di Fabrizio Casari

Tre milioni di persone accorse ai gazebo per eleggere il nuovo Segretario sono certamente una certificazione di un buono stato di salute del Partito Democratico. Molte di più di quelle che si attendevano, quasi un sussulto di partecipazione in un quadro desolante come quello della scena politica italiana. Si potrà obiettare sull’identico peso riservato a militanti ed elettori nella scelta della costruzione del gruppo dirigente ma, almeno sul piano della partecipazione popolare, la scommessa è stata vinta. E il fatto che l’elettorato ha confermato il dato emerso dal voto delle assise militanti del partito, indica poi una sintonia tra il partito e la sua base elettorale. O, almeno, della comune opinione, tra militanti ed elettori, circa la terapia necessaria per far uscire la più importante formazione del centrosinistra dallo stato semi-catatonico nel quale pare versare.

E seppure il dato principale é ovviamente la vittoria (annunciata) di Bersani, appare significativa anche l’affermazione personale di Marino, che sembra indicare l’esigenza del popolo del Pd di uno schieramento più netto sul terreno dei diritti civili. L’affermazione di Marino, infatti, esprime una richiesta d’intervento sui temi “etici” per ampliare la sfera dei diritti civili e non di un’opportunistica “libertà di voto secondo coscienza” che i parlamentari cattolici utilizzano in funzione dei loro personali convincimenti. Il voto a Marino rappresenta un segnale politico e identitario di laicità che il nuovo gruppo dirigente dovrà tenere bene a mente.

Nella vittoria di Bersani e nell’affermazione di Marino sembrano dunque emergere due opzioni legate tra loro: un partito attento al radicamento sociale e ai temi delle libertà collettive, un PD finalmente capace di riaprire una comunicazione positiva con il mondo del lavoro e decisamente laico nei confronti dei temi “etici”. Un sostanziale cambio di passo rispetto a quanto proposto fino ad ora dalla gestione prima di Veltroni e poi di Franceschini. La vittoria di Bersani è, da questo punto di vista, destinata a modificare in buona sostanza sia la fisionomia del partito che la sua identità programmatica; tanto in ordine agli schieramenti ed alle alleanze possibili, come alle ipotesi di riforme istituzionali previste nell’agenda politica del Paese.

Esce invece sconfitta, di contro, l’impostazione veltroniana dell’autosufficienza del progetto politico e dell’indissolubilità del credo maggioritario in veste bipolare, così come appare respinta l’idea di un partito americano, modello “comitato elettorale”. Fine insomma del partito liquido, rimessa in carreggiata del partito pesante, quello cioè presente sul territorio, nei posti di lavoro, ovunque le contraddizioni sociali richiedano idee nuove e gambe sulle quali farle marciare.

Bersani sa bene che la sconfitta della destra in Italia passa in primo luogo dal rafforzamento del centrosinistra. E sa che nessuno steccato ideologico, basato su una presunta autosufficienza del progetto, potrà raccogliere i voti dell’elettorato democratico e progressista che non può - e non potrebbe - ritrovarsi a votare sempre e solo turandosi il naso. Diddicile sognare il meglio e votare sempre per il meno peggio. Serve di nuovo, come già nel passato, riunire lo schieramento più ampio per raccogliere ogni voto ed ogni energia. Questo, insieme alla ridefinizione di un programma politico adeguato, è l’unico antitodo al veleno del berlusconismo ed alla sua vittoria di prospettiva. Non avere steccati a sinistra é l'unico modo per dialogare ed agire anche con i moderati.

Unità, solidità, partecipazione. Questo volevano riaffermare quei tre milioni di persone che hanno affollato i gazebo del Pd: non hanno voluto solo prendersi la libertà d’indicare il Segretario che volevano. Prima ancora che questo, quei tre milioni di persone hanno voluto approfittare della possibilità che gli era stata data di poter prendere la parola, di poter testimoniare la voglia di dire la loro e di ricordare che la passione civile e politica di questo paese, troppo in fretta data per morta sotto i colpi del gossip, ha ancora la forza per rimboccarsi le maniche e per profferire parola. Si tratta di vedere se ora, chi ha vinto, dimostrerà di saper ascoltare.

