dell’ormai celebre “Gomorra” la piazza s’infiamma. È un boato, un applauso scrosciante che non accenna a spegnersi nonostante Vianello insista nella presentazione. Non appena appare sugli schermi la temperatura sale, l’applauso diventa ovazione e ovunque si levano grida d’apprezzamento. Pare di assistere ad una partita della nazionale, una di quelle che contano. Roberto si ferma, si mostra colpito dall’affetto che la moltitudine gli tributa. “E adesso dove trovo il coraggio di parlare?” dice quasi sibilando, dimostrando tutta la sua modestia e i suoi trent’anni portati male. Poi inizia a parlare: “Combattiamo per la serenità di lavorare senza doverci aspettare ritorsioni. Quello che sta accadendo in questi giorni dimostra che verità e potere non coincidono mai”.

I tempi anche in questo caso non sono da comizio come la dimensione dell’uditorio richiederebbe. “Quello che è accaduto a Messina – continua – è il frutto non della natura, ma del cemento. Se chi permette a chi scrive di farlo secondo coscienza e senza pressioni, tragedie, come questa potrebbero essere evitate. Onore è una parola che la mafia ci ha rubato. Questo termine oggi è stato recuperato. Ma non bisogna dimenticare che qui vicino, in una via molto famosa, sono stati sequestrati dei ristoranti di proprietà della n'drangheta. Oggi, però, abbiamo dimostrato che questo Paese vuole ritrovare il suo onore”.

L’intero pomeriggio viene scandito dagli interventi e i giornalisti sono davvero tanti. Anche quelli della stampa cattolica, da Avvenire a Famiglia Cristiana, il cui direttore Don Sciortino manda un messaggio per dire che è "diabolico far credere che questa manifestazione sia una farsa. La legittimazione del voto popolare non autorizza nessuno a colonizzare lo Stato e a spalmare il Paese di un pensiero unico senza diritto di replica". Incredibile a dirsi ma si schiera anche il cdr di Mediaset.  Senza saperlo il papi si ritrova una frangia di estremisti, un avamposto di farabutti proprio dentro casa sua. Miracoli italiani.

Dal palco si fa sapere che né il TG1 né il TG5 hanno dato la notizia della manifestazione, ma risponde SkyTG24 con la diretta Tv dell’intera giornata. Beghe tra potenti. Così, nei vari interventi si va delineando la chiave di lettura con cui interpretare questa dimostrazione di forza di quanti non ci stanno ad una informazione piegata alle direttive del governo. Più che libertà di stampa si parla di libertà di non ricevere condizionamenti dall’esterno e si sottolinea l’anomalia dell’assetto televisivo italiano. Se da fonti Cesis sette italiani su dieci si informano guardando la tv, è sulla tv e su come viene gestita l’informazione che si concentra la critica. Già, perché il sistema televisivo è il sistema nervoso della democrazia, se non funziona questo non funziona la democrazia.

Prima delle elezioni, infatti, nessun cittadino potrà incontrare Berlusconi, Veltroni, piuttosto che Fini o D’Alema. Quello che si saprà di loro sarà essenzialmente quello che i media avranno riferito sul loro conto, oltre alle loro dichiarazioni. Ma altrettanto rilevante sarà il negato e il taciuto. Scelte decisive contro informazioni false, distorte o grottesche e la mente va subito a Fede, Mimun e a quel Minzolini che, con tanto zelo, sta dimostrando all’Italia intera il perché della sua nomina. Con il suo ultimo intervento, conferma di non essere un direttore di un telegiornale né un giornalista oggettivo, ma il propugnatore di un preciso punto di vista. Quello di chi sta al comando. Commenti e fatti si mescolano al punto da non poter più comprendere dove finisce la notizia e dove inizi la sua interpretazione.

La vera forza della propaganda si manifesta quanto più il pubblico si convince o viene convinto che non vi è alcuna propaganda. Ed in questo il nostro primo ministro è un maestro. Un forte apparato ideologico come alternativa ad un palese governo autoritario. Ma c’è una parte del paese che non ci sta e che ieri lo ha dimostrato, urlando a quell’Italia distratta e stanca che c’è chi si farà carico di una battaglia per la tutela di diritti, che appartengono a tutti e segnano il grado di civiltà di una democrazia. “Questa piazza è la miglior risposta a chi definisce una buffonata la necessità di manifestare per la libertà di stampa” ha detto  Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21. “Questa piazza – ha continuato - saprà difendere anche la libertà delle donne e degli uomini di destra, dileggiati per aver espresso un punto di vista diverso rispetto a quello del presidente editore. Il miglior sponsor di questa manifestazione è stato Berlusconi, il quale ha sostenuto che in Italia c'è talmente libertà di stampa al punto che vanno in onda 4 o 5 trasmissioni che non gli piacciono. Parole di un sovrano sul viale del tramonto”. Lo sperano in molti.

