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di Rosa Ana De Santis
La sentenza della Corte Europea, che accoglie il ricorso di una madre italiana originaria della Finlandia, non lascia ombre interpretative. La presenza della croce nelle aule scolastiche rappresenta una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le proprie convinzioni e una pesante discriminazione della libertà religiosa dei ragazzi. Il Parlamento italiano, quasi unanime, è insorto. Non solo i soliti cattolici alla Buttiglione, ma anche i paladini delle teorie più modaiole dell’integrazione e del multiculturalismo. Il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, parla di laicismo deteriore. Bersani, neo segretario del PD, scomoda addirittura una lezione sulla conflittualità accademica tra il diritto e il buonsenso, contraddizione in cui saremmo incappati, secondo lui.
La reazione italiana e il pronto ricorso sono i sintomi evidenti di uno strumentale utilizzo ora della religione ora della laicità e della smania, questa davvero pericolosa, di seppellire i fondamenti inequivocabili che regolano i rapporti tra Stato e Chiesa, quindi - mutatis mutandis - tra la scuola pubblica e i principi della Costituzione italiana. Per chi l’avesse dimenticato, la religione cattolica, indubbiamente rappresentativa di cultura e tradizioni nazionali, non è più religione di Stato dalla revisione dei Patti Lateranensi del 1984. E, a chi fosse digiuno di catechismo, sarà bene ricordare che la croce non è semplicemente anzi non è affatto il simbolo di una cultura o di un folclore nazionale.
Alla CEI, che si adira della sentenza, non andrebbe giù un’interpretazione di questo tipo. La croce è tutta la mistica della religione cristiano-cattolica. Il centro della dogmatica e dei pilastri della fede. La croce non è uguale all’icona di Gesù di Nazareth. La croce è Cristo, un chiaro simbolo di fede. Ciò su cui si dirime, non a caso, attraverso sottili sfumature teologiche, la differenza tra le diverse chiese cristiane.
A quale tradizione e cultura da tutelare si riferisce il Ministro Gelmini? Alle meraviglie dell’arte sacra che rendono l’Italia regina di bellezza? Al patrimonio inestimabile della croce rappresentata nelle nostre chiese e nelle innumerevoli opere d’arte? Oppure si riferisce alle processioni, ai riti, ai costumi anche inconsapevoli che la nostra tradizione ha ereditato e assorbito? Peccato che tutto questi non c’entri con i crocifissi appesi sopra le cattedre o con il rito delle preghiere che si celebravano un tempo a fine lezione.
Insomma sarebbe opportuno decidere da quale parte stare, sempre. E non di volta in volta assecondare la teoria che più piace e più procura consensi. La laicità di un paese che si candida a sostenere l’integrazione come unica via di un multiculturalismo pacifico non può diventare ora una teoria, ora il suo esatto opposto. Non esistono interpretazioni controverse. La croce non è solo cultura, ma un richiamo esplicito a una fede particolare che non può accampare visibilità e dominio maggiore di altre solo perché corrisponde anche ad una tradizione. L’errore di questo slittamento, che al Parlamento italiano piace molto, è quello che ha permesso all’Europa di bocciare la nostra visione ridicola del laicismo svelata per quello che è: un dominio all’italiana.
E’, ancora una volta, un’elementare questione di metodo, a fare la differenza. Quella stessa croce, tolta dal muro e portata al collo, non è più elemento di dominio, o richiamo alla supremazia di una fede attraverso la maschera della cultura. In quello spostamento sta l’unica possibilità che nella scuola, i figli di tutti, a partire dalle diverse educazioni e convinzioni, imparino a riconoscere la differenza e a rispettarla. Questo ci aspetteremmo dalla scuola di uno Stato laico. Non un crocefisso per ricordare al bambino musulmano, a quello ateo o al buddista tutto quello cui lui non ha diritto. Nemmeno un simbolo per le sue tradizioni e per il suo dio.
Non è con il pretesto di un simbolo imposto nelle aule di tutti e dello Stato che torneranno a riempirsi le chiese. Non crederà la CEI che facendo di dio la bandiera di questo Paese verranno rimessi i peccati di certa politica. Tutti quelli fatti contro gli ultimi e i bisognosi. E non era questo il monito di un innocente messo in croce dal potere degli uomini? Ma del resto è lontano da questa morale il fuoco che agita gli animi del Parlamento, loro parlano di tradizione. E’ così che una scappatoia per la coscienza rimane sempre. In chiesa e davanti ai cittadini.