di mazzetta

Per rendere l'idea della differenza tra lo scudo fiscale americano e quello italiano basterebbe il titolo con il quale il New York Times annuncia l'avvicinarsi della scadenza: “Paga o prega”. Paga il dovuto o prega che non ti becchino, perché per chi non aderisce alla generosa offerta del governo americano e cerca di nascondere capitali all'estero, c'è il rischio della galera. Nessuna minaccia invece da parte del governo italiano, che a quanti vorranno rimpatriare capitali costituiti all'estero illegalmente garantisce anche l'anonimato. Mentre gli americani partono dal presupposto che il reato originale non meriti un trattamento troppo di favore, quello italiano si preoccupa di farsi complice e coprire gli evasori che invita a riportare il bottino in Italia.

Gli americani hanno inoltre incentivato l'adesione al concordato fiscale con alcune azioni mirate. Prima di tutto hanno messo sotto pressione i paradisi fiscali, in particolare la Svizzera, dove l'UBS ha dovuto capitolare e consegnare i nominativi di molti americani e chiudere i conti di molti altri. Trovarsi dalla sera alla mattina con il contenuto, spesso milionario, di un conto anonimo svizzero trasformato in un assegno, è sicuramente un buon incentivo a riflettere sull'opportunità offerta dal governo americano. Non è stato troppo onorevole per i banchieri svizzeri, ma in fondo la Svizzera ha già rinunciato alla sacralità del segreto bancario in seguito allo scoppio dello scandalo Swift, quando ha dovuto prendere atto che era impossibile impedire agli USA di spiare le transazioni finanziarie mondiali con la scusa della lotta al terrorismo. La sconfitta dell'UBS rappresenta la fine della leggendaria riservatezza elvetica.

Le penalità per chi adempie in tempo oscillano dal 5 al 20% del picco più alto raggiunto dal conto estero che si vuole sanare e, molti di più di quelli che pagheranno entro il termine, rimpatrieranno comunque i capitali sperando di sfuggire all'IRS, il fisco americano. Poi cercheranno di giustificarne l'esistenza con rettifiche delle dichiarazioni dei redditi pregresse, rettifiche che sono aumentate molto in questo periodo e che sono soggette alla tassazione ordinaria, più alta di quella offerta dallo scudo fiscale. Il che dimostra che a fronte di un'azione repressiva incisiva, il rientro dei capitali non ha bisogno di tappeti rossi e di particolari amnistie per gli evasori.

C'è ancora una sottile differenza con la situazione italiana: la legge americana prevede infatti che per godere dello scudo fiscale occorra rivelare all'IRS i nomi, indirizzi e numeri di telefono dei banchieri, avvocati, commercialisti, consulenti e fiduciari che hanno aiutato a nascondere i capitali agli occhi del fisco.

In Italia una cosa del genere è difficilmente ipotizzabile in condizioni normali, figurarsi sotto il regno di Robin Hood-Tremonti, il principe dei commercialisti e artista della finanza creativa, che ha offerto ai gentili colleghi l'opportunità di offrire l'imperdibile “servizio” di un'amnistia tombale ai propri clienti in difficoltà con il rispetto delle leggi e delle normative fiscali. Fare leva sui clienti per portare alla luce le vere e proprie associazioni a delinquere che si occupano del favoreggiamento agli evasori su scala professionale, deve sembrare terribilmente crudele a Tremonti e Berlusconi, che a sua volta conosce e riconosce benissimo cosa voglia dire la rottura del rapporto di fiducia tra professionista e cliente, come nei casi di Mills e D'Addario.