di Alessandro Iacuelli

Alla vigilia delle primarie, la vita noiosa del PD si è animata: Rutelli se ne va. Non ancora, dice lui, ma manca poco, capiscono tutti. Il segnale è stato dato alla conferenza stampa di presentazione del suo libro, dal titolo “La svolta: lettera ad un partito mai nato”. Un titolo più che altro autobiografico, dal momento che sono state numerose le “svolte” dell’ex ragazzo di Torre Argentina e la stessa mancata nascita del PD ha in lui uno degli alfieri principali. Ma “la svolta”, in effetti, appare la cifra più adatta a rappresentare il tortuoso cammino dell’errante senza pace. Di svolta in svolta, dai radicali fino al PD, passando per la Margherita, in effetti il piacione della politica romana non si è fatto mancare niente. Negli intersizi delle sue numerose svolte, ha trovato la candidatura a Premier, la carica di Sindaco della Capitale e diversi altri incarichi di minore livello, fino alla trombatura annunciata alle ultime comunali ad opera di Gianni Alemanno, che avrebbe perso con chiunque, ma che ha vinto con Rutelli.

La svolta principale di Rutelli è certamente stata quella del passaggio dalla cultura laica ed anticlericale, propria della sua militanza nel Partito Radicale - nel quale durante gli anni ’80 ricoprì anche l’incarico di tesoriere - all’abbraccio mistico dell’identità religiosa. Un percorso iniziato da sindaco di Roma, evolutosi poi (decisamente in modo inglorioso) con i “coraggiosi” e i Teo-dem. Dal rappresentare la voce dei diritti civili al farsi megafono di Paola Binetti, il percorso, pure non semplice, è stato lineare: di svolta in svolta, infatti, “er cicoria” non ha mai perso di vista il luogo da dove era partito a quello dove voleva arrivare, anche solo per marcare le differenze oltre il richiesto.

Ed oggi, quando il nodo non tanto dell’identità, quanto della sopravvivenza, del partito democratico sembra arrivare al pettine, Rutelli annuncia la sua ultima rottura. Nessuna sorpresa, per carità: persino i sassi sapevano delle ambizioni rutelliane e tutti sanno che - qualunque sarà l’esito delle primarie - il suo futuro ruolo nel PD sarebbe stato ogni giorno più marginale. Da qui la volontà di trovare una nuova collocazione: e Casini, che di ricollocazioni è un grande intenditore, ha pensato bene di spalancargli le porte dell’Udc.

“La Margherita, dice, non tornerà, ma così come sta procedendo, il PD è un grande tradimento delle idee che diedero vita al progetto. Spiega “er cicoria” che il PD va ormai verso l’identità di ultimo partito della sinistra italiana e che, a questo destino, lui si oppone: “A sinistra no - dice - è una strada senza uscita”. Come si è arrivati a essere l’ultimo partito della sinistra (soprattutto senza che nessuno, soprattutto gli elettori di sinistra se ne sia accorto)?

Lo spiega lui, con parole come al solito chiarissime: “E’ mancato il coraggio di scegliere e tracciare la propria strada. La nascita di un partito riformatore, di questi tempi, avrebbe comportato la costruzione di una nuova narrazione e il fascino e la concretezza di un’azione ben organizzata nella società italiana”. Coloro che eventualmente trovassero nebulose le parole e oscuri i concetti, potranno rifarsi con il concetto che segue: “La debolezza della proposta ha reso sfumata la differenza rispetto ad avversari e vicini. L’inevitabile conseguenza - chiosa Rutelli - è che il PD diviene una variante nello sviluppo della storia della sinistra”. Chiaro, no?

E adesso? Per cambiare, conclude Rutelli, si dovrebbe formare un governo di ricostruzione e rilancio dell’economia, un governo del presidente con larga base parlamentare, l’interruzione dei conflitti distruttivi, un programma ambizioso di tre anni, pero poi - nel 2013, arrivare all’appuntamento con una competizione tra due schieramenti alternativi, basati su alleanze di nuovo conio”. Tra le declamazioni e i progetti non si sa dove la confusione regni maggiore. Per il PD, oggettivamente, quella dell’uscita di Rutelli è una buona notizia, che contribuisce a dipanare le contraddizioni sui temi etici e sulla conseguente collocazione politica. A patto però che i suoi coraggiosi teo-dem, lo seguano.

 


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