di Giovanni Gnazzi

Ha fatto un misero 13% di share, il soliloquio del cavaliere a “Porta a Porta”, quasi come un programmino qualunque. Il risultato é stato il seguente: 3.219.000 telespettatori, con uno share del 13,47%: uno dei più bassi registrati da “Porta a Porta”. Una figuraccia a reti unificate. Tolto Ballarò, tolto Matrix, all’87% della popolazione telecomandata altro non è rimasto che vedere Gabriel Garko in “Onore e rispetto” o la Champions League di calcio con Juventus e Milan. Insomma, il peana a reti unificate, il microfono unico per la telecamera unica, dal salotto della trasmissione unica, è stata l’ennesima mazzata per il comandante in nano dell’etere. Un bilancio simile a quello di un bollettino di regime. Arrivato in studio per pavoneggiarsi con il giornalista-spalla, l’emulo italiano di Ceausescu si è lanciato a testa bassa contro tutto e tutti, ma non l’ha visto quasi nessuno.

La trasmissione unica era stata presentata come una necessaria opera del servizio pubblico in omaggio all’Abruzzo martoriato dal terremoto. Invece è stata un comizio di Berlusconi a suo uso e consumo. Giocava in casa, perché nello studio del conduttore unico si celebrava l’operetta: i prefabbricati della Croce Rossa diventavano, come d’incanto, le case del governo ai terremotati. L’opposizione assente, le voci abruzzesi silenziate, il sultano sciorinava sondaggi e minacce, con il sodale intento a costruire bronci studiati in favore di telecamere per tentare di dare una parvenza di serietà alla pagliacciata.

Di domande degne di tal nome nemmeno a parlarne: un conduttore unico non può inventarsi giornalista. Prova ne sia che quando l’utilizzatore finale (Ghedini docet) ha dato dei “farabutti” ai giornalisti del servizio pubblico, il conduttore prediletto si è ben guardato dall’alzare il neo e rispondere alle contumelie indirizzate ai colleghi e alla stessa azienda che gli paga il sontuoso stipendio. Comprensibile: un conto é l'editore, un altro conto é "l'editore di riferimento".

E, visto che si parla spesso di conti pubblici, andrebbe sottolineato - come fa Rizzo Nervo, consigliere di amministrazione Rai memore dell’obbligo del suo mandato - che é costata "poco meno di 500 mila euro"di mancati spot pubblicitari la puntata speciale di 'Porta a Porta' che ieri sera ospitava il presidente del Consiglio. I 500.000 Euro di perdita sono dovuti alla disdetta dei contratti da parte d’importanti inserzionisti che avevano acquistato gli spot all'interno di “Tutti pazzi per la tele” e di “Ballarò” e che non hanno accettato il cambio con “Porta a Porta” e il film 'La caduta'?".

"Chi si assume la responsabilità?", chiede Nino Rizzo Nervo, che chiama in causa il direttore generale Mauro Masi, ponendogli alcuni interrogativi e chiedendo di fare "chiarezza". Ottimista, Rizzo Nervo: se Masi dovesse chiarire le sue scelte dovrebbe cominciare a spiegare la differenza che passa tra un direttore generale del servizio pubblico con il suo lavoro. Impossibile. Non sarebbe male, invece, che la Corte dei Conti mettesse gli occhi su questo sperpero di denaro pubblico da parte di dirigenti pubblici, Masi in testa.

Quando scese in campo, il cavaliere, sosteneva che non avrebbe avuto bisogno di occupare gli spazi pubblici, dal momento che possedeva quelli privati. Anzi, senza tema di ridicolo, affermava che a fronte di un Emilio Fede che sì, davvero mostrava un affetto smisurato per lui, le altre emittenti del gruppo erano imbottite di sinistrosi e che la libertà d’espressione era più tutelata nelle sue Tv che in quella pubblica.

Il seguito della novella ha poi rimesso al suo posto le balle: la Tv pubblica non c’è più, essendo passata - armi, bagagli, consiglieri e direttori di maggioranza - a quella di re Silvio; quella privata, epurato anche l’ultimo dissenziente (ma moderatamente, molto moderatamente dissenziente) ha definitivamente fatto attraccare in rada tutta la flotta, allineata e disciplinata, fatta di vassalli, valvassini e valvassori. Peccato per lui - e buon per noi - che la flotta, ormai, ha cominciato ad imbarcare acqua. C'é il rischio che non riesca a stare a galla per molto.