Così, mentre gli Stati Uniti incasseranno molto di più e raccoglieranno dati utili a stroncare il fenomeno dell'evasione e della fuga dei capitali all'estero, l'Italia concede l'amnistia agli evasori e gli fa pure lo sconto sulle tasse, rifiutandosi categoricamente di sapere finanche chi siano questi evasori. Un segno della superiore civiltà cattolica sul calvinismo protestante anglosassone: qui da noi si dice il peccato, ma non il peccatore, al di là dell'Atlantico invece trionfano il giustizialismo e i forcaioli. Almeno così assicura chi sostiene le scudo fiscale tricolore.

di Rosa Ana De Santis

La giornata di ieri mette forse l’epitaffio sull’unione faticosa e posticcia tra l’ala dell’Opus Dei e dei chierici seduti a sinistra e il Partito Democratico. La legge sull’omofobia è morta in Parlamento e il voto della senatrice Binetti, che ha contribuito a questo aborto di civiltà, scatena un caso. A dirlo e a ribadirlo non è la fronda dei più progressisti, ma è l’attuale Segretario del PD, Dario Franceschini. Un moto di coraggio e una chiarezza di argomenti coerente con lo sforzo di un partito che arranca a tenere insieme le proprie parti e a recuperare una precisa identità politica. Il caso della senatrice inviata da Dio e dall’Opus Dei, non ha a che vedere con le primarie e con i leader che si contendono la testa della sinistra. Il caso è tutto intessuto nella sostanza e nella vocazione che il PD aspira a conquistare nella vita politica italiana.

Un partito che si definisce delle grandi riforme, ispirato dal faro della tradizione social-liberale e sostenitore della dottrina del welfare forte, non può stare insieme a chi rivendica una lettura della cittadinanza che cestina diritti civili, libertà fondamentali ed eguaglianza in nome di dottrine private e privatistiche. La legge sull’aggravante dell’omofobia non faceva granché paura a nessuno. La possibilità che questa, riconoscendo i cittadini omosessuali potesse portare alle unioni di fatto, all’eguaglianza delle coppie gay con le eterosessuali, quindi al riconoscimento pubblico della cittadinanza menomata degli uomini e delle donne omosessuali, deve invece averne fatta a molti. Qualcuno sostiene anche all’attuale Segretario che in fin dei conti la Binetti e i suoi teodem li ha candidati e voluti.

Molti nel PD sono per il divorzio dalla Binetti. Lo sostiene per prima Paola Concia, relatrice della legge, lo argomenta il capogruppo alla Camera, Antonello Soro e, se pur con cautela, parla di un caso Binetti il segretario Franceschini. Diversa la posizione del senatore Villari e del gruppo misto del PD che reclama il rispetto della libertà di coscienza. Quel feticcio strumentale dei cattolici oltranzisti grazie al quale,  in tutte le battaglie per i diritti civili, il PD ha visto mancare la propria unità e la propria forza. Non quei cattolici che hanno il senso dello Stato e delle istituzioni - come Rosy Bindi, per intenderci - ma quelli come la Binetti.

La sensazione diffusa è che se il partito vuole avere basi solide, prima ancora di giocare la partita del vertice e del leader, dovrà mettere in agenda l’unità sul progetto politico e blindarla da ogni propaganda di coscienza. Dovrà mettere fuori quanti fanno entrare le proprie intime convinzioni personali nell’esercizio di un voto che tocca i diritti di tutti e inficia quel sacro capitale umano della libertà e dell’eguaglianza, che soltanto il patrimonio del pensiero liberal- democratico ha saputo, meglio di altri sistemi politici, tradurre nei fatti. Se le differenze minacciano l’orizzonte di una forza politica social-liberale, quelle differenze sono dannose e vanno lasciate a casa. La Binetti rappresenta una pericolosa incrinatura nel fianco, non solo per il suo voto e il suo seguito, ma per la possibilità di snaturamento del progetto politico che può rappresentare.

La teodem dichiara che con buona probabilità alle primarie voterà Bersani, il quale ha iniziato già a ricordarle che in casi come quello di ieri si vota seconda l’indicazione del gruppo e la libertà di coscienza non può essere utilizzata come arma per togliere diritti e riconoscimenti ai cittadini secondo discriminazioni che hanno a che vedere con orientamenti privati e personali.