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di Giovanni Gnazzi
Urlava al telefono Papi, nella trasmissione condotta da Floris. L’amico di Noemi era furibondo per la condanna reiterata all’avvocato Mills, costretto a mentire per salvare il premier. Si è definito un perseguitato, anzi una vittima, né più né meno. L’uomo che presiede il governo ed ha in affitto la maggioranza dei parlamentari, controlla i servizi segreti, l’economia, la maggior parte dell’informazione e il mercato pubblicitario che ne determina l’esistenza o la fine, si considera una vittima.
Sfugge, a Papi, il senso delle parole, quasi come quello della decenza. Un caso così grande di conflitto d’interessi e una commistione così spaventosa tra i suoi affari privati e quelli pubblici, in quale altro paese sarebbe stata possibile? Nei confronti della magistratura l’equazione, alla fine, non è poi difficile: se i giudici lo assolvono sono magistrati, se lo condannano sono comunisti.
E sì che la magistratura comunista l’ha appena salvato dal dolore più grande: quello di dover pagare per quello che ha fatto. Succede infatti che, a differenza dei comuni mortali italiani, che vedono l’immediata esecuzione della sentenza civile in caso di condanna e, normalmente, si vedono rigettare l’stanza di sospensiva in attesa dei successivi pronunciamenti (della serie: intanto paghi, poi, eventualmente, recuperi), nel suo caso l’iter consueto si ribalta. L’azienda del Premier, infatti, ha ottenuto la sospensione del pagamento dovuto alla Cir di De Benedetti in attesa dei gradi successivi di giudizio. Tradotto: De Benedetti non verrà risarcito per anni e anni.
Il magistrato Giacomo De Deodato, presidente della II Corte D’Appello che ha deciso la sospensiva, non è comunista, ovvio. Se proprio si vogliono cercare simpatie politiche nel suo curriculum non se ne trovano; nell’albero genealogico si trova invece il fratello, Giovanni, deputato di Forza Italia dal 1996 al 2006. Due fratelli, però, come sanno Silvio e Paolo, non fanno un’accusa e tanto meno una prova, solo una constatazione in punta di penna. Ma, ad eccezione di Deodato de di chi lo ha assolto in altri processi, gli altri magistrati sono comunisti.
La furia dell’uomo che si è fatto da se, ma rifatto da chirurghi amici, si è scatenata a seguito della conferma di condanna per l’avvocato Mills; condanna che, se venisse confermata dall’istanza superiore di giudizio, porterebbe ad identica sorte anche Papi, con inevitabili riflessi e ricadute sulla sua permanenza a Palazzo Chigi. L’anomalia, dice lui, non è Berlusconi, ma la magistratura. Il giudice che ha condannato Mills, Flavio Lapertosa, è certamente un comunista, a detta di Papi. Che poi sia lo stesso giudice Flavio Lapertosa che assolse Berlusconi nel processo SME-Ariosto, indica certamente la diffusione pericolosa dei casi di omonimia, un'abile strumentazione della sinistra, immaginiamo.
Ora, il fatto che Berlusconi sia stato oggetto di molteplici iniziative giudiziarie è fatto noto. Ma nessuna di queste ha avuto origine da reati commessi nella sua vita politica. Tutte, invece, hanno affrontato Berlusconi nella dose di reati connessi alla sua attività imprenditoriale, dalle origini dei suoi affari a poco prima della sua discesa in politica. Semmai, la questione dovrebbe essere posta diversamente: qual’é l’imprenditore che più di lui ha violato così continuativamente il codice penale italiano? E chi si è potuto permettere d’insultare e calunniare magistrati, giornalisti, politici ed imprenditori utilizzando le aziende editoriali di famiglia?
I processi che l’hanno visto protagonista - il Lodo SME, quello Mondadori, All Iberian ed altri - lo hanno visto imputato o co-imputato di reati quali corruzione della Guardia di Finanza, dei giudici e dei testimoni, frode fiscale, falso in bilancio ed esportazione illecita di capitali. Chi mai in Italia sarebbe rimasto a piede libero con queste accuse? Chi mai avrebbe ottenuto la riduzione dei tempi di prescrizione per i processi che lo riguardavano? E chi mai, attraverso leggi ad personam, sarebbe riuscito ad evitare le condanne? E dunque qual’é l’anomalia italiana?
