di Ilvio Pannullo

Nessuno pare prestare attenzione alle sensazionali nonché inedite rivelazioni riguardanti le stragi di mafia del 1992, emerse nell’ultima puntata di Annozero e rilanciate timidamente dalla sola carta stampata. Le dichiarazioni dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Martelli, pare non colgano interesse nel paese dove le organizzazioni mafiose controllano intere regioni e fatturano centinaia di miliardi di euro ogni anno. Accade così che passi quasi in secondo piano un avvenimento che potrebbe far luce su uno degli episodi più bui della Repubblica e che potrebbe, chiarendo le dinamiche di quei giorni, fare luce su quanto realmente avvenne e riscrivere la storia di questo paese.

Siamo in quel periodo, tra il 1992 e il 1993, in cui intere strade venivano fatte saltare in aria da centinaia di chili di tritolo, dove i magistrati venivano uccisi con le loro scorte perché non potessero più creare problemi, indagando sui rapporti tra la mafia siciliana e le istituzioni repubblicane. L’Italia, a quell’epoca molto più simile alla Colombia che ad una democrazia europea, era in ginocchio. Il paese era stretto attorno a quelle figure, i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, poi divenute simbolo della lotta senza confini all’illegalità. Tuttavia, se da una parte si moriva per difendere le istituzioni, c’era anche chi, all’interno delle istituzioni, trattava con la mafia per raggiungere una tregua.

Secondo la ricostruzione dell’allora ministro Martelli, nel giugno del 1992, dopo la strage di Capaci, il capitano dei carabinieri del ROS, Giuseppe De Donno, andò da Liliana Ferraro, collaboratrice di Giovanni Falcone che ne prese il posto alla direzione generale del ministero della Giustizia, per dirle che l' ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino “aveva una volontà di collaborazione, che si sarebbe però esplicata se avesse avuto delle garanzie politiche”. La Ferraro gli consigliò di parlarne con Paolo Borsellino e poi - ha rivelato Martelli - lei stessa lo confidò al magistrato nel trigesimo della morte di Falcone, cioè il 23 giugno 1992. La notizia è di quelle importanti perché potrebbe rivelare il movente della morte del giudice Paolo Borsellino, fatto saltare in aria in quanto decisamente contrario a qualsiasi trattativa con Cosa Nostra.

Si apprese infatti a fatica che in quegli attimi dolorosissimi per la coscienza della nostra povera nazione, in cui si sarebbe dovuta attendere una reazione ferma e durissima da parte delle istituzioni, una parte della politica, dell’arma dei carabinieri e dei servizi segreti trattavano con il nemico per arrivare ad una tregua con la mafia. Nella tristissima vicenda ci sono dentro anche i leader di oggi: il premier Silvio Berlusconi e il suo braccio destro Marcello Dell’Utri che, tra il ’93 e il ’94, proprio nei giorni in cui stava nascendo Forza Italia, furono informati, secondo il pentito Giovanni Brusca, di tutti i retroscena delle stragi. Quello stesso Dell’Utri che, secondo il figlio di don Vito Ciancimino, prese il posto del padre come controparte politica di Cosa Nostra, ponte di collegamento tra gli interessi mafiosi e gli interessi pubblici.

Ma se di questa ignobile trattativa intavolata si era già a conoscenza, stando a quanto si apprende dai verbali delle pubbliche udienze, ciò che di nuovo emerge oggi riguarda la tempistica di questa trattativa. Quello che si evince dalle parole di Martelli, è infatti la retrodatazione di questa trattativa tra Stato e Antistato. Secondo l’allora colonnello Mori, oggi generale, la trattativa sarebbe iniziata i primi di agosto, quando Paolo Borsellino era stato già ucciso a Via D’Amelio; secondo l’allora Ministro di Giustizia invece la data sarebbe da collocarsi sicuramente prima della morte del magistrato, essendone stato informato già il 23 maggio. Questo nuovo scenario cambia ovviamente tutto, l’intera ricostruzione della strage. Qualcosa, infatti, pare muoversi nella procura di Palermo. Le rivelazioni di Martelli hanno già prodotto degli effetti, sebbene indirettamente.

Nell’indagine sulla trattativa tra mafia e Stato, infatti, il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e il sostituto procuratore Nino De Matteo hanno iscritto i nomi dei primi indagati. Si tratterebbe di due mafiosi, la cui identità è ancora top secret e per loro s’ipotizza il reato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato ex articolo 338 del codice penale. Se è vero, come è vero, che nell’Italia dei misteri Cosa Nostra dialoga con lo Stato dai tempi della strage di Portella della Ginestra, è anche vero che questa è la prima volta, nella storia della Repubblica, che i nomi dei protagonisti finiscono nel registro degli indagati.

Ovviamente, però, il cuore della vicenda sta nell’accertare le eventuali responsabilità dei protagonisti di quel dialogo sulla sponda istituzionale. Accertare quindi e comprendere chi erano gli interlocutori dei mafiosi. Ma non sarà un’impresa facile. Nicola Mancino, al tempo dei fatti Ministro degli Interni e oggi vice presidente del CSM, non ricorda di aver incontrato Paolo Borsellino, nonostante il magistrato avesse segnato il suo nome sulla sua agenda il 1 luglio 1992, accanto al nome di Parisi, allora capo della Polizia. “ Forse gli strinsi la mano fra le centinaia di persone che si congratulavano per la mia nomina a Ministro degli Interni, ma non gli parlai”. Appare tuttavia molto strano che un personaggio a capo delle questure di tutta Italia, simbolo della difesa dell’ordine costituito, abbia problemi a ricordare di un incontro con quello che allora era l’immagine vivente della lotta alla mafia. Un viso che di certo non si poteva non conoscere.A questo si aggiunga che molti dei protagonisti di quei giorni fanno il suo nome come garante della sporca trattativa: il figlio di Don Vito Ciancimino, il pentito Brusca e persino Riina. Ma lui nega tutto ovviamente.

Intervistato da Marco Travaglio, per il Al Fatto Quotidiano, alla domanda su come giudicasse la trattativa, ormai assodata, tra Stato e mafia, Mancino risponde: “Mori ha ottenuto un ottimo risultato: la cattura di Riina, capo dell’ala stragista di Cosa Nostra, mentre Provenzano guidava i trattativisti. È certo, dalle carte processuali, che quell’arresto si deve ai colloqui con Ciancimino, che aiutò a individuare sulle mappe topografiche il famoso covo”. Purtroppo non si fa parola della contropartita dello Stato. Forse la mancata protezione di Borsellino? (la circolare del ROS in cui Di Pietro e Borsellino venivano considerati come i prossimi bersagli dopo la morte di Falcone arrivò solo all’attuale leader dell’Idv, che ebbe modo di lasciare l’Italia sotto copertura). La mancata perquisizione del covo di Riina, il mancato arresto di Provenzano nel ’95, la mancata sorveglianza di don Vito Ciancimino a cui fu data la possibilità di incontrare il superlatitante Provenzano fino al 2002?

Insomma quello che chiunque definirebbe un compromesso onesto e pulito. Alla fine della storia, però, rimangono le morti di due magistrati colpevoli di aver svolto il loro lavoro, mentre personaggi come Nicola Mancino, il generale Mori, il capitano De Donno hanno fatto carriera.

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