di Fabrizio Casari

La polemica tra Gianfranco Fini e Bossi, esprime meglio di qualunque altro scambio d’accuse e rimbrotti quella, più generale, tra il Presidente della Camera e i berluscones. Perché lo scontro tra l’ambizioso e non più silente leader della destra italiana e i resti del fondatore della Lega, ha in sé non solo e non tanto lo scontro tra chi (anche per similitudini di gusti) difende a spada tratta “l’amico Silvio” e chi ritiene, invece, che Berlusconi sia ormai al crepuscolo. Dietro lo scontro tra il padano e Fini c’è tutta la portata della differenza di prospettive politiche del centro-destra: quando Bossi ricorda con il solito stile, garbato e sobrio, che la Lega comanda in virtù del suo numero di parlamentari e che, chi non è d’accordo con ciò, deve prepararsi al voto, conferma direttamente e indirettamente le perplessità (per usare un eufemismo) di chi ritiene che la "leghistizzazione" del Pdl sia la fine del progetto di una destra europea e di governo.

Certo, la sola esistenza di Berlusconi, si dirà, ha impedito - e, a maggior ragione oggi, impedisce - al Pdl di diventare un progetto politico compiuto. Il Pdl del predellino è solo il partito personale di un piccolo despota, ormai privo di misura, senso di sé, della decenza (quello delle istituzioni non l’ha mai intaccato) e capacità d’immaginare una sua eredità politica. Ma proprio qui sta il punto. Nel corso di questo quindicennio berlusconiano, che ha fatto strame della coscienza nazionale, delle istituzioni e della politica, tutti i leader dei partiti che sono confluiti nella cassaforte privata di Berlusconi hanno ritenuto - chi più chi meno - di doverlo appoggiare, nonostante l’imbarazzo, in attesa di riuscire a subentrargli non appena i tempi fossero maturi.

A questo proposito, sia la sua corsa al Quirinale, sia la sua uscita di scena per i motivi privati o pubblici più diversi, sembravano poter essere l’occasione per ereditare un regno senza essere re. Una sorta di lotteria, quella della successione, abilmente alimentata da Berlusconi stesso, che a corrente alternata indicava in Fini, Bossi o Tremonti, il suo “erede politico”. Quello però che ha reso tutto molto più incerto è che la scalata al Quirinale del cavaliere è definitivamente sepolta (se mai è stata in campo per qualcun altro all’infuori di Berlusconi stesso, e c’è da dubitarne seriamente), mentre la necessità di difendere il suo ruolo e i suoi affari (anche da se stesso e dai suoi comportamenti) non gli consente di mollare la presa, di cedere anche solo un metro del suo dominio assoluto sulla sua creatura.

Prova ne sia che il governo in carica ha letteralmente saccheggiato il Paese, espropriando a colpi di scimitarra le prerogative del gioco democratico in ogni campo. Un governo autoritario, un gigantesco esercizio di abuso e prepotenza come non s’era mai visto. Ciò non solo in funzione della famelicità onnivora del capo, ma anche in vista dell’autunno politico che il patriarca dovrà affrontare. Al punto in cui è arrivato, il sovrano non può perdere terreno, non può permettersi armistizi o tregue; la guerra, contro tutto e tutti, è la sua assicurazione unica per sopravvivere politicamente e crescere finanziariamente.

In pochi giorni Berlusconi ha avuto modo di attaccare la maggior parte della stampa europea, i Commissari Ue, la magistratura e il Parlamento. Confindustria e banche sono criticate in modo più soft, ma anch'esse sono sotto tiro tramite Tremonti. In questo quadro, di delfini o eredi inutile parlare. Conta la fedeltà e l’interesse politico reciproco. E qui le strade si dividono, inesorabilmente, tra Bossi e Fini. La rendita di posizione della Lega, che Berlusconi garantisce a cambio dei suoi voti, decisivi per vincere al nord, non può trovare Fini consenziente. Non solo per motivi personali, ma proprio per una cultura politica che, seppure di mala voglia, ha trovato una sintesi nel rifiuto della politica (Pdl) diverge radicalmente quando lo stesso Pdl è chiamato ad assumere un ruolo politico di prospettiva. Non è un caso che sia Tremonti l’uomo della Lega e che Fini stia sempre più stretto in una destra così impresentabile.

Bossi è l’antipolitica, i riti idioti e le furbizie politicanti; l’identità politica della Lega la si può trovare nel fondo del bicchiere di vino in osteria, mentre il suo cavalcare il malcontento e i luoghi comuni, il fascismo sociale e diffuso al nord, il suo accarezzare le frange estreme della destra nazistoide europea, appaiono più un bisogno di rafforzarsi strumentalmente, di rafforzare la sua identità, non certo di elaborare e analisi e prospettiva politica. Urla, ma pensa a sistemarsi, prova ne sia l'aver messo in secondo piano le grida contro Roma ladrona per occupare ogni strapuntino libero, ingrassandosi a spese dei conti pubblici e sfruttando la visibilità mediatica offertagli dalle tv del cavaliere nero.