Basterà un manifesto di condizioni inalienabili in cui si ricordi ai fedeli onorevoli, a quelli storicamente portati dalla Chiesa e ai neoconvertiti come Rutelli, che nello Stato e nella società civile vige il bando delle regole etico-religiose e vince la morale che tutela tutti senza lasciare a piedi nessuno? Quelli che oggi vengono discriminati perché omosessuali non sono meno umiliati di quanti venivano malmenati perché negri. Ricordino, i democratici, come la declinazione dei diritti sia per tutti e ricordino, gli uomini di dio, quale peccato fa il loro voto di fede. Per il partito democratico la strada di emancipazione può essere all’apparenza sbrigativa. Basterebbe forse fare a meno di chi niente c’entra, se il costo non fosse troppo alto per questo partito in cerca d’autore.

di Mariavittoria Orsolato

Non sono bastati i 50.000 in piazza a Roma lo scorso sabato. Non sono bastati i continui episodi di violenza omofoba. Non è bastata nemmeno l’apertura di uno come Gianni Alemanno. La Camera è riuscita a spazzar via mesi di mobilitazione, rigettando il disegno di legge sull’omofobia elaborato dalla deputata Pd Anna Paola Concia e controfirmato dal leader dell’Idv Antonio Di Pietro.

Nonostante il testo fosse già passato in Commissione Giustizia lo scorso 2 ottobre, l’assemblea di Montecitorio ha votato l’incostituzionalità del provvedimento, approvando la mozione pregiudiziale dell’Udc secondo cui il provvedimento andrebbe a violare l’articolo 3 della Costituzione, quello che per intenderci rende tutti gli italiani uguali di fronte alla legge.

Con 285 voti a favore, 222 contrari e 13 astenuti, il testo che andava a modificare l’articolo 61 del codice penale, inserendo tra le aggravanti dei reati i fatti commessi “per finalità inerenti all’orientamento o alla discriminazione sessuale della persona offesa dal reato”, è stato definitivamente cancellato. Se quindi un nuovo provvedimento contro l’omofobia sarà mai riscritto, dovrà essere un disegno di legge nuovo di zecca e dovrà ricominciare da zero il suo lento e faticoso iter parlamentare.

La querelle sulla proposta era cominciata tempo addietro, con le solite prese di posizione teodem che volevano fuori dalla rosa dei beneficiari di questa legge i transessuali e i transgender ma, nonostante le limature che la firmataria era stata costretta a compiere per il quieto vivere istituzionale, un gruppo di otto parlamentari del Pdl (Alfredo Mantovano, Maurizio Lupi, Isabella Bertolini, Maurizio Bianconi, Barbara Saltamartini, Alessandro Pagano, Raffaello Vignali e l’agente betulla Renato Farina) consegnava alla stampa un documento in cui spiegava le ragioni del “no” sulla base del principio di uguaglianza.

Secondo costoro, infatti, “attribuire una specifica e più energica tutela penale all'orientamento sessuale della persona offesa dal reato significa attribuire all'orientamento omosessuale (l'unico orientamento sessuale che lamenta discriminazioni) non un valore in sé positivo, ma un valore maggiormente positivo rispetto ad altri motivi discriminatori, non previsti dall'ordinamento”. Da queste mosse lo spunto dell’Udc, appoggiato da Lega e Pdl, per chiedere il rinvio del testo - con conseguente ritocco - in Commissione Giustizia e, una volta bocciata la mozione (con Pd e Idv che votano affinché la legge rimanga alla Camera), per intentare la pregiudiziale d’incostituzionalità al testo.

La votazione che ne è conseguita ha spaccato in due sia maggioranza che opposizione. Se nel Pd ci mette lo zampino la solita Paola Binetti, per il Pdl le defezioni sono illustri e riguardano quell’ala di influenza finiana - vedi Bocchino, la Moroni e Urso - che ancora prova a dialogare con l’opposizione. Secondo “Farefuturo”, l’associazione presieduta dal presidente della Camera, la legge sull’omofobia si sarebbe dovuta infatti approvare all’unanimità in quanto “poteva essere una bella occasione per una legge condivisa e necessaria”.

Ma questa legge, più che una splendida occasione di conciliazione politica, doveva rappresentare un salto di qualità giuridica rispetto alle convinzioni ataviche e pregiudizievoli che ancora oggi attanagliano la legislazione italiana. In più di una circostanza l’Unione Europea ha ammonito l’Italia sul fatto che non esistessero tutele legali consone alla condizione di emarginazione e intolleranza cui sono quotidianamente sottoposti gli appartenenti al mondo lgbt (lesbo-gay-bi-trans), invitando così le Camere a sopperire al vuoto legislativo e ad allinearsi con tutti gli altri Paesi aderenti all’unione.

