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di Nicola Lillo
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è intervenuto per sedare il bailamme di attacchi, ingiurie e proclami, che riempiono le pagine dei giornali e soprattutto le bocche dei “nostri” politici. Il Colle dice basta alle “polemiche e tensioni” fra le istituzioni e avverte la magistratura: “Si attenga alle sue funzioni”. “L'interesse del Paese - afferma - richiede che si fermi la spirale di crescente drammatizzazione di polemiche e tensioni non solo tra opposte parti politiche ma tra istituzioni investite di distinte responsabilità costituzionali”. Napolitano ribadisce che “nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento”. Un monito che sarebbe certamente condivisibile in una situazione come quella descritta dal nostro Presidente della Repubblica, ma che non rispecchia del tutto la realtà dei fatti.
È bene contestualizzare queste parole e adattarle al contesto politico attuale. Luca Palamara, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm), ha affermato infatti che “noi magistrati non siamo in guerra con nessuno, ma chiediamo di non essere aggrediti”. Aggressioni che derivano dalle parole pronunciate dal Premier, il quale ha accusato la magistratura di “portare il paese sull’orlo di una guerra civile, e di far saltare l’equilibrio costituzionale tra i poteri dello stato, mentre trama per far cadere il governo”. Fantascienza e accuse forti, esse forse eversive.
Berlusconi si sente in crisi a causa delle indagini di mafia che lo stanno coinvolgendo. Nelle procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, infatti, il nome del Cavaliere è stato più volte pronunciato. Soprattutto dal pentito Spatuzza, il quale avrebbe individuato in Berlusconi e Dell’Utri i referenti politici di Cosa Nostra dalle stragi del 1993.
L’arma di difesa del Premier è la delegittimazione. Sta infatti operando in questo senso, ed è probabile che dopo il 4 dicembre (data in cui si è fissata l'audizione del pentito) possa fare un intervento televisivo per spiegare (chiaramente a modo suo) come stanno “veramente” le cose. Intanto il monito del Colle viene preso con serietà dalla magistratura, sempre attraverso le parole di Palamara, il quale dichiara che “il capo dello Stato fa affermazioni in cui ogni magistrato deve riconoscersi”, mentre il Presidente del Consiglio si smarca dall’altolà di Napolitano affermando di non essere certo lui “ad alzare i toni dello scontro. Sono semmai alcuni pm a tenere un comportamento che, in qualunque democrazia, non sarebbe tollerato”. Dunque, continua a farsi affiancare dalla sua presunta e perenne irresponsabilità, sia politica, che giuridica.
Anche l’ex-Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, in un’intervista della settimana scorsa a La Repubblica, ha lanciato il suo atto d’accusa contro chi è responsabile di questo “imbarbarimento” e di questa “aggressione”: ossia Silvio Berlusconi, il suo governo e la sua maggioranza, che stanno abbattendo a “colpi di piccone i principi sui quali si regge la Costituzione, la nostra Bibbia civile”. Preoccupato dallo stato di salute della nostra democrazia, Ciampi ha affermato che “è in corso la manipolazione delle regole”, attraverso la delegittimazione delle istituzioni dell’attuale Presidente del Consiglio. Una “tirata di giacca” anche a Napolitano, al quale l’ex Presidente chiede di non firmare il ddl sul processo breve e di frenare le leggi ad personam. Anche in questo caso affermazioni degne di nota. Ma non fu lo stesso Ciampi a firmare il Lodo Schifani nel 2004 poi ritenuto incostituzionale dalla Consulta? A quanto pare si.
Intanto Napolitano si rivolge a tutto l’arco costituzionale, avvertendo che spetta al Parlamento “esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volta a definire corretti equilibri tra politica e giustizia”. Non alla magistratura, né al governo. Neanche a dirlo. Già una settimana fa Bersani ha dato mandato alla capogruppo del Pd al Senato, Anna Finocchiaro, di aprire un tavolo di confronto sulle riforme di cui il paese ha bisogno, in particolare la riduzione dei parlamentari, il Senato delle Regioni e i poteri del Presidente del Consiglio. Riforme non da poco, che vanno ad incidere sulla forma di governo della Repubblica.