Fini ha altro per la testa. La definitiva fuoriuscita dalle radici del Msi in vista della formazione di una destra europea, venata di gaullismo e peculiarità italiana. Una destra moderna, riposizionata in un’epoca dove non ci sono più bolscevichi da combattere e agrari da sostenere, ma dove il disordine internazionale e la crisi di leadership statunitense, l’incompiuto progetto europeo, le contraddizioni del modello di sviluppo, la crisi degli stati-nazioni, l’incertezza identitaria dei popoli, obbligano ad un ripensamento generale di tipo sistemico. Altro che secessione e longobardi, altro che acqua del Po e Boeghezio: Fini ha un’idea della destra come destra europea, che assume le coordinate generali del sistema politico democratico che possono essere aggiustate alle singole specificità, ma che non possono considerarsi alternative al sistema di rappresentanza previsto dalla democrazia,anche quando fosse solo formale.

In questo contesto, dunque, Fini si stacca. Prende forma ogni giorno di più il progetto che tenterà di disarcionare il cavaliere prima che, alla maniera di Caligola, deponga lo scettro sul suo cavallo. E’ ormai dato per molto probabile che Berlusconi non finirà la legislatura in modo naturale: dimissioni ed elezioni anticipate sembrano lo sbocco unico a questa crisi di assetti interni. Da molte parti – grande finanza, banche, imprenditoria, sindacati, magistratura – non se ne può più di questo governo (peraltro inutile sul piano delle riforme e del contrasto alla crisi economica) e ci s’industria per capire come mandarlo a casa prima e sostituirlo poi con un progetto d’unità nazionale. Casini, Rutelli e i suoi Teo-dem, Fini, la stessa partecipazione comprimaria del Pd è l’ipotesi che stà prendendo forma. Può far storcere (giustamente) la bocca sentir solo parlare di “unità nazionale”, ma tutto appare lecito e, se non risulta condivisibile, quanto meno appare come male minore, quello di uno sbocco che restituisca il Cavaliere ai suoi cari e l’Italia alla civiltà politica.

di Mariavittoria Orsolato

Trent’anni fa Renato Zero cantava le gesta e le imprese di una mamma Rai che diceva solo il vero e che amava i suoi dipendenti come se, appunto, fossero figli. Per quanto di “figli di” ne siano passati molti - e continuino tutt’ora a transitarne - ora mamma Rai sembra essere diventata più arcigna. Soprattutto verso quella parte di famiglia che non rinuncia ad informare correttamente su quello che accade nel belpaese e che perciò viene definita da Premier e affini “disinformazione cattocomunista” da cui la “povera Italia” dovrebbe difendersi. E’ notizia di pochi giorni fa che “Report”, il pluripremiato programma d’inchieste condotto da Milena Gabanelli, non riceverà più la copertura legale dall’azienda, mentre martedì Michele Santoro ha inviato ai dirigenti di rete una lettera in cui si doleva del fatto che, a meno di due settimane dalla messa in onda del suo “Annozero”, non ci sia ancora un contratto firmato. Ma andiamo per ordine.

L’avvicendamento alla presidenza della tv pubblica, nella persona del giornalista di La Repubblica Paolo Garimberti, pare non aver giovato alla continua guerra intestina che da anni si consuma dietro al tavolo del consiglio di amministrazione. La costante lottizzazione a senso unico della tv di stato ormai non basta a un Berlusconi sempre più alla berlina di Chiesa e comunità internazionale. Le notizie dei suoi vizi e dei suoi fallimenti politici continuano a trapelare, nonostante il compagno Minzo e la schiera di addetti ai lavori facciano di tutto per edulcorarle e abbellirle in tempo per le principali edizioni dei tg.

Stavolta non ci sono stati editti plateali, nessuna testa da tagliare è stata esplicitata, ma a viale Mazzini la nuova stagione televisiva deve avere un volto diverso. Lo insinua Palazzo Chigi e lo conferma ulteriormente la bagarre che sta travolgendo Rai 3, la sua dirigenza e soprattutto il suo palinsesto. Il 26 agosto Giorgio Van Straten, consigliere della commissione parlamentare di vigilanza in quota Pd, denunciava l’avvicendamento alla direzione di rete come un tentativo di
censurare non tanto l’attuale direttore Paolo Ruffini, quanto l’intera rete.