Gli episodi di violenza intimidatoria che nei giorni scorsi si sono susseguiti all’interno della capitale, come l’attentato incendiario alla discoteca queer “Qube” o i continui pestaggi perpetrati ai frequentatori di quella che viene impropriamente chiamata Gay street, avevano poi contribuito in modo positivo al dibattito sulle ragioni della deputata Concia e dell’universo che lei, in quanto lesbica dichiarata, rappresenta al meglio.

L’annientamento del disegno di legge mono-comma, oltre a buttare a mare 13 mesi di discussioni parlamentari e 21 riunioni tra Commissione Giustizia e Affari Costituzionali, esautora quindi ufficialmente dalla responsabilità sociale per quella che a tutti gli effetti è una minoranza a rischio.
Gli omologhi di Svastichella sentitamente ringraziano.

 

di Ilvio Pannullo

Nessuno pare prestare attenzione alle sensazionali nonché inedite rivelazioni riguardanti le stragi di mafia del 1992, emerse nell’ultima puntata di Annozero e rilanciate timidamente dalla sola carta stampata. Le dichiarazioni dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Martelli, pare non colgano interesse nel paese dove le organizzazioni mafiose controllano intere regioni e fatturano centinaia di miliardi di euro ogni anno. Accade così che passi quasi in secondo piano un avvenimento che potrebbe far luce su uno degli episodi più bui della Repubblica e che potrebbe, chiarendo le dinamiche di quei giorni, fare luce su quanto realmente avvenne e riscrivere la storia di questo paese.

Siamo in quel periodo, tra il 1992 e il 1993, in cui intere strade venivano fatte saltare in aria da centinaia di chili di tritolo, dove i magistrati venivano uccisi con le loro scorte perché non potessero più creare problemi, indagando sui rapporti tra la mafia siciliana e le istituzioni repubblicane. L’Italia, a quell’epoca molto più simile alla Colombia che ad una democrazia europea, era in ginocchio. Il paese era stretto attorno a quelle figure, i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, poi divenute simbolo della lotta senza confini all’illegalità. Tuttavia, se da una parte si moriva per difendere le istituzioni, c’era anche chi, all’interno delle istituzioni, trattava con la mafia per raggiungere una tregua.

Secondo la ricostruzione dell’allora ministro Martelli, nel giugno del 1992, dopo la strage di Capaci, il capitano dei carabinieri del ROS, Giuseppe De Donno, andò da Liliana Ferraro, collaboratrice di Giovanni Falcone che ne prese il posto alla direzione generale del ministero della Giustizia, per dirle che l' ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino “aveva una volontà di collaborazione, che si sarebbe però esplicata se avesse avuto delle garanzie politiche”. La Ferraro gli consigliò di parlarne con Paolo Borsellino e poi - ha rivelato Martelli - lei stessa lo confidò al magistrato nel trigesimo della morte di Falcone, cioè il 23 giugno 1992. La notizia è di quelle importanti perché potrebbe rivelare il movente della morte del giudice Paolo Borsellino, fatto saltare in aria in quanto decisamente contrario a qualsiasi trattativa con Cosa Nostra.

Si apprese infatti a fatica che in quegli attimi dolorosissimi per la coscienza della nostra povera nazione, in cui si sarebbe dovuta attendere una reazione ferma e durissima da parte delle istituzioni, una parte della politica, dell’arma dei carabinieri e dei servizi segreti trattavano con il nemico per arrivare ad una tregua con la mafia. Nella tristissima vicenda ci sono dentro anche i leader di oggi: il premier Silvio Berlusconi e il suo braccio destro Marcello Dell’Utri che, tra il ’93 e il ’94, proprio nei giorni in cui stava nascendo Forza Italia, furono informati, secondo il pentito Giovanni Brusca, di tutti i retroscena delle stragi. Quello stesso Dell’Utri che, secondo il figlio di don Vito Ciancimino, prese il posto del padre come controparte politica di Cosa Nostra, ponte di collegamento tra gli interessi mafiosi e gli interessi pubblici.