Furio Colombo si chiede se “ha senso per un partito di opposizione rendere all’avversario, dotato di potere e di prepotenza, l’omaggio di far credere che sia sempre un partito solido, guidato con fermezza e degno di quel tanto di fiducia che si dà a un interlocutore affidabile”. Ed inoltre ci chiediamo, se sia possibile che il Pd, in vista anche delle regionali del 2010, voglia prendersi qualche merito in queste “riforme condivise”, grazie alla porta lasciata aperta dalla maggioranza.
Porta che resterà aperta esclusivamente se il Partito Democratico scenderà a un compromesso con il Pdl, seguendo quella che è la proposta dell’Udc (quanto mai incostituzionale) di creare un mini-lodo (Lodo Casini) esclusivamente per Silvio Berlusconi, onde evitare di sfasciare la giustizia con il processo breve. Pochi giorni fa, Bersani ha preso l’impegno, con il Capo dello Stato, di non tirarsi indietro per opportunismo o tatticismo sulle riforme, con la convinzione, però, di non scendere a patti con il Pdl su leggi e leggine a favore del Premier. Se così fosse la porta resterebbe chiusa e l’”inciucio” lontano dai nostri occhi. Forse…
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di Nicola Lillo
La Giunta per le autorizzazioni ha detto no. Nicola Cosentino resta dov’è. La richiesta di arresto, avanzata dal Gip Raffaele Piccirillo alla Camera, è stata cestinata dagli undici deputati nel giro di un’ora e cinquanta minuti. Sei hanno votato a favore, uno si é astenuto: Maurizio Turco, del Partito Democratico. Contrario all’arresto, il deputato si è rifiutato di pronunciarsi esclusivamente per avere l’opportunità di prendere la parola in Parlamento, quando l'aula dovrà esprimersi sulla proposta della Giunta. E abbiamo già un’idea di come sarà la decisione.
Il relatore, Antonino Lo Presti (Pdl), afferma che l'impianto accusatorio gli pare confuso e farraginoso, impostato com'è su talune evidenti incongruenze. Una vasta serie di elementi lo inducono a “ritenere l'ordinanza cautelare claudicante e connotata da un fumus persecutionis in senso oggettivo.” Ribadendo, pertanto, che la Giunta dovrebbe “deliberare nel senso del diniego”. Sulla stessa linea d’onda Antonio Leone (Pdl), Domenico Zinzi (Udc), Luca Rodolfo Paolini (Lnp), il quale afferma che “la concessione dell'arresto sarebbe un atto ingiusto, con cui si otterrebbe di restringere in carcere un soggetto a carico del quale si è proceduto con metodi da inquisizione spagnola, senza il benché minimo elemento fattuale.”
Anche Maurizio Paniz (Pdl) vota contro la concessione all’arresto di “Nick ‘o mericano”, sottolineando “che la Giunta non deve entrare nel merito della vicenda, il quale pure non ha il pregio della concludenza e della verosimiglianza, ma deve limitarsi a verificare se la situazione prospettata possa sovvertire le esigenze della sovranità popolare”.
In sostanza non bisogna assolutamente interessarsi dei reati contestati, a prescindere. L’unico interesse è la derivazione popolare del mandato parlamentare, il quale, secondo Paniz, legittimerebbe le conoscenze e le azioni, considerate illegali dal Gip, del sottosegretario all’Economia. “Nicola Cosentino è stato eletto dal popolo - continua - per svolgere una funzione parlamentare e di governo. Un eletto del popolo non può essere privato della sua funzione senza validi motivi che in questo caso mancano del tutto. Peraltro è doveroso il compito di un esponente politico di intervenire nei fatti del suo territorio e nella nomina delle varie società di servizi (!?)”. Invece i deputati Donatella Ferranti, Anna Rossomando e Marilena Sampieri, del Pd, insieme al casiniano Pierluigi Mantini e al dipietrista Federico Palomba, si dichiarano favorevoli all’arresto.
Le motivazioni sono elementari. Si afferma infatti che gli elementi per una misura cautelare, senza che possa individuarsi un fumus persecutionis, sussistono pienamente. “Il deputato Cosentino ha del resto confermato l'impianto accusatorio quando non ne ha smentito alcun presupposto di fatto ma ha solo sostenuto che così fanno tutti”. Dinnanzi alla Giunta, infatti, il sottosegretario all’Economia non ho distrutto alcuna tesi accusatoria tra le numerose presenti nelle 350 pagine di verbale del Gip. Si è, esclusivamente, rifatto al “così fan tutti” di memoria Craxiana.