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di Fabrizio Casari
Tre milioni di persone accorse ai gazebo per eleggere il nuovo Segretario sono certamente una certificazione di un buono stato di salute del Partito Democratico. Molte di più di quelle che si attendevano, quasi un sussulto di partecipazione in un quadro desolante come quello della scena politica italiana. Si potrà obiettare sull’identico peso riservato a militanti ed elettori nella scelta della costruzione del gruppo dirigente ma, almeno sul piano della partecipazione popolare, la scommessa è stata vinta. E il fatto che l’elettorato ha confermato il dato emerso dal voto delle assise militanti del partito, indica poi una sintonia tra il partito e la sua base elettorale. O, almeno, della comune opinione, tra militanti ed elettori, circa la terapia necessaria per far uscire la più importante formazione del centrosinistra dallo stato semi-catatonico nel quale pare versare.
E seppure il dato principale é ovviamente la vittoria (annunciata) di Bersani, appare significativa anche l’affermazione personale di Marino, che sembra indicare l’esigenza del popolo del Pd di uno schieramento più netto sul terreno dei diritti civili. L’affermazione di Marino, infatti, esprime una richiesta d’intervento sui temi “etici” per ampliare la sfera dei diritti civili e non di un’opportunistica “libertà di voto secondo coscienza” che i parlamentari cattolici utilizzano in funzione dei loro personali convincimenti. Il voto a Marino rappresenta un segnale politico e identitario di laicità che il nuovo gruppo dirigente dovrà tenere bene a mente.
Nella vittoria di Bersani e nell’affermazione di Marino sembrano dunque emergere due opzioni legate tra loro: un partito attento al radicamento sociale e ai temi delle libertà collettive, un PD finalmente capace di riaprire una comunicazione positiva con il mondo del lavoro e decisamente laico nei confronti dei temi “etici”. Un sostanziale cambio di passo rispetto a quanto proposto fino ad ora dalla gestione prima di Veltroni e poi di Franceschini. La vittoria di Bersani è, da questo punto di vista, destinata a modificare in buona sostanza sia la fisionomia del partito che la sua identità programmatica; tanto in ordine agli schieramenti ed alle alleanze possibili, come alle ipotesi di riforme istituzionali previste nell’agenda politica del Paese.
Esce invece sconfitta, di contro, l’impostazione veltroniana dell’autosufficienza del progetto politico e dell’indissolubilità del credo maggioritario in veste bipolare, così come appare respinta l’idea di un partito americano, modello “comitato elettorale”. Fine insomma del partito liquido, rimessa in carreggiata del partito pesante, quello cioè presente sul territorio, nei posti di lavoro, ovunque le contraddizioni sociali richiedano idee nuove e gambe sulle quali farle marciare.
Bersani sa bene che la sconfitta della destra in Italia passa in primo luogo dal rafforzamento del centrosinistra. E sa che nessuno steccato ideologico, basato su una presunta autosufficienza del progetto, potrà raccogliere i voti dell’elettorato democratico e progressista che non può - e non potrebbe - ritrovarsi a votare sempre e solo turandosi il naso. Diddicile sognare il meglio e votare sempre per il meno peggio. Serve di nuovo, come già nel passato, riunire lo schieramento più ampio per raccogliere ogni voto ed ogni energia. Questo, insieme alla ridefinizione di un programma politico adeguato, è l’unico antitodo al veleno del berlusconismo ed alla sua vittoria di prospettiva. Non avere steccati a sinistra é l'unico modo per dialogare ed agire anche con i moderati.
Unità, solidità, partecipazione. Questo volevano riaffermare quei tre milioni di persone che hanno affollato i gazebo del Pd: non hanno voluto solo prendersi la libertà d’indicare il Segretario che volevano. Prima ancora che questo, quei tre milioni di persone hanno voluto approfittare della possibilità che gli era stata data di poter prendere la parola, di poter testimoniare la voglia di dire la loro e di ricordare che la passione civile e politica di questo paese, troppo in fretta data per morta sotto i colpi del gossip, ha ancora la forza per rimboccarsi le maniche e per profferire parola. Si tratta di vedere se ora, chi ha vinto, dimostrerà di saper ascoltare.