Ma se di questa ignobile trattativa intavolata si era già a conoscenza, stando a quanto si apprende dai verbali delle pubbliche udienze, ciò che di nuovo emerge oggi riguarda la tempistica di questa trattativa. Quello che si evince dalle parole di Martelli, è infatti la retrodatazione di questa trattativa tra Stato e Antistato. Secondo l’allora colonnello Mori, oggi generale, la trattativa sarebbe iniziata i primi di agosto, quando Paolo Borsellino era stato già ucciso a Via D’Amelio; secondo l’allora Ministro di Giustizia invece la data sarebbe da collocarsi sicuramente prima della morte del magistrato, essendone stato informato già il 23 maggio. Questo nuovo scenario cambia ovviamente tutto, l’intera ricostruzione della strage. Qualcosa, infatti, pare muoversi nella procura di Palermo. Le rivelazioni di Martelli hanno già prodotto degli effetti, sebbene indirettamente.

Nell’indagine sulla trattativa tra mafia e Stato, infatti, il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e il sostituto procuratore Nino De Matteo hanno iscritto i nomi dei primi indagati. Si tratterebbe di due mafiosi, la cui identità è ancora top secret e per loro s’ipotizza il reato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato ex articolo 338 del codice penale. Se è vero, come è vero, che nell’Italia dei misteri Cosa Nostra dialoga con lo Stato dai tempi della strage di Portella della Ginestra, è anche vero che questa è la prima volta, nella storia della Repubblica, che i nomi dei protagonisti finiscono nel registro degli indagati.

Ovviamente, però, il cuore della vicenda sta nell’accertare le eventuali responsabilità dei protagonisti di quel dialogo sulla sponda istituzionale. Accertare quindi e comprendere chi erano gli interlocutori dei mafiosi. Ma non sarà un’impresa facile. Nicola Mancino, al tempo dei fatti Ministro degli Interni e oggi vice presidente del CSM, non ricorda di aver incontrato Paolo Borsellino, nonostante il magistrato avesse segnato il suo nome sulla sua agenda il 1 luglio 1992, accanto al nome di Parisi, allora capo della Polizia. “ Forse gli strinsi la mano fra le centinaia di persone che si congratulavano per la mia nomina a Ministro degli Interni, ma non gli parlai”. Appare tuttavia molto strano che un personaggio a capo delle questure di tutta Italia, simbolo della difesa dell’ordine costituito, abbia problemi a ricordare di un incontro con quello che allora era l’immagine vivente della lotta alla mafia. Un viso che di certo non si poteva non conoscere.A questo si aggiunga che molti dei protagonisti di quei giorni fanno il suo nome come garante della sporca trattativa: il figlio di Don Vito Ciancimino, il pentito Brusca e persino Riina. Ma lui nega tutto ovviamente.

Intervistato da Marco Travaglio, per il Al Fatto Quotidiano, alla domanda su come giudicasse la trattativa, ormai assodata, tra Stato e mafia, Mancino risponde: “Mori ha ottenuto un ottimo risultato: la cattura di Riina, capo dell’ala stragista di Cosa Nostra, mentre Provenzano guidava i trattativisti. È certo, dalle carte processuali, che quell’arresto si deve ai colloqui con Ciancimino, che aiutò a individuare sulle mappe topografiche il famoso covo”. Purtroppo non si fa parola della contropartita dello Stato. Forse la mancata protezione di Borsellino? (la circolare del ROS in cui Di Pietro e Borsellino venivano considerati come i prossimi bersagli dopo la morte di Falcone arrivò solo all’attuale leader dell’Idv, che ebbe modo di lasciare l’Italia sotto copertura). La mancata perquisizione del covo di Riina, il mancato arresto di Provenzano nel ’95, la mancata sorveglianza di don Vito Ciancimino a cui fu data la possibilità di incontrare il superlatitante Provenzano fino al 2002?

Insomma quello che chiunque definirebbe un compromesso onesto e pulito. Alla fine della storia, però, rimangono le morti di due magistrati colpevoli di aver svolto il loro lavoro, mentre personaggi come Nicola Mancino, il generale Mori, il capitano De Donno hanno fatto carriera.


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