Se non vivessimo in Italia, strangolati da paradossi sociali e ossimori politici di ogni genere e sorta, sembrerebbe un sacrilegio applicare l’odioso principio dello spoil-system ad una rete che resiste degnamente al passaggio da una piattaforma di trasmissione a un'altra, perdendo solo lo 0,8% cento di share, rispetto al 4% totalizzato dalle due sorelle maggiori. Dato che la qualità non interessa ai piani alti di viale Mazzini, dovrebbe convincerli almeno la quantità di raccolta pubblicità che una rete considerata marginale riesce ad accaparrasi.

Questo sempre se non vivessimo in Italia. Ma purtroppo il fato ha deciso di destinarci in questo stivale insozzato, e così accade che ottimi programmi come “Parla con me”, “Che tempo che fa” ed appunto “Report” ed “ Annozero”, vengano messi in discussione sulla base di millantate minacce alla veridicità e alla bontà del sistema informativo. E la censura, perché è di questo che si tratta non giriamoci attorno, in questi casi è ancor più bieca e vile dal momento che non si perpetra a viso aperto ma si consuma grazie a prerogative dirigenziali apparentemente blande, al limite del banale.

Prendiamo il caso di Report. Al contrario di molte altre trasmissioni, quello di Milena Gabanelli è un format che si regge sulla collaborazione di validissimi freelance il che significa che nessuno dei giornalisti ha un contratto di lavoro con la Rai, ma semplicemente opera autonomamente per conto di quest’ultima. Levare la tutela legale a questi professionisti significa abbandonarli inermi alle centinaia di querele pretestuose, ma pur sempre milionarie, che personaggi come Tremonti o Ligresti intentano in nome della loro lesa maestà.

Senza l’appoggio del team legale della Rai, gli autori della trasmissione sarebbero costretti a sobbarcarsi autonomamente le spese di processi che, seppur sempre terminati con piene assoluzioni, necessitano di tempi biblici per arrivare a conclusione e questa prospettiva è in grado di metter a tacere anche il più impavido tra gli zelanti. E purtroppo non consola il fatto che 30 avvocati abbiano offerto il loro patrocinio gratuitamente.

Stesso copione ma modalità diverse per il programma di Santoro. Se all’inizio la questione verteva sull’affiancamento obbligatorio di un “giornalista di destra” al (che non ce ne voglia) sinistrorso Marco Travaglio, ora il problema sta nel fatto che nessun contratto di collaborazione alla trasmissione è stato firmato. Senza giornalisti, né tecnici di ripresa, né registi é parecchio difficile mandare in onda un programma previsto in palinsesto per il 24 settembre. Il povero Mike Bongiorno diceva sempre che da Mediaset nessuno veniva cacciato, ma se ne andava di propria iniziativa. Non stentiamo a crederlo, le ghigliottine stanno ancora tutte a viale Mazzini.

di Giovanni Gnazzi

C’è tutto l’italico paradosso del prepotente contro le sue vittime nelle ultime declamazioni del Presidente del Consiglio. Testo e contesto sono quelli noti: il premier denuncia chi domanda, invocando il diritto alla privacy da un lato e il governo della cosa pubblica dall’altro; il giornalista di casa porge le domande con la grazia richiesta. Non sono in odore di Pulitzer e nemmeno di Premio Saint Vincent i giornalisti dei numerosi house organ, che nel momento di massimo vigore e schiena dritta arrivano a fare domande tremende, dall’indubbia irriverenza, tipo: come si sente, presidente? Oppure: è ottimista circa il futuro dell’Italia? Per gli altri, quelli che non stipendia, c’è la magistratura. Qui la vigliaccheria è doppia, perché oltre ad essere una querela di un miliardario contro dei salariati, è un procedimento di chi, anche se perde in aula, non può essere condannato in quanto immune, grazie alle leggi che si è fatto confezionare su misura.

di mazzetta

Quando nel corso degli umani eventi si rende necessario ad un popolo sciogliere i vincoli politici che lo legano a una leadership corrotta e tragicamente ridicola, devono cadere le barriere di classe, censo e orientamento ideologico; l'interesse comune deve avere ragione di qualsiasi resistenza o interesse particolare e la leadership deve essere rimossa quanto prima possibile. Ogni esitazione costa denaro e sofferenze e allungare l'agonia non è di nessuna utilità. L'Italia è indubbiamente il paese più corrotto tra tutti i paesi sviluppati. È anche il paese avanzato con la libertà d'informazione più compromessa. È inoltre il paese con il debito pubblico più elevato. Questi tre record non preoccupano l'attuale presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, che anzi ha ampiamente contribuito a consolidarli.


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