Se ripercorriamo la storia della Repubblica, poi, in tema di autorizzazioni, su 65 richieste, soltanto 4 hanno ricevuto il sì. L’ultimo risale a 22 anni fa. Tra gli ultimi deputati graziati dai propri colleghi ricordiamo su tutti Dell’Utri e Previti. Per l’attuale Giunta siamo già al terzo diniego di fila: prima Salvatore Margiotta del Pd, poi Antonio Angelucci del Pdl, ed infine Nicola Cosentino. Un Nicola Cosentino, che già il 22 di Novembre, dichiara, sulle pagine di Libero, che in caso di autorizzazione all’arresto non esiterà a dimettersi da sottosegretario, ma al tempo stesso non abbandonerà la corsa per la regione Campania. “Non mi ritirerei dalla corsa neanche in questo caso. A meno che non fosse Berlusconi a chiedermelo”.
Problema che ora, dunque, neppure si pone. Nella pseudo-intervista sono tante le domande. Poche quelle interessanti. Si va dal “da giovane si sentiva più timido o guappo con le ragazze? Era secchione o somaro? Come ha fatto a conquistare una moglie tanto più bella e alta di lei?”. Per poi arrivare alle curiosità più ovvie per un giornalista dinanzi a un sottosegretario del governo con una richiesta d’arresto sulle spalle per concorso esterno in associazione camorristica. “La sua prima cotta? La sua prima volta? Cosa canta sotto al doccia e cosa porta di superstizioso con se?”.
Cosentino in tutto questo turbinio di insignificanti questioni private afferma, inoltre, che “Saviano è un bravo giornalista e continuo a stimarlo, ma talvolta non è genuino. Se conoscesse la mia storia e la mia famiglia eviterebbe certe affermazioni. Saviano non sa cosa pensano davvero di me i casertani e non ha una vera percezione della camorra”. Su questo, forse non ha tutti i torti. Di sicuro “Nick ‘o mericano” la conosce molto più approfonditamente e, soprattutto, direttamente.
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di Rosa Ana De Santis
A maggioranza, con un capolavoro d'ipocrisia e falsità, il Senato ha chiesto lo stop all’introduzione della RU-486 sul mercato, in attesa di un parere tecnico di congruità tra il farmaco e la legge 194. I rischi paventati, quando fin dal primo momento alcune reazioni politiche all’aborto chimico furono scomposte e aggressive, sono diventati impedimenti di fatto. Irragionevoli le motivazioni addotte e pericolosa l’esondazione di potere istituzionale sull’esercizio della libertà individuale. Vergognosa invece la genuflessione dei cosiddetti rappresentanti del popolo ai piedi dei vescovi, che nella vendita e nell'utilizzo del farmaco vedono la reincarnazione definitiva del suo diavolo peggiore: quello della libertà delle donne di disporre del proprio corpo.
Il parere tecnico, rivendicato impropriamente e fuori tempo massimo dal solito gruppetto di proibizionisti, è evidentemente di competenza dei tecnici ed è già stato dato dall’AIFA, organo deputato proprio a questo. Quanto al ruolo del Ministero della Salute, tanto invocato, sull’esame della congruità della pillola RU-486 con la legge 194, che ha liberalizzato l’aborto nel 1978, non è, come vogliono far credere, qualcosa ancora da dimostrare, semmai proprio tutto il contrario. La legge 194 è infatti la condizione preliminare e fondante per l’introduzione di opzioni alternative all’aborto chirurgico. Confondere le premesse con le conclusioni è un modo sporco di ragionare, facilmente smascherabile, una manovra per intorbidire le acque che tradisce quale sia il vero spauracchio dei moralizzatori: colpire proprio il diritto all’interruzione di gravidanza e il corpo della legge 194.
Gli oppositori più accaniti, tra cui l’on. Gasparri, capogruppo Pdl al Senato, Eugenia Roccella, sottosegretario alla Salute, e quelli più timidi, fintamente neutrali come Dorina Bianchi, che ha rimesso il suo mandato a Tomassini, hanno utilizzato diverse strade per picconare un diritto già sancito dalla legge per le donne. Si è parlato di ritorno all’aborto domestico, quando invece il farmaco sarebbe stato somministrato in ospedale e sotto stretta sorveglianza. Si è parlato di danni alla salute delle donne e di un farmaco affatto indolore, come se qualcuno avesse omesso che ogni rimedio chimico allopatico ha controindicazioni ed effetti collaterali di cui la paziente deve essere ben informato e consapevole. Si è parlato di un nuovo modo di abortire molto più rischioso, come se la pillola RU486 - tra l’altro - fosse un obbligo imposto alle donne e non un’opzione alternativa al metodo chirurgico.
Soprattutto, e questo è il vero centro della polemica politica, si è visto nell’assunzione della pillola la banalizzazione di una scelta morale delicata e complessa quale quella dell’aborto. Ed è tutto qui il passo falso dei cari teodem e dei finti liberali. Basta leggere la legge 194 per rendersi conto che il corollario delle premesse, il comportamento indicato ai sanitari e agli psicologi, l’iter faticoso di riflessione che è imposto dallo Stato alle donne è proprio mirato a scongiurare la facilità e la comodità ad abortire, a non utilizzare mai l’interruzione volontaria di gravidanza come rimedio contraccettivo, a sentire la gravità della scelta. La legge 194 così come é ora é ben piantata, anche troppo, sul controllo e sulla sorveglianza delle donne nell’esercizio della loro libertà.
Rimane poi sempre vero che la maturità morale di una donna, come tutti, non è misurabile con l’incremento delle restrizioni legislative, ma con un’educazione progressiva e permanente per le giovanissime. Magari al posto dell’ora di religione, ad esempio. La scelta di una donna per la pillola piuttosto che per l’aborto chirurgico è una scelta che investe il campo della tecnica, del rimedio considerato più idoneo alla propria accettazione psico-fisica, non è mai una scelta morale. La scelta avviene prima, nel momento in cui si decide di abortire, non nel come. Con la Ru486 non è in questione l’aborto, ma il modo in cui abortire. Far saltare questa differenza significa proprio mettere le mani sulla 194.
Come mai nessuna commissione d’indagine conoscitiva si è aperta sulla commercializzazione frettolosa e a tappeto del vaccino per l’H1N1, di cui sappiamo poco o nulla e che ci è stato vivamente consigliato sui nostri figli? Forse perché c’è forte odore di soldi e perché si tratta di farmaci e commercio, punto? Anche nel caso della RU-486, della chimica e dei suoi effetti non importa a nessuno. Le ragioni di tanto clamore sono falsamente tecniche e sono invece tutte morali, tanto è vero che si torna a parlare della 194 che è proprio la legge che impedisce ogni deriva abortista tanto temuta. L’obiettivo è riscrivere e mettere le mani su quel testo, unico esile baluardo della libertà femminile nel nostro Paese.
Noi non siamo la Francia, né la Gran Bretagna, né la Spagna, né la Germania. L’Italia non è in Europa. E l’alleanza di potere e fede cattolica, unita al dominio dello Stato sul singolo, è un modo tutto italiano di predicare la libertà individuale, senza avere alcuna considerazione seria del suo inestimabile valore.
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di Rosa Ana De Santis
Da ieri mattina i ricercatori dell’Ispra (Istituto per la protezione e la ricerca ambientale) sono sul tetto della loro sede di Via Casalotti, a Roma. Hanno preso questa decisione al termine di un’assemblea indetta da Usi RdB Ricerca e non scenderanno finchè non sarà chiusa positivamente la loro vertenza. Ai 200 precari storici non confermati a giugno scorso, se ne aggiungono altri 250 a rischio, oltre all’azzeramento dei fondi della ricerca sul mare.
Salari da fame, esasperazione, azzeramento della ricerca marina sono solo le ultime ferite inferte ai cervelli migliori di questo Paese. La segreteria nazionale dell’Istituto spera ora in qualche intervento dall’alto che superi la palude del commissariamento attuale. Il silenzio dell’Esecutivo, del Ministro Sacconi e Prestigiacomo soprattutto, è ormai intollerabile.
La protesta dei ricercatori arriva, per una felice coincidenza, a poca distanza dalle parole del Presidente della Repubblica sul valore della ricerca e sull’urgenza di sanare la differenza tra le parole della politica e gli investimenti economici. E se si guarda alla storia recente dell’Ispra, si scopre che l’unico intervento concreto sulla ricerca è stato rappresentato da pesantissimi tagli, da nessuna programmazione per il futuro e soprattutto dalla perdita di ricercatori di altissimo pregio i cui studi e le cui pubblicazioni scientifiche sono spariti dai tavoli delle decisioni. Arriva la solidarietà delle forze di opposizione che vedono nei tagli dei posti di lavoro una manovra spropositata che rischia, tra l’altro, di paralizzare l’attività dell’intero Istituto e di non lasciare alcun progetto vivo per il futuro prossimo.
Si dovrebbe procedere - queste le richieste dei lavoratori mobilitati - con un tavolo interistituzionale che, congiuntamente con i sindacati, scongiuri il rischio di far saltare ancora posti di lavoro e, soprattutto, si dovrebbe formalizzare un piano organico che tuteli le competenze scientifiche e dia le linee sulle attività, anche quelle di monitoraggio ambientale. L’anomalia dell’Ispra, quella che finora hanno pagato soltanto i ricercatori, è che l’accorpamento dei tre enti di ricerca ambientale pre- esistenti (Apat- Agenzia per la Protezione dell'Ambiente e i servizi Tecnici, Icram-Istituto Centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica Applicata al Mare, Infs- Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica), avrebbe dovuto comportare la razionalizzazione delle spese e la pianificazione delle attività attraverso, ad esempio, la formalizzazione di uno statuto sulle finalità dell’Ente.
Non solo questo non è accaduto, e sarebbe interessante capirne i motivi, ma il commissariamento oltre a congelare ogni possibile sviluppo, ha privato l’Istituto proprio delle risorse eccellenti a disposizione. Un percorso bizzarro, che inquina po’ le grandi parate istituzionali sul valore sacro della ricerca e sulla ferita dei cervelli in fuga su cui lacrima tanto il Ministro Gelmini.
Con tutti i ricercatori lasciati a casa non si consuma solo l’ennesima pagina nera per i lavoratori in tempo di crisi, ma chiudono o rischiano di chiudere progetti che servono alla vita di questo Paese. I progetti sul Mose, le bonifiche di zone portuali da ordigni bellici, la bonifica di siti inquinati, i monitoraggi ambientali di piattaforme off shore, la pesca sostenibile e l’acquacultura, solo per citare alcuni esempi.
L’opzione di eliminare gli stipendi e con essi il futuro della scienza è l’opzione più veloce con cui rimediare ai bilanci in emorragia per cattive politiche. Il conto però si paga sempre dal basso. Lo abbiamo visto pochi giorni fa con le aggressioni subite dagli operai in sciopero dell’ex- Eutelia. Lo abbiamo visto con i cinque operai Innse assediati nella gru per giorni e giorni. Lo abbiamo visto con l’immunità diffusa che ha coperto i vertici del buco nero Alitalia, mentre le buste paga dei più poveri diventavano sempre più magre o sparivano.
Si sale sul tetto per non essere più fantasmi, per essere più visibili. Ma un cambio di rotta è poco credibile. Il governo è lo stesso che ha cancellato dalla Finanziaria 80 milioni destinati all’assunzione a tempo indeterminato di 4200 ricercatori universitari. E’ tempo di crisi, i soldi servono per ddl e provvedimenti cuciti su misura per uno e il futuro, di tutti, è un lusso che non possiamo permetterci.
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di Nicola Lillo
L’insidia arriva dalla borgata di Brancaccio, alla periferia di Palermo. Qui sono nati e cresciuti Gaspare Spatuzza, Salvatore Grigoli, Pietro Romeo, tutti con decine di omicidi sulle spalle. I pm di Firenze hanno trasmesso alla procura di Palermo i verbali dei loro interrogatori. Parlano dei contatti politici con Berlusconi e Dell’Utri nella stagione delle stragi. Raccontano le confidenze dei loro capi, i fratelli Graviano, che, latitanti, si erano trasferiti da Brancaccio a Milano per, lasciano intendere, coltivare i dettagli della trattativa con la nuova forza politica, Forza Italia. Nel 2004 Filippo Graviano confidò a Spatuzza: “Se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che cominciamo a parlare con i magistrati”. Spatuzza lo sta facendo.
Giuseppe Graviano dal carcere esprime “rispetto” per il suo ex killer ora pentito. Si mette quindi male per il Premier. I reati che potrebbero essere contestati non sono tra quelli compresi nel nuovo ddl sul “processo breve”, o meglio “estinto”, “morto”. Questa ennesima legge “ad personam”, in caso di approvazione, sarà efficace per il processo Mills, ma non certo per le imputazioni delle indagini di mafia che potrebbero arrivare da Firenze o Caltanissetta. Nonostante tutto si stanno verificando complicazioni proprio in seno al processo Mills.
Infatti il calendario per l'approvazione del “processo breve” non si presenta roseo per via degli incastri tra il ddl e la Finanziaria. È probabile che alla Camera non ci sarà l’approvazione prima di metà di febbraio. Non si può escludere una nuova soluzione. Secondo alcune indiscrezioni Berlusconi avrebbe illustrato al Guardasigilli l'ipotesi di ricorrere a un decreto legge. Alfano avrebbe risposto esponendo i suoi dubbi. Un retroscena che la presidenza del Consiglio smentisce repentinamente con una nota. L’”utilizzatore finale” si trova in una situazione complessa. Deve guardare a più fronti. Da una parte l’accelerazione del ddl per il “processo morto”, che gli consentirebbe l’impunità per i reati per cui è attualmente indagato. E qui sarebbe fatta. Dall’altro lato i problemi legati alla mafia.
Soluzioni? Secondo indiscrezioni, non si esclude che un nuovo "lodo Alfano" in salsa costituzionale possa essere presentato in una delle due camere del Parlamento, già entro giovedì. È molto probabile che il nuovo lodo sarà avanzato da un parlamentare, perché questa volta il Governo non vorrà assumersi la responsabilità e al tempo stesso vorrà favorire la convergenza delle opposizioni, in particolare dell'Udc. Il testo si adatterà alle indicazioni della Corte Costituzionale. Gasparri, capogruppo al Senato, si mostra già scettico: "Di quelli non mi fido. Pur di bocciarlo magari diranno che l'abbiamo approvato nel giorno sbagliato o che abbiamo commesso degli errori nella punteggiatura". Il problema non è di ortografia, grammatica, meteorologia, o di giorni fasti, dedicati nell’antica Roma alle attività pubbliche, o nefasti, dove erano proibite.
Il problema (o meglio, la nostra fortuna) si chiama Costituzione della Repubblica. E' chiaro, come previsto da Costituzione, che un testo ritenuto incostituzionale dalla Consulta non possa essere riproposto sotto forma di legge ordinaria (come, nonostante le previsioni costituzionali, fu fatto proprio col lodo Alfano in seguito all’incostituzionalità del Lodo Schifani, che trattava lo stesso argomento, l’immunità delle più alte cariche dello Stato). Nella sentenza della Corte, riferita al Lodo Alfano, si legge infatti che una delle cause di incostituzionalità è proprio l’articolo 138, sul rango di legge costituzionale. La proposta, dunque, avanzata di riproporre la norma sotto forma di legge costituzionale è in linea con le dichiarazioni della Consulta. Bene.
Una legge costituzionale deve essere approvata con procedimento aggravato. Doppia lettura Camera-Senato e approvazione a maggioranze qualificate. Se il progetto è approvato a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera, non è consentito richiedere il referendum, e la legge viene senz’altro promulgata e pubblicata. Se invece l’approvazione è a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera è possibile, entro tre mesi richiedere un referendum costituzionale, in base all’esito del quale ci sarà la promulgazione e pubblicazione o il suo abbandono. Anche qui è plausibile, se non ovvio, che il governo segua le procedure costituzionali.
È chiaro come sia necessaria una grossa maggioranza per approvare senza referendum la legge. Berlusconi avrà bisogno anche dell’”opposizione” (cosa che non risulta così impossibile). Necessità che altrimenti porterebbe a un referendum non desiderato dal premier.Ma anche in caso di eventuale approvazione,con o senza referendum, è bene notare come la Corte Costituzionale, con la sentenza 1146 del 1988, abbia affermato la propria competenza a giudicare anche le leggi costituzionali in riferimento ai “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”. Dunque, ritornerebbe il problema eguaglianza, sancito dall’articolo 3. Quel principio che proprio non va a giù a Berlusconi. Orwell docet: tutti sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri. Chi?