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di mazzetta
Per rendere l'idea della differenza tra lo scudo fiscale americano e quello italiano basterebbe il titolo con il quale il New York Times annuncia l'avvicinarsi della scadenza: “Paga o prega”. Paga il dovuto o prega che non ti becchino, perché per chi non aderisce alla generosa offerta del governo americano e cerca di nascondere capitali all'estero, c'è il rischio della galera. Nessuna minaccia invece da parte del governo italiano, che a quanti vorranno rimpatriare capitali costituiti all'estero illegalmente garantisce anche l'anonimato. Mentre gli americani partono dal presupposto che il reato originale non meriti un trattamento troppo di favore, quello italiano si preoccupa di farsi complice e coprire gli evasori che invita a riportare il bottino in Italia.
Gli americani hanno inoltre incentivato l'adesione al concordato fiscale con alcune azioni mirate. Prima di tutto hanno messo sotto pressione i paradisi fiscali, in particolare la Svizzera, dove l'UBS ha dovuto capitolare e consegnare i nominativi di molti americani e chiudere i conti di molti altri. Trovarsi dalla sera alla mattina con il contenuto, spesso milionario, di un conto anonimo svizzero trasformato in un assegno, è sicuramente un buon incentivo a riflettere sull'opportunità offerta dal governo americano. Non è stato troppo onorevole per i banchieri svizzeri, ma in fondo la Svizzera ha già rinunciato alla sacralità del segreto bancario in seguito allo scoppio dello scandalo Swift, quando ha dovuto prendere atto che era impossibile impedire agli USA di spiare le transazioni finanziarie mondiali con la scusa della lotta al terrorismo. La sconfitta dell'UBS rappresenta la fine della leggendaria riservatezza elvetica.
Le penalità per chi adempie in tempo oscillano dal 5 al 20% del picco più alto raggiunto dal conto estero che si vuole sanare e, molti di più di quelli che pagheranno entro il termine, rimpatrieranno comunque i capitali sperando di sfuggire all'IRS, il fisco americano. Poi cercheranno di giustificarne l'esistenza con rettifiche delle dichiarazioni dei redditi pregresse, rettifiche che sono aumentate molto in questo periodo e che sono soggette alla tassazione ordinaria, più alta di quella offerta dallo scudo fiscale. Il che dimostra che a fronte di un'azione repressiva incisiva, il rientro dei capitali non ha bisogno di tappeti rossi e di particolari amnistie per gli evasori.
C'è ancora una sottile differenza con la situazione italiana: la legge americana prevede infatti che per godere dello scudo fiscale occorra rivelare all'IRS i nomi, indirizzi e numeri di telefono dei banchieri, avvocati, commercialisti, consulenti e fiduciari che hanno aiutato a nascondere i capitali agli occhi del fisco.
In Italia una cosa del genere è difficilmente ipotizzabile in condizioni normali, figurarsi sotto il regno di Robin Hood-Tremonti, il principe dei commercialisti e artista della finanza creativa, che ha offerto ai gentili colleghi l'opportunità di offrire l'imperdibile “servizio” di un'amnistia tombale ai propri clienti in difficoltà con il rispetto delle leggi e delle normative fiscali. Fare leva sui clienti per portare alla luce le vere e proprie associazioni a delinquere che si occupano del favoreggiamento agli evasori su scala professionale, deve sembrare terribilmente crudele a Tremonti e Berlusconi, che a sua volta conosce e riconosce benissimo cosa voglia dire la rottura del rapporto di fiducia tra professionista e cliente, come nei casi di Mills e D'Addario.
Così, mentre gli Stati Uniti incasseranno molto di più e raccoglieranno dati utili a stroncare il fenomeno dell'evasione e della fuga dei capitali all'estero, l'Italia concede l'amnistia agli evasori e gli fa pure lo sconto sulle tasse, rifiutandosi categoricamente di sapere finanche chi siano questi evasori. Un segno della superiore civiltà cattolica sul calvinismo protestante anglosassone: qui da noi si dice il peccato, ma non il peccatore, al di là dell'Atlantico invece trionfano il giustizialismo e i forcaioli. Almeno così assicura chi sostiene le scudo fiscale tricolore.
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di Rosa Ana De Santis
La giornata di ieri mette forse l’epitaffio sull’unione faticosa e posticcia tra l’ala dell’Opus Dei e dei chierici seduti a sinistra e il Partito Democratico. La legge sull’omofobia è morta in Parlamento e il voto della senatrice Binetti, che ha contribuito a questo aborto di civiltà, scatena un caso. A dirlo e a ribadirlo non è la fronda dei più progressisti, ma è l’attuale Segretario del PD, Dario Franceschini. Un moto di coraggio e una chiarezza di argomenti coerente con lo sforzo di un partito che arranca a tenere insieme le proprie parti e a recuperare una precisa identità politica. Il caso della senatrice inviata da Dio e dall’Opus Dei, non ha a che vedere con le primarie e con i leader che si contendono la testa della sinistra. Il caso è tutto intessuto nella sostanza e nella vocazione che il PD aspira a conquistare nella vita politica italiana.
Un partito che si definisce delle grandi riforme, ispirato dal faro della tradizione social-liberale e sostenitore della dottrina del welfare forte, non può stare insieme a chi rivendica una lettura della cittadinanza che cestina diritti civili, libertà fondamentali ed eguaglianza in nome di dottrine private e privatistiche. La legge sull’aggravante dell’omofobia non faceva granché paura a nessuno. La possibilità che questa, riconoscendo i cittadini omosessuali potesse portare alle unioni di fatto, all’eguaglianza delle coppie gay con le eterosessuali, quindi al riconoscimento pubblico della cittadinanza menomata degli uomini e delle donne omosessuali, deve invece averne fatta a molti. Qualcuno sostiene anche all’attuale Segretario che in fin dei conti la Binetti e i suoi teodem li ha candidati e voluti.
Molti nel PD sono per il divorzio dalla Binetti. Lo sostiene per prima Paola Concia, relatrice della legge, lo argomenta il capogruppo alla Camera, Antonello Soro e, se pur con cautela, parla di un caso Binetti il segretario Franceschini. Diversa la posizione del senatore Villari e del gruppo misto del PD che reclama il rispetto della libertà di coscienza. Quel feticcio strumentale dei cattolici oltranzisti grazie al quale, in tutte le battaglie per i diritti civili, il PD ha visto mancare la propria unità e la propria forza. Non quei cattolici che hanno il senso dello Stato e delle istituzioni - come Rosy Bindi, per intenderci - ma quelli come la Binetti.
La sensazione diffusa è che se il partito vuole avere basi solide, prima ancora di giocare la partita del vertice e del leader, dovrà mettere in agenda l’unità sul progetto politico e blindarla da ogni propaganda di coscienza. Dovrà mettere fuori quanti fanno entrare le proprie intime convinzioni personali nell’esercizio di un voto che tocca i diritti di tutti e inficia quel sacro capitale umano della libertà e dell’eguaglianza, che soltanto il patrimonio del pensiero liberal- democratico ha saputo, meglio di altri sistemi politici, tradurre nei fatti. Se le differenze minacciano l’orizzonte di una forza politica social-liberale, quelle differenze sono dannose e vanno lasciate a casa. La Binetti rappresenta una pericolosa incrinatura nel fianco, non solo per il suo voto e il suo seguito, ma per la possibilità di snaturamento del progetto politico che può rappresentare.
La teodem dichiara che con buona probabilità alle primarie voterà Bersani, il quale ha iniziato già a ricordarle che in casi come quello di ieri si vota seconda l’indicazione del gruppo e la libertà di coscienza non può essere utilizzata come arma per togliere diritti e riconoscimenti ai cittadini secondo discriminazioni che hanno a che vedere con orientamenti privati e personali.
Basterà un manifesto di condizioni inalienabili in cui si ricordi ai fedeli onorevoli, a quelli storicamente portati dalla Chiesa e ai neoconvertiti come Rutelli, che nello Stato e nella società civile vige il bando delle regole etico-religiose e vince la morale che tutela tutti senza lasciare a piedi nessuno? Quelli che oggi vengono discriminati perché omosessuali non sono meno umiliati di quanti venivano malmenati perché negri. Ricordino, i democratici, come la declinazione dei diritti sia per tutti e ricordino, gli uomini di dio, quale peccato fa il loro voto di fede. Per il partito democratico la strada di emancipazione può essere all’apparenza sbrigativa. Basterebbe forse fare a meno di chi niente c’entra, se il costo non fosse troppo alto per questo partito in cerca d